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Ripensare la crescita: modelli economici sostenibili per il XXI secolo



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I modelli economici sostenibili rappresentano una risposta urgente alle sfide del nostro tempo. In un contesto globale segnato da crisi ambientali, disuguaglianze crescenti e accelerazione tecnologica, ripensare la crescita non è solo un’opportunità ma una necessità strutturale

Pubblicato il 8 mag 2025

Stefano Epifani

Presidente della Fondazione per la Sostenibilità Digitale Autore del libro “Sostenibilità Digitale: perché la tecnologia non può fare a meno della trasformazione digitale”



economia circolare

Il dibattito sulla sostenibilità negli ultimi tempi – e ben da prima della radicalizzazione delle posizioni statunitensi – ha subito una sterzata significativa, e nella riflessione su scala globale che tocca dimensioni economiche, sociali, ambientali e tecnologiche è sempre più urgente ragionare sugli impatti di un tema che troppo spesso è stato vissuto (e gestito) più come un vincolo normativo che non come un’opportunità di sviluppo. Troppo spesso il dibattito sulla sostenibilità rimane ancorato a una retorica astratta, contabilistica, scollegata dalla realtà dei processi che hanno guidato la trasformazione del mondo. Per costruire, ancor prima che un futuro, un presente sostenibile è viceversa necessario affrontare, con lucidità e rigore, la questione alla radice: la necessità di ripensare i nostri modelli di crescita ed il ruolo della tecnologia in essi.

Una normalità costruita sulla crescita

Il modello di sviluppo occidentale ha garantito, negli ultimi due secoli, un progresso materiale senza precedenti. I dati storici sono incontrovertibili: all’inizio del XIX secolo, in Italia, la speranza di vita si attestava intorno ai 35 anni. Oggi supera gli 80. La mortalità infantile è crollata, l’orario lavorativo si è ridotto, l’accesso all’istruzione e alla sanità è divenuto universalmente diffuso. Tutto ciò è stato reso possibile da una crescita continua, fondata su processi di industrializzazione, urbanizzazione, specializzazione produttiva e intensificazione degli scambi commerciali.

Tuttavia, ciò che ha funzionato nel passato non può essere assunto come invariante. Il modello lineare di sviluppo – estrai, produci, consuma, smaltisci – si scontra oggi con i limiti del pianeta e con l’accelerazione delle disuguaglianze globali. Se fino ad oggi la crescita economica è stata la leva principale per il benessere, oggi essa rischia di diventare – se non opportunamente reindirizzata – un fattore di instabilità sistemica.

La fallacia della crescita infinita

Il concetto stesso di crescita infinita è logicamente insostenibile in un sistema chiuso come quello terrestre. Anche in natura. ogni organismo biologico si deve misurate con i limiti naturali del proprio sviluppo: un vitello, ad esempio, cresce di un chilo al giorno nei primi mesi, ma non potrebbe farlo all’infinito senza collassare. Eppure, continuiamo a trattare l’economia come se fosse un vitello destinato a crescere indefinitamente. Ecco allora la necessità di strumenti alternativi come il BES (Benessere Equo e Sostenibile) e il Better Life Index dell’OCSE, che integrano dimensioni qualitative, ambientali e sociali. E che si basano su un principio: ogni sistema complesso cresce in modo diverso in funzione della fase specifica del suo ciclo di vita.

La trappola della decrescita

Di fronte all’insostenibilità della crescita lineare, alcuni propongono modelli di “decrescita felice”. Ma l’idea di decrescita, se intesa come contrazione generalizzata dell’attività economica, appare incompatibile con la gestione di una popolazione globale di oltre otto miliardi di individui. Una riduzione di scala di questa portata implicherebbe necessariamente tagli draconiani ai servizi, alle infrastrutture e al tessuto produttivo, con conseguenze drammatiche sul piano sociale. Il problema non è la crescita in sé, ma la sua qualità, le modalità attraverso cui viene perseguita e gli indicatori con cui viene misurata. La decrescita felice è un fallimento mascherato da ideale: dobbiamo farcene una ragione.

Verso un’economia circolare

Il superamento del modello lineare richiede invece di abbracciare modelli diversi. Tra questi una transizione verso un paradigma circolare, in cui le risorse vengano utilizzate in modo rigenerativo. L’economia circolare si fonda su cinque principi guida: Ridurre, Riutilizzare, Riciclare, Riparare e Rinnovare. Questo approccio non implica un ritorno nostalgico al passato, ma un uso intelligente delle tecnologie per chiudere i cicli produttivi e ridurre l’impronta ecologica.

La rigenerazione dei beni, la modularità dei prodotti, l’estensione del ciclo di vita degli oggetti, la valorizzazione dei materiali di scarto sono tutti elementi cruciali. Tuttavia, per evitare che l’economia circolare diventi un semplice strumento di greenwashing, è necessario affiancare all’innovazione tecnologica una trasformazione culturale e normativa di ampio respiro.

Anche la pubblica amministrazione può e deve abbracciare i principi dell’economia circolare, trasformando il proprio approccio alla gestione delle risorse, dei processi e delle tecnologie. Il riuso, in particolare, è esplicitamente previsto dal Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD), che all’art. 69 sancisce l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di favorire il riutilizzo di soluzioni applicative esistenti per evitare duplicazioni e ottimizzare l’uso delle risorse digitali (Decreto Legislativo 7 marzo 2005, n. 82, art. 69).

Applicare le cinque R alla PA significa:

  • Ridurre gli sprechi nella gestione dei dati, dei documenti e dei servizi, promuovendo la semplificazione amministrativa e la digitalizzazione intelligente.
  • Riutilizzare software, buone pratiche e infrastrutture digitali già disponibili, attraverso piattaforme condivise e open source.
  • Riciclare competenze, dati e tecnologie esistenti, valorizzandoli in nuovi contesti organizzativi e progettuali.
  • Riparare i processi obsoleti e inefficaci, intervenendo con aggiornamenti normativi e reingegnerizzazione dei flussi.
  • Rinnovare la cultura organizzativa della PA, promuovendo l’innovazione responsabile e sostenibile come leva strategica di cambiamento.

In questo modo, l’amministrazione pubblica non solo diventa più efficiente e trasparente, ma può anche fungere da esempio virtuoso per cittadini e imprese in un percorso condiviso verso la sostenibilità.

Le tecnologie digitali come leve abilitanti

La digitalizzazione può giocare un ruolo cruciale nella transizione verso un modello di crescita sostenibile. Tecnologie come l’Internet of Things, l’intelligenza artificiale e la blockchain consentono un monitoraggio in tempo reale delle risorse, la tracciabilità dei materiali lungo la filiera e l’ottimizzazione dei processi produttivi. L’economia dei dati può abilitare modelli di consumo più consapevoli, piattaforme di sharing economy, logiche di manutenzione predittiva, e infrastrutture energetiche intelligenti. Tuttavia, l’adozione di queste tecnologie deve essere orientata da una governance capace di mitigarne gli impatti negativi e di garantire un accesso equo ai benefici che esse generano. Il rischio, altrimenti, è che la digitalizzazione aggravi le disuguaglianze esistenti, consolidando monopoli informativi e rafforzando asimmetrie di potere tra centro e periferia, tra Nord e Sud globale, tra grandi conglomerati tecnologici e piccoli attori economici.

Queste considerazioni assumono un rilievo ancora maggiore nell’attuale contesto geopolitico, segnato da una crescente balcanizzazione del digitale. Le recenti posizioni adottate dagli Stati Uniti, che spingono verso un decoupling tecnologico rispetto a Paesi considerati rivali strategici, stanno frammentando l’ecosistema digitale globale, ostacolando la cooperazione transnazionale e l’interoperabilità dei sistemi. In tale scenario, l’uso sostenibile e condiviso delle tecnologie diventa un atto politico oltre che tecnico. Promuovere infrastrutture digitali aperte, favorire il riuso di soluzioni e standard comuni, investire in sovranità tecnologica e accesso equo al dato sono scelte strategiche fondamentali per contrastare l’isolamento digitale e garantire che l’innovazione sia davvero al servizio della sostenibilità, e non uno strumento di nuova egemonia economica o ideologica.

La sfida globale della governance differenziata

Uno degli aspetti più critici nella transizione verso la sostenibilità è la disomogeneità dei contesti socioeconomici globali. Non si può chiedere a economie in fase di espansione demografica e industriale, come quelle dell’Africa Sub-Sahariana o del Sud-Est Asiatico, di adottare gli stessi standard di circolarità e decarbonizzazione dei paesi sviluppati. Per questi ultimi, la priorità è riconvertire, mentre per altri è ancora costruire.

Servono quindi modelli differenziati, politiche multilivello e strumenti finanziari orientati al sostegno delle transizioni locali. L’universalismo normativo – ad esempio nella definizione degli standard ESG – rischia di essere inefficace o persino controproducente se non è accompagnato da una reale capacità di adattamento ai contesti specifici. Il passaggio da una crescita quantitativa a una crescita qualitativa non è un’opzione, ma una necessità sistemica. Richiede un cambio di paradigma nel modo in cui concepiamo il valore, la produttività, la ricchezza. Richiede una riformulazione degli incentivi, una revisione delle metriche, una nuova architettura istituzionale e un patto intergenerazionale che dia senso al futuro.

La tecnologia è una leva potente e neutra in sé, ma non nei suoi effetti. Occorre governarla, indirizzarla, modularla. Occorre un cambiamento culturale che restituisca centralità al concetto di limite, non come freno, ma come condizione per la resilienza dei sistemi. Abbiamo beneficiato di un modello che ha funzionato. Ora abbiamo il compito, e la responsabilità, di ripensarlo. La sostenibilità non è nostalgia del passato, ma intelligenza del futuro.

Per un approfondimento su questi temi, è possibile ascoltare l’episodio completo del podcast Sostenibilità Digitale dedicato al tema della crescita sostenibile:

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