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Macchine al potere: ecco le minacce per lavoro e democrazia



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L’espansione dell’intelligenza artificiale trasforma radicalmente il lavoro, riducendo l’intervento umano e alimentando nuove forme di disoccupazione cognitiva, sociale e politica in una società sempre più automatizzata

Pubblicato il 3 set 2025

Lelio Demichelis

Sociologo della tecnica e del capitalismo



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Scriveva nel 1979 il filosofo della tecnica Günther Anders: “il trend è rendere l’uomo superfluo, per quanto ciò possa sembrare assurdo: cioè a sostituire il suo lavoro con l’automatismo degli apparecchi; a realizzare una condizione nella quale non dico che non sia necessario proprio nessun lavoratore, ma almeno – si tratta infatti di un processo asintotico – la minor quantità possibile di lavoratori[i].

Il sogno capitalista dell’automazione totale

Sogno antico (o incubo?) del sistema capitalista e del sistema tecnico: avere una società amministrata governata e automatizzata da macchine, capaci di rendere tutto prevedibile e pianificabile, che oggi si ripropone con l’intelligenza artificiale.

E con il Doge di Elon Musk, la cui filosofia antisociale/neoliberale continua anche dopo la fine dell’amore di Musk per Trump, Musk che tanto si era speso e tanto aveva speso per la sua elezione.

Perché – vecchia questione – le macchine non pensano, non scioperano, non rivendicano diritti, non chiedono una redistribuzione della ricchezza prodotta, non chiedono democrazia e conoscenza, non chiedono un salario, sono a pluslavoro totale, non si sentono alienate – quindi sono perfette dal punto di vista del capitale e quindi sono molto meglio degli uomini.

Le macchine sono efficienti e si possono efficientare sempre di più – questo è nell’essenza della tecnica[ii] – e quante più macchine sono utilizzate (e anche gli algoritmi e l’i.a. sono macchine), maggiore è il profitto per chi è proprietario delle macchine, cioè dei mezzi di produzione, cioè di connessione. Potendo trasformare le forme tecniche e capitalistiche in forme sociali (ancora Anders).

Taylorismo digitale: quando l’intelligenza artificiale impone il pensiero

Le macchine fanno, cioè producono merci (e anche i dati sono merci) e soprattutto profitti. Ma oggi – e sempre di più rispetto alla tecnica analogica – le macchine pensano: ma non nel senso che davvero pensano, ma nel senso che impongono agli uomini non solo come devono fare/lavorare ma anche come e cosa pensare – e questo sono gli algoritmi, questo è l’intelligenza artificiale, come ieri lo era l’industria culturale secondo la Scuola di Francoforte, la debordiana società dello spettacolo e oggi i social: che tutto sono (imprese capitalistiche finalizzate al profitto) meno che qualcosa di veramente sociale; social che quindi sono una delle tante fabbriche di dati del capitalismo digitale di cui noi tutti siamo forza lavoro gratuita e a pluslavoro appunto totale (e difficile è pensare a qualcosa di più vantaggioso per il capitale che uomini che lavorano gratuitamente per il capitale, felici di farlo[iii]).

Dal taylorismo industriale al taylorismo digitale

Dati che appunto il capitalismo digitale ruba a destra e a manca e che trasforma in profitto per sé. E così come il vecchio taylorismo espropriava i lavoratori di conoscenza e di esperienza, traducendo tutto in schemi e tabelle per imporre a tutti la propria e omologata (one best way) organizzazione scientifica del lavoro, analogamente opera l’IA, espropriandoci di conoscenza e di consapevolezza (appunto, ancora i dati), traducendo quindi tutto in schemi e tabelle e algoritmi che rimasticano ciò che l’i.a. ha catturato e incorporato ma così confermando lo statu quo della conoscenza, anche se poi la presenta in forme sempre diverse che sembrano nuove e creative, ma non lo sono.

Ovvero, così come nel vecchio taylorismo come nel taylorismo digitale di oggi il lavoratore doveva essere stupido, limitandosi ad eseguire ciò che decide(va) per lui la Direzione (margini di autonomia resistevano, ma erano ridotti al minimo, altrimenti addio efficienza), altrettanto stupidi dobbiamo essere noi con l’i.a., anche generativa, accogliendo come vero e soprattutto come intelligente ciò che essa ci propone, senza alcun approfondimento, senza conoscenza, senza libertà cognitiva, ormai delegata alla macchina chiamata intelligenza artificiale.

Alienazione totale, stupidità totale, però venduta come intelligente grazie a una potentissima azione di marketing/propaganda da parte dell’oligarchia dell’intelligenza artificiale. E questa sarà quindi (è già) una forma di disoccupazione mentale dal lavoro di conoscenza (ma questa volta cercata e invocata) da parte di coloro che ancora si credono sapiens avendo costruito macchine (il capitale) che si dicono intelligenti ma che espropriano ciascuno (ancora il taylorismo, l’i.a. è taylorismo cognitivo) di conoscenza (ancora, macchine invece di uomini).

L’algoritmo come strumento di controllo dell’identità

Detto altrimenti: “Il problema è che l’algoritmo, sulla base dei dati in suo possesso, vuole inchiodarci alla nostra identità, come se l’identità fosse una cosa monolitica, anziché una tessitura di fili e relazioni (povero algoritmo, avesse letto Pessoa o Pirandello, forse, anche lui, si renderebbe conto dell’abuso). L’algoritmo, invece, è quanto di più retrogrado e pregiudizievole possa esistere: non consente il cambiamento [serve appunto a non uscire dallo statu quo e a convincerci che non esistono alternative e che non deve esistere un pensiero critico], la rinascita culturale, il rinnovamento esistenziale. E questo è gravissimo”[iv].

La nuova disoccupazione tecnologica come strategia sistemica

E vastissima e antica è la letteratura sulla disoccupazione nella rivoluzione industriale (e il digitale è sempre rivoluzione industriale), e ogni volta che il capitale introduce a suo piacere (autocraticamente, antidemocraticamente e imponendole come un dato di fatto a cui non ci si può e non ci si deve opporre), una innovazione tecnologica, sostituendo macchine a uomini e soprattutto facendo funzionare la sua forza lavoro (che sia concentrata o diffusa) come macchine e ai ritmi delle macchine – sempre compaiono studi e analisi sulla possibile/inevitabile disoccupazione tecnologica.

Disoccupazione tecnologica di cui scriveva – tra i molti che potremmo citare – già John M. Keynes nel 1930 in una Conferenza poi diventata un testo famoso sulle Prospettive economiche per i nostri nipoti: “Noi siamo colpiti da una nuova malattia di cui molti lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire la disoccupazione tecnologica”; quella “disoccupazione causata dalla scoperta di strumenti atti a economizzare l’uso di manodopera e dalla contemporanea incapacità di tenerne il passo trovando altri utilizzi per la manodopera in esubero”. E aggiungeva: “per ancora molte generazioni […] noi avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti”. Eppure, “turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore” possono essere sufficienti[v]. Pura utopia, in verità. Non perché non sia realizzabile, ma perché il sistema (capitale e tecnica) vuole aumentare sempre di più la produttività di ciascuno di noi. E se aumenta il tempo libero, nell’ipotesi di Keynes, anche il tempo libero deve diventare una industria del tempo libero che possa produrre profitto. Che questo non si traduca più in ricchezza della nazione, come credeva Adam Smith, al capitale interessa poco o nulla, importante è che la nostra produttività (ad esempio producendo dati) accresca la ricchezza di pochi, degli oligarchi del capitalismo digitale. Arrivando appunto al Doge di Musk.

Il potere oligarchico dell’intelligenza artificiale

Sì, perché il Doge di Musk continua anche senza Musk. Perché è nell’ideologia tecnica/neoliberista/capitalista/anarco-capitalista (ma dire anarco-capitalismo è un errore epistemologico, il tecno-capitalismo non è anarchico ma è un potere archico alla massima potenza[vi]) l’obiettivo di fare a meno dei lavoratori (considerati per definizione inefficienti e irrazionali, un intralcio al funzionamento efficiente delle macchine e del mercato – e senza dimenticare che sono sempre più spesso gli algoritmi a selezionare il personale e poi a licenziarlo), di ridurre lo stato sociale e solidale; e soprattutto di ridurre il ruolo dello Stato e dell’amministrazione politica, traducendo tutto, appunto, in amministrazione tecnica (e capitalista) dello stato e della società e della vita umana – detto altrimenti, le forme tecniche devono diventare forme politiche (autoritarie, ovviamente) e la forma dello Stato, sostituendosi allo Stato e negando la democrazia. Un algoritmo invece della democrazia, l’i.a. invece di conoscenza, responsabilità. Non siamo forse già alla società amministrata e automatizzata dalle macchine temuta dalla prima Scuola di Francoforte e/o a 1984 di Orwell?

La disoccupazione tecnologica come negazione della sovranità democratica

E l’IA – è cosa nota e risaputa, ma il saperlo non ci porta ad essere sovversivi rispetto a questa distopia, semmai ad adattarci e ad essere resilienti rispetto ai voleri del capitale e della tecnica – mentre “sovvertire illibertà, ingiustizia, eteronomia, sfruttamento, ecocidio dovrebbe essere un principio e un imperativo umano e politico di indubitabile e universale potenza etica e morale”[vii]) – e l’i.a. è in mano a una oligarchia di imprenditori privati che decidono appunto a loro piacimento cosa dobbiamo essere, cosa e come dobbiamo non pensare noi credendo però di essere intelligenti e di pensare. L’intreccio di potere tra questa oligarchia imprenditoriale e gli altri oligarchi esistenti (tra cui Trump) esiste da tempo, ma oggi si è rafforzata molto di più, in un pericolosissimo groviglio tra ideologia/determinismo della tecnica e ideologia/determinismo neoliberale. E non è solo una questione di bias. Ma qualcosa che concerne libertà individuale (anche e soprattutto cognitiva), democrazia (una polis governata da macchine è una contraddizione in termini, se non immaginando una distopica e dispotica società di macchine e di uomini come macchine), consapevolezza, responsabilità, umanità, solidarietà, sobrietà, immaginazione.

Costituzione democratica contro supremazia tecnologica

Eppure era (è) già tutto nella nostra Costituzione, che nel suo articolo 1 afferma che “l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro e che la sovranità appartiene al popolo” (noi preferiamo dire demos) e quindi non può e non deve appartenere alle macchine e agli algoritmi; e quindi, lavoro (e diritti del lavoro) sono fondamento della democrazia e della cittadinanza e nel popolo/demos si incarna appunto la sovranità, mentre oggi la sovranità è impersonata nelle ed esercitata dalle oligarchie tecnologiche e dalle loro macchine. E nell’articolo 3 – sempre della nostra Costituzione – è scritto che la Repubblica ha come suo compito, cioè come dovere politico e morale quello di rimuovere (rimuovere, non produrre come invece avvenuto negli ultimi quarant’anni di neoliberalismo di destra e di sinistra e oggi di digitalizzazione/tecnicizzazione/algoritmizzazione della vita), rimuovere “gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini” (cioè, del demos), “impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Giusto e doveroso. Ma oggi questa limitazione della libertà e dell’uguaglianza dei cittadini è prodotta, ingegnerizzata, matematizzata dalla tecnica e dal capitale – posto che il loro obiettivo è appunto quello di sovraordinarsi a società e Stato e di governare/governamentalizzare l’una e l’altro in nome e per conto degli interessi del capitale e del sistema tecnico.

Come impedire allora che le macchine e il capitale uccidano la Costituzione (e la democrazia e la libertà) e sostituiscano davvero gli uomini nel lavoro – senza dimenticare che (supra), il sistema, volendoci produttivi e consumativi h24, anche in un sistema di macchine dovremo essere comunque messi al lavoro in qualche modo accrescendo il lavoro (il pluslavoro) per il plusvalore del capitale? Un libro recente di Axel Honneth cerca i modi per ridemocratizzare il lavoro come elemento base per una democrazia politica[viii]. Libro surreale, dove solo nelle ultime pagine Honneth riconosce – ma chiudendolo in poche righe quando avrebbe invece richiesto una riflessione critica ben maggiore – che “l’ostacolo principale a una riorganizzazione alternativa del lavoro è piuttosto una politica [neoliberale] imposta dall’alto e mirata all’incremento delle prestazioni individuali, che mira a scomporre le operazioni richieste in parti separabili e ad assegnare queste attività minime a singoli lavoratori in modo da poterne quantificare e controllare il rendimento individuale. La lotta contro questa forma di razionalizzazione capitalistica […] resta quindi il punto di riferimento generale di ogni sforzo di politica del lavoro volto ad aprire dall’interno il mercato del lavoro al processo democratico”. Ma questa razionalizzazione – come abbiamo scritto – “è in realtà l’ontologia e la teleologia (il piano) del capitalismo e della tecnica, che si replica nelle piattaforme digitali come nell’intelligenza artificiale e allora, e va ribadito, come pensare a un lavoratore sovrano [e, aggiungiamo, a una democratizzazione dei processi di innovazione tecnologica, per la difesa della democrazia e della libertà] se prima non si de-sovranizza il potere della razionalità irrazionale del capitale e della tecnica”[ix] – oggi i veri e autocratici sovrani del mondo se non si de-tronizza l’oligarchia tecnologica?

Bibliografia


[i] G. Anders, “L’uomo è antiquato II”, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag. 19

[ii] Si rilegga ad esempio M. Heidegger, “Saggi e discorsi”, Mursia, Milano, 1985; oppure, J. Ellul, “Il sistema tecnico”, Jaca Book, Milano, 2009; oppure, U. Galimberti, “Psiche e techne”, Feltrinelli, Milano 1999

[iii] C. Formenti, “Felici e sfruttati”, Egea, Milano, 2011

[iv] M. Cavadini, “Altro che futuro. Il lato oscuro di sua maestà l’Algoritmo” . https://www.rsi.ch/cultura/societa/Altro-che-futuro–1090501.html

[v] Diverse fonti, oppure: J. M. Keynes, “La fine del laissez-faire e altri scritti” (con una splendida Introduzione di Giorgio Lunghini, economista troppo in fretta dimenticato), Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pag. 61 e 65

[vi] E rinviamo al nostro “Tecno-archía, o la ‘Nave dei folli’. La banalità digitale del male”, in uscita a settembre per DeriveApprodi

[vii] L. Demichelis, “Quei sovversivi degli anni Settanta” – https://www.doppiozero.com/quei-sovversivi-degli-anni-settanta

[viii] A. Honneth, “Il lavoratore sovrano”, il Mulino, Bologna, 2025

[ix] L. Demichelis – https://centroriformastato.it/il-lavoratore-sovrano-secondo-axel-honneth/

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