Google è stato coinvolto contemporaneamente in due vicende giudiziarie di caratteri antitrust negli Stati Uniti e in Europa e i due diversi esiti favoriscono una analisi comparata: la densità dei numeri e la precisione dei provvedimenti costituiscono un terreno fertile per approfondire le differenze tra i due approcci antitrust e comprendere gli scenari che si stanno preparando.
Si vedrà come la sovranità giuridica si misurerà sempre più nella capacità di regolare il design alla base delle infrastrutture di potere digitale.
Indice degli argomenti
Google, sentenza Antitrust USA
Negli Stati Uniti, la decisione del giudice Amit Mehta sul monopolio nella ricerca ha introdotto un ordine di rimedi che vieta accordi di esclusiva per i default, ammette tuttavia la permanenza di remunerazioni per la posizione di motore predefinito e impone una parziale condivisione dei dati di ricerca con concorrenti.
Lo stesso provvedimento, respingendo l’ipotesi di rimedi strutturali su Chrome, riconosce la forza di attori emergenti come OpenAI, Anthropic e Perplexity quale fattore destinato a riequilibrare la dinamica concorrenziale. L’aspetto più eclatante resta il volume delle somme trasferite ad Apple, superiori a venti miliardi di dollari per il solo 2024, cifra che descrive l’entità di una rendita contrattuale trasformata in barriera comportamentale per l’utenza.
Commissione UE contro Google
In Europa, la Commissione ha imposto a Google una sanzione di 2,95 miliardi di euro per l’abuso della propria posizione lungo l’intera filiera della pubblicità display. L’accertamento giuridico ha valorizzato il carattere intrinseco del conflitto di interessi derivante dall’integrazione verticale: Google vende spazi pubblicitari, controlla la piattaforma di intermediazione e disciplina le aste con tecnologie proprietarie, annodando in un unico soggetto l’offerta, la domanda e il meccanismo allocativo. Il dispositivo impone la presentazione entro sessanta giorni di un piano di conformazione, aprendo così a un terreno di verifica che investe la neutralità delle aste, la trasparenza dei flussi e la separazione funzionale tra ruoli incompatibili.
L’unione di questi due casi disegna un quadro nel quale il diritto antitrust viene chiamato a misurarsi con due fattori strutturali: la forza del default, che agisce come istituzione informatica dotata di efficacia quasi normativa sull’orientamento degli utenti, e la centralità della filiera pubblicitaria, in cui l’integrazione proprietaria trasforma l’intermediazione in dispositivo di controllo del mercato.
La differenza di approccio antitrust big tech Usa Ue
La dimensione quantitativa delle somme pagate per mantenere la posizione di motore predefinito e la dimensione sistemica della sanzione europea non esprimono soltanto una tensione concorrenziale, ma attestano la presenza di un fenomeno che trascende la logica del singolo contratto o della singola clausola escludente.
Ciò che appare in gioco è il rapporto tra architettura digitale e ordine concorrenziale: negli Stati Uniti il giudice attenua la forza della propria decisione per l’irruzione di nuove tecnologie, in Europa la Commissione incide sull’assetto verticale per ristabilire un principio di neutralità.
L’analisi giuridica deve interrogarsi sulla differenza di approccio: la prudenza americana, ancorata al paradigma del danno provato, e l’interventismo europeo, radicato nella volontà di preservare un mercato strutturalmente contendibile, rivelano due filosofie normative che, pur divergenti, convergono nella consapevolezza di trovarsi di fronte a forme di potere capaci di incidere sull’intero ecosistema dell’informazione e della comunicazione.
Il cuore dogmatico delle due vicende ruota intorno al rapporto tra potere, danno e rimedio.
- Negli Stati Uniti domina un paradigma harm-based: l’intervento giudiziario richiede la prova di un pregiudizio concorrenziale effettivo e circoscrive i rimedi entro margini di prudenza, con riluttanza verso interventi strutturali che alterino ecosistemi consolidati.
- In Europa prevale invece la logica dell’assetto di mercato: l’abuso è letto come distorsione sistemica degli incentivi, e la sanzione mira a ricondurre la filiera pubblicitaria a condizioni di neutralità infrastrutturale.
La differenza non è meramente tecnica. L’approccio americano si radica nella protezione del consumatore attraverso parametri misurabili di benessere, mentre quello europeo assume la prospettiva dell’ordinamento complessivo del mercato, ponendo al centro l’integrità delle architetture competitive. Entrambi, tuttavia, convergono su un dato: la posizione di default e il controllo del flusso informativo costituiscono il vero fulcro del potere digitale, poiché determinano l’accesso e condizionano in anticipo il campo stesso della competizione.
La questione dei default come istituzioni del mercato digitale impone di riflettere sul carattere normativo che assumono le scelte apparentemente tecniche di preinstallazione e di impostazione dei motori di ricerca. Non si tratta di meri dettagli contrattuali tra fornitori di software e produttori di dispositivi, bensì di un meccanismo capace di imprimere direzioni stabili ai comportamenti collettivi. Il default, infatti, possiede la forza silenziosa delle convenzioni sociali e produce un vincolo cognitivo che riduce lo spazio dell’autonomia individuale.
L’utente medio non ricorre a un confronto razionale tra opzioni alternative, ma accetta la soluzione già predisposta, trasferendo a quell’opzione il valore della normalità. In tale processo, l’atto contrattuale stipulato tra colossi tecnologici si traduce in un fenomeno assimilabile a una norma occulta, che istituisce l’accesso primario al web e condiziona la percezione stessa di ciò che costituisce “internet”.
L’aspetto economico dei pagamenti miliardari destinati a mantenere la posizione di default conferma la consapevolezza degli operatori: l’abitudine dell’utente vale più della qualità intrinseca del servizio, poiché l’inerzia cognitiva garantisce una rendita stabile e difficilmente contendibile.
Le conseguenze
La conseguenza giuridica di questo assetto non si esaurisce nella constatazione di una barriera all’ingresso, ma si estende alla costruzione di una vera e propria architettura di potere, nella quale il default assume la funzione di strumento di esclusione attraverso la trasformazione della scelta in rituale automatico. L’analisi costituzionale deve dunque misurare la portata istituzionale del default, poiché la sua permanenza altera le condizioni stesse della concorrenza e riduce il pluralismo delle fonti informative che alimentano la vita democratica.
In tale quadro, l’ordine statunitense di condivisione dei dati di ricerca con concorrenti apre un ulteriore fronte di riflessione. Il rimedio informazionale, pur innovativo, resta subordinato a parametri che ne determinano la reale efficacia: continuità del flusso, granularità dei dati, capacità di riuso e tempestività della messa a disposizione. Senza tali condizioni, la condivisione rischia di assumere un valore puramente simbolico, privo della forza necessaria a generare effettiva contendibilità. Il dato diventa infatti capitale competitivo soltanto se reso disponibile con caratteristiche che ne consentano l’utilizzo come leva di sviluppo tecnologico; in caso contrario, la trasmissione parziale o frammentaria non intacca il vantaggio accumulato dal monopolista.
L’innovazione giuridica del rimedio fondato sul dato consiste proprio nell’aver individuato il cuore materiale del potere digitale: più che l’algoritmo come entità astratta rileva il patrimonio informativo che alimenta e perfeziona gli algoritmi.
La verticalità della filiera pubblicitaria adtech rivela l’essenza di un potere che nasce dalla concentrazione funzionale.
Google agisce come venditore, intermediario e arbitro delle aste, fondendo ruoli che dovrebbero restare distinti. La lesione non riguarda un atto episodico, ma l’architettura complessiva: la stessa struttura di mercato viene piegata a un incentivo unico, che consente al dominus tecnologico di catturare ogni flusso di domanda e offerta. L’intervento europeo coglie questo nodo, poiché la neutralità concorrenziale non si fonda soltanto sull’assenza di clausole escludenti, ma sull’imparzialità istituzionale del processo allocativo.
La decisione statunitense offre un contrasto illuminante. Il giudice Mehta attribuisce rilievo all’irruzione dell’intelligenza artificiale generativa, considerata fattore capace di rinnovare spontaneamente la dinamica concorrenziale. Attori come OpenAI o Anthropic vengono interpretati come segnali di un mercato in trasformazione, idoneo a limitare il dominio consolidato. Si crea così una tensione concettuale: l’Europa individua la radice del potere nell’architettura verticale e vi oppone una sanzione strutturale, gli Stati Uniti confidano nel potere dell’innovazione come strumento correttivo.
Il confronto mostra due filosofie normative che si misurano con la stessa sostanza: default e dati creano inerzie profonde, la filiera integrata accentua tali inerzie, l’innovazione generativa introduce un elemento dinamico che tuttavia non scioglie il nodo centrale.
La questione giuridica ruota dunque intorno alla capacità delle istituzioni di leggere l’architettura del mercato digitale come luogo in cui si decidono insieme concorrenza, informazione e potere.
La logica dei rimedi, letta in continuità con la riflessione su default, dato e architettura verticale, mette in evidenza un nodo essenziale: la proporzionalità rimediale appare come punto nevralgico del diritto antitrust nell’era digitale. Negli Stati Uniti la scelta del giudice si orienta verso una strategia di contenimento, che evita di incidere sull’assetto industriale con misure drastiche.
La riluttanza a disporre rimedi strutturali tutela soggetti terzi legati da rapporti contrattuali alle rendite di Google, in particolare i produttori di dispositivi che beneficiano dei pagamenti miliardari per l’impostazione di default.
La logica che prevale è quella di un enforcement a bassa intensità, capace di preservare la continuità degli ecosistemi economici a discapito della rapidità e della forza trasformativa. In Europa, la scelta assume un segno differente: la sanzione pecuniaria non costituisce soltanto punizione, ma fotografia di un assetto ritenuto incompatibile con l’equilibrio concorrenziale.
L’imposizione di un termine di sessanta giorni per la presentazione di un piano di conformazione apre il terreno a interventi che incidono direttamente sull’architettura della filiera pubblicitaria: separazioni funzionali, obblighi di accesso, limitazioni dell’auto-preferenza. La proporzionalità, in questa prospettiva, coincide con la capacità del rimedio di colpire la radice del vantaggio concorrenziale. Se il potere digitale si alimenta di default e di integrazione dei dati, ogni misura che resti confinata a sanzione monetaria o a condivisione parziale produce un beneficio circoscritto.
Antitrust big tech, un tema di sovranità
Da tale divergenza nasce il tema della sovranità del design e della responsabilità istituzionale. Il lessico classico dell’antitrust, fondato su prezzo, qualità e output, non appare più sufficiente per descrivere mercati in cui la competizione ruota attorno a interfacce, default, accesso al dato e dataplane.
La progettazione stessa delle piattaforme diventa terreno di distribuzione del potere, poiché attraverso l’architettura tecnologica si stabiliscono le condizioni di accesso e le frizioni cognitive che determinano le scelte degli utenti. L’ordinamento è dunque chiamato a costruire regole capaci di incidere su questi nodi: neutralità dei default, tracciabilità dei flussi d’asta, audit dei sistemi di ranking, garanzie di portabilità e interoperabilità dei segnali di performance.
Solo attraverso tali strumenti la disciplina antitrust assume efficacia sostanziale, poiché interviene sul disegno istituzionale che governa l’economia digitale. La sovranità giuridica si misura allora nella capacità di regolare il design, trasformando il linguaggio tecnico delle piattaforme in materia sottoposta a principi di imparzialità e di apertura, con l’obiettivo di impedire che l’infrastruttura digitale si trasformi in veicolo di concentrazione incontrollata.











