La prossima estate sarà rovente, ma l’IA non sa ancora come dircelo. L’intelligenza artificiale promette di anticipare le ondate di calore, ma i suoi modelli climatici imparano da un pianeta che non esiste più.
Così, mentre l’Europa si prepara a una delle estati più calde della storia, la macchina che doveva prevedere il caldo finisce per alimentarlo consumando energia, dati e fiducia.
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Così l’IA del CMCC prova ad anticipare le ondate di calore europee
In Europa, un sistema appena sviluppato dal Centro Euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici (CMCC), utilizza reti neurali avanzate per anticipare di diverse settimane i picchi di calore che colpiranno il continente.
Una promessa straordinaria, in un anno che, secondo le proiezioni meteorologiche, sarà tra i più torridi mai registrati.
Secondo i dati del Copernicus Climate Change Service (C3S), l’ottobre 2025, appena conclusosi, è stato il terzo più caldo della storia, e l’anno nel suo complesso è “sulla buona strada per entrare tra i tre più caldi di sempre”.
Una congiuntura che rende la previsione climatica senz’altro urgente.
Come funziona l’AI climatica
Tecnicamente, il sistema del CMCC non “legge” le condizioni meteo come farebbe un bollettino tradizionale. Infatti apprende i segnali lenti che anticipano le ondate di calore, per esempio la disposizione delle correnti atmosferiche, le anomalie di temperatura superficiale degli oceani, la circolazione stratosferica, l’umidità del suolo.
Per farlo, l’IA viene addestrata su enormi serie di dati climatici simulati e osservativi, che ricostruiscono il comportamento dell’atmosfera e degli oceani dal 1850 a oggi.
In pratica, “impara” a riconoscere nel caos meteorologico quelle configurazioni statistiche che, in passato, hanno preceduto un’ondata di calore.
Una volta addestrata, la rete neurale è in grado di generalizzare e prevedere quanto sia probabile che tali condizioni si ripresentino nelle settimane successive.
Il clima non si addestra: i limiti dell’AI climatica predittiva
È un approccio radicalmente diverso dai modelli meteorologici deterministici: invece di calcolare equazioni fisiche passo per passo, l’algoritmo riconosce pattern e probabilità.
In teoria, questa intelligenza dovrebbe riuscire dove la fisica pura si ferma. Intende prevedere eventi estremi che nascono da interazioni complesse e non lineari.
Tuttavia, dietro la brillante promessa si nasconde la trappola della memoria.
I cambiamenti climatici sono un game changer per l’AI climatica
Che cosa vede e può prevedere davvero questa AI climatica? Per prevedere il futuro, infatti, l’algoritmo studia climi antichi, ricostruiti digitalmente a partire da un mondo pre-industriale. Ha quindi il passato come maestro.
Se il presente non assomiglia più a nulla di ciò che è venuto prima, quanto può davvero imparare una macchina da un pianeta che non esiste più? Ogni previsione ha comunque un prezzo: quello energetico dei data center che la rendono possibile, e quello cognitivo di un sapere che rischia di sostituirsi al giudizio umano.
È qui che l’intelligenza artificiale del clima rivela il suo limite: nata per ridurre l’incertezza, finisce per crearne di nuove.
L’AI climatica e la trappola della memoria
L’elemento più affascinante (e inquietante) del nuovo sistema è proprio la sua base di conoscenza: l’algoritmo è addestrato su climi del passato.
Ricostruzioni storiche, serie di dati, simulazioni al computer che tentano di riprodurre l’atmosfera terrestre prima dell’era industriale.
In altre parole, il “cervello digitale” che dovrà dirci quanto farà caldo nel 2025 e nel 2026 ha imparato da un pianeta in cui l’Antartide non si stava ancora sciogliendo e la concentrazione di CO₂ non aveva superato le 300 ppm.
Il paradosso della data archaeology
Interrogare l’AI climatica, addestrata su un passato che è cambiato, è un po’ come chiedere a un ornitologo del XIX secolo di spiegare il comportamento dei droni. La competenza sul volo è innegabile, ma l’oggetto dell’osservazione è cambiato.
Le AI climatiche imparano correlazioni, pattern, relazioni statistiche e, se quei pattern si basano su regimi atmosferici che non esistono più, il rischio è che l’algoritmo veda ordine laddove in realtà regna l’incertezza.
Dietro ogni modello predittivo c’è infatti un atto di fede che consiste nel credere che il passato contenga le chiavi del futuro. Bisogna però considerare che il clima del XXI secolo non sembra più un’evoluzione del passato, ma ne è piuttosto una mutazione.
L’uso massiccio di climi sintetici (data archaeology, come la definiscono i climatologi) introduce un paradosso, in quanto l’algoritmo “crede” di comprendere dinamiche atmosferiche che in realtà non esistono più, perché sono state travolte da retroazioni, sfasamenti e cicli alterati dall’attività umana.
Questo genera due effetti collaterali prevedibili: la sensazione di precisione e la perdita del senso dell’incertezza.
Chi consulta un modello che indica, per esempio, l’”85 % di confidenza” tende a fidarsi, dimenticando che quella percentuale vale solo finché il sistema resta stabile, cosa che oggi non sembra più vera.
Il numero nasconde un vuoto, poiché la macchina non sa che il sistema che sta analizzando non è più stazionario.
È come se la bussola magnetica si affidasse a un polo che si sposta ogni anno.
Energia, acqua, infrastrutture: la fragilità fisica dell’AI
C’è poi l’altra faccia della medaglia, più materiale. Queste previsioni “verdi” sono prodotte da un’industria che di verde ha ben poco, dal momento che è costituita da data center energivori, processi di addestramento che consumano migliaia di megawattora, sistemi di raffreddamento che richiedono acqua in quantità tali da competere con quella destinata all’agricoltura.
Secondo l’Öko-Institut, il fabbisogno energetico globale dei data center potrebbe raddoppiare entro il 2030.
In un’Europa che rischia blackout estivi per eccesso di domanda elettrica, affidare la previsione climatica a infrastrutture che dipendono dall’energia stessa che il caldo mette sotto pressione sembra un ossimoro perfetto.
Bias climatici e governance algoritmica: chi interpreta le previsioni
La scienza dell’IA non è neutrale, nemmeno quando parla di nuvole. Dietro ogni modello ci sono scelte ben precise su quali dati includere, come pesare un’anomalia, cosa considerare “normalità”.
L’addestramento su climi storici, ad esempio, privilegia le dinamiche dell’Europa
occidentale, dove le serie dati sono più complete.
Tuttavia, l’ondata di calore del 2022, alimentata da masse d’aria calda provenienti dal Nord Africa e propagate verso l’Europa occidentale, ha mostrato come le nuove traiettorie atmosferiche non rispettino più i confini climatici tradizionali né quelli dei dataset storici.
La responsabilità
Se un algoritmo sbaglia una previsione e un’amministrazione locale non si prepara, chi risponde? Il climatologo? L’ingegnere dei dati? Il decisore politico che ha affidato la resilienza al calcolo? L’AI Act europeo impone obblighi di trasparenza e di spiegabilità sui sistemi ad alto rischio (per esempio attraverso l’art. 13, trasparenza verso gli utilizzatori) e l’art. 50 (informazione all’interazione), ma, nella pratica della modellazione climatica, con reti neurali altamente complesse e non-stazionarie, questi concetti scontano forti limiti.
La verità è che oggi nessuno sa davvero perché certi algoritmi climatici producano determinate correlazioni; eppure, da quelle correlazioni dipendono scelte su salute pubblica, agricoltura, approvvigionamento idrico.
Tra techno-soluzionismo e rimozione politica
La tentazione diffusa di pensare che l’IA ci libererà dalla necessità di cambiare, potrebbe inoltre fornirci la convinzione che possiamo prevedere l’ondata di calore, possiamo gestirla, quindi possiamo continuare come prima.
È una logica di techno-soluzionismo, che sposta il problema dal piano politico a quello tecnico.
La crisi climatica è però una questione di azione, non soltanto di predizione e il rischio è che l’IA diventi la nuova retorica della rassicurazione e una sorta di dispositivo di delay: rimandare le decisioni strutturali (sul consumo energetico, sulle città, sui trasporti) dietro la promessa di una tecnologia salvifica.
Così, mentre la macchina calcola, le città si surriscaldano, le reti si sforzano, i pozzi si prosciugano.
La fiducia nella previsione potrebbe diventare una nuova forma di dipendenza.
Il costo nascosto della macchina che pensa
Parlare di AI climatica senza parlare del suo impatto fisico significa restare nella metafora.
Ogni rete neurale è costruita su rame, silicio, plastica, litio, e su acqua, quella che serve per raffreddare i server. Ogni “epoca di addestramento” è una spesa termica ed ogni miglioramento di accuratezza di un decimale costa energia.
In questo meccanismo l’IA per il clima consuma clima, visto che per capire il caldo, contribuisce al riscaldamento.
È una macchina che analizza la febbre del pianeta e, al tempo stesso, la alimenta con la propria temperatura di calcolo.
Forse non è un caso che la metafora dominante sia quella del training: un allenamento continuo, sudato, energivoro. In definitiva, la nostra intelligenza artificiale è, letteralmente, una macchina che suda.
Il futuro non assomiglia più a nulla che la macchina abbia mai visto
Non sembra più possibile considerare il clima del futuro come un prolungamento del passato, in quanto è piuttosto una discontinuità permanente.
Mentre l’Europa si prepara all’estate più calda della sua storia, continuiamo a cercare sicurezza in modelli nati per un mondo più stabile. E forse è arrivato il momento di cambiare visione, considerando che la vera resilienza consiste nel saper reagire a ciò che nessun modello aveva previsto.
Imparare dal passato è utile, ma per allenarsi all’imprevedibile. Servono algoritmi capaci di apprendere anche dagli errori, di aggiornarsi in tempo reale, di integrare conoscenze umane e locali: agronomi, amministratori, cittadini, che vivono i segnali deboli prima che diventino emergenze.
Serve soprattutto una governance che, anziché delegare tutto alla macchina, usi l’AI come strumento di preparazione, usando l’intelligenza collettiva, in una società capace di adattarsi ai dati, così come ai propri limiti cognitivi.
In un mondo che cambia più velocemente dei suoi algoritmi, la previsione migliore resta sempre la capacità di reazione.












