L’Unione Europea, pur avendo finalmente inserito il sostegno alle startup tra le proprie priorità quantomeno nominalmente, sembra ancora seguire un percorso contraddittorio nel formulare le ricette per far crescere il venture capital continentale e recuperare il gap con il nord America nella creazione di nuovi campioni globali nei settori trasformati dalla tecnologia.
Ma contemporaneamente gli operatori degli Stati Uniti, dove l’industria dell’innovazione è nata e continua a evolversi, sembrano iniziare a muoversi verso una nuova trasformazione evolutiva del settore.
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Il modello top-down dell’Europa vs il bottom-up degli USA
L’approccio tra le due macrozone economiche sembra seguire percorsi radicalmente diversi: l’Europa cerca di perseguire un obiettivo statico, tentando azioni legislative e governative su modello top-down, mentre gli Stati Uniti procedono all’interno dell’usuale perimetro legislativo, in cui sono gli addetti ai lavori a evolvere continuamente l’approccio in modalità bottom-up, adattando le pratiche per renderle sempre più efficaci o adatte ai mutamenti di scenario, e perseguendo un solo mantra: il successo.
Le difficoltà culturali e regolamentari in Europa
La divergenza di approccio legislativo tra un modello dirigistico e una libera evoluzione guidata dal mercato sembra essere molto simile a quella che si osserva tra le metodologie degli attori tra le due sponde dell’Atlantico: se un ecosistema maturo quale è quello statunitense opera senza lacci ideologici, semplicemente sulla base delle continue evidenze prodotte dalla pratica di cosa funziona e cosa no, viceversa un ecosistema immaturo si fonda sui bias, su convinzioni scollegate dall’evidenza.
Questo è esattamente il caso della scena europea, in cui tanto i regolatori quanto svariati professionisti dell’investimento e gestori del risparmio continuano ad approcciare al Venture Capital come a un sottocapitolo del Private Equity, asset class che in comune con il Venture Capital ha ben poco se non la profezia autoavverante del ricadere sotto una regolamentazione simile, che costringe chi lavora nel Venture Capital a comportarsi in modo simile a un gestore di Private Equity.
L’evoluzione del Venture Capital negli Stati Uniti
Il gap tra i due continenti, che è lungi dal colmarsi, rimane sostanzialmente motivato da una ragione culturale: in UE si tenta di creare e finanziare nuova impresa senza stravolgere i paradigmi industriali, le dottrine economiche, i modelli finanziari e le sovrastrutture regolamentari del XX secolo, consolidatesi intorno alle filiere tradizionali e intorno all’idea che i finanziamenti si basino sull’abbattimento del rischio. O quanto meno trascinandosi la legacy di questi schemi tentando di applicarli per similitudine all’economia dell’innovazione. Viceversa, gli Stati Uniti sono sempre slegati da qualsiasi legacy e difesa dello status quo, avendo interiorizzato che l’innovazione di successo non è il prodotto certo di una progettualità di dettaglio ma un probabile risultato – tra i molti insuccessi – di una vera e propria industria dell’innovazione che itera azioni abilitanti in uno scenario favorevole all’emersione di tentativi di impresa ad altissimo potenziale.
La chiave dei diversi modelli culturali sta nel basarsi su ambizione degli imprenditori ed evidenza del progresso nel perseguimento dei risultati, per gli statunitensi, contro basarsi su curricula e business plan tradizionali, valutazioni di “esperti” e contratti di investimento invasivi, per gli europei. Per gli americani, si investe in talenti affamati che tentano “moonshots” trasformativi con potenziale di ricavi miliardari e ritorni a multipli a due e tre cifre sull’investimento. Investimenti che negli USA non ci si può lasciar sfuggire, per gli europei sono all’opposto troppo rischiosi e senza solidità. Per gli europei, quindi, fare Venture Capital si traduce nell’investire in prudenti PMI che non accennino a essere troppo trasformative ed ambiziose, pena l’essere scartate.
La risposta dirigista di Bruxelles
In questo scenario, interviene la politica eurounitaria che, a valle della cruda analisi del rapporto Draghi, ha realizzato che qualcosa deve cambiare rispetto al fatto che gli imprenditori europei più ambiziosi si spostano negli USA per trovare un terreno solido su cui costruire, e che perfino il risparmio europeo prende la via dei fondi di Venture Capital a stelle e strisce che – proprio con il corretto approccio all’ambizione – produce rendimenti più sicuri.
La Commissione guidata da Ursula Von Der Leyen si dichiara intenzionata a recuperare il gap, ma il limite della sua azione appare dalle modalità: si parla di nuovi strumenti, azioni, comitati, tavoli, bandi, strategie… tutte azioni figlie della cultura dirigista e burocratica che pervade Bruxelles quanto la maggior parte degli stati membri, quando la sola cosa da fare dovrebbe essere quella di liberare le startup ed il venture capital da norme, regolamenti, vigilanze, lacci e lacciuoli che sono nati intorno alle filiere delle PMI e per il Private Equity.
L’evoluzione americana verso fondi evergreen
Mentre la UE quindi sogna come agganciare gli USA, guardandosi però dal fare la cosa più efficace che è quella di copiare, negli USA gli operatori finanziari si apprestano a evolvere ulteriormente il modello: pandemia, guerre, inflazione, hanno dimostrato che possono esserci periodi più lunghi del prevedibile in cui non sia conveniente portare le società investite sui listini di borsa, o che comunque non sia il momento del collocamento quello propizio al liquidare l’investimento, e quindi iniziano ad abbandonare il modello dei fondi chiusi che hanno un orizzonte di vita di 10-12 anni: un arco temporale che poteva essere adatto ai tempi della prima rivoluzione di Internet, all’era dei social, a quella delle app, ma che sta progressivamente diventando troppo ristretto per garantirsi i maggiori guadagni nel momento che le innovazioni più promettenti sono nel campo del deeptech, dello spazio, delle scienze della vita, dell’hardware: settori in cui i tempi di creazione del valore sono ben più lunghi che nel software.
Sequoia, il più grande operatore di Venture Capital al mondo, ha dato il via alla trasformazione del modello con un suo fondo evergreen – cioè privo di scadenza – che le consente di restare azionista delle proprie portfolio in modo indefinito, così da non dover rinunciare a una notevole quota di profitti solo perché le lancette dell’orologio dicono stop.
L’autosabotaggio europeo e l’opportunità italiana
Il mantra degli investitori europei, autoassolutorio nel adottare criteri e modelli che i fatti dimostrano essere perdenti, si esprime nel dichiarare troppo spesso un “qui non siamo gli USA”. Ma è proprio il rimarcarlo a renderlo reale, perché allontana l’adozione delle lezioni statunitensi e continua a tenere in vita delle modalità di investimento arcaiche, superate dagli apprendimenti di decenni di esperienza consolidata là dove l’asset class del venture è stata inventata.
In tutto questo scenario, per una volta l’Italia potrebbe avere l’opportunità di tentare uno scatto in avanti: la novità legislativa dell’incentivo a Casse previdenziali e fondi pensione voluto dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy per investire in Venture Capital, che a partire dai prossimi mesi produrrà un repentino salto di scala nella massa di liquidità nel settore in Italia, unita a un contesto internazionale in cui il Belpaese si trova a essere per qualità della vita, e per incentivi fiscali uno dei luoghi più attrattivi al mondo per General Partner di fondi di Venture Capital statunitensi, britannici, israeliani che per motivi geopolitici stanno rivalutando in che luogo stabilirsi a vivere, potrebbe essere un momento unico da cavalcare per cambiare gioco: sarebbe sufficiente attrarre poche decine di individui con un track record di primo livello, per entrare rapidamente nella serie A degli ecosistemi globali importando la cultura necessaria a giocare alla pari.






