Dagli Stati Uniti all’Europa, cresce la pressione per smontare l’impero pubblicitario di Google.
Una sfida legale e politica che intreccia pubblicità e intelligenza artificiale e che può decidere non solo il mercato digitale, ma la forma stessa del web di domani.
Indice degli argomenti
La guerra di giudici e antitrust contro l’impero pubblicitario di Google
Il fronte antitrust contro Google è entrato nel vivo.
Negli Usa
Negli Stati Uniti, il Dipartimento di Giustizia ha chiesto lo spin-off forzato di AdX, il più grande ad exchange al mondo, dopo che ad aprile la giudice federale Leonie Brinkema ha stabilito che l’azienda aveva “volontariamente” monopolizzato due segmenti cruciali del mercato pubblicitario digitale: l’ad exchange (AdX) e il publisher ad server (DoubleClick for Publishers, ora parte di Google Ad Manager). Non un dominio frutto di inerzia o mera superiorità tecnologica, ma il risultato di scelte deliberate: legare l’ad server di Google al suo exchange, creando una dipendenza strutturale che ha reso quasi impossibile agli editori rivolgersi a piattaforme concorrenti.
È un passaggio che segna un punto di svolta. Non è la prima volta che negli Stati Uniti si discute di breakup di una Big Tech: basti pensare al caso Microsoft negli anni ’90 o alle ipotesi su Meta, ma è la prima volta che il governo americano chiede la cessione di un asset centrale del business pubblicitario di Google, con un piano già delineato di dismissione graduale e vigilanza pluriennale.
In Europa
Sul fronte europeo, appena tre settimane fa, la Commissione ha inflitto una multa record da 2,95 miliardi di euro, accusando Google di pratiche di auto-preferenza e abuso di posizione dominante nella filiera ADV. Bruxelles ha dato all’azienda 60 giorni per presentare rimedi credibili, lasciando intendere che, in caso contrario, non esiterà a valutare misure più drastiche, fino allo scorporo. Due culture giuridiche diverse, due strumenti di intervento distinti, ma un unico messaggio: il modello integrato di Google non è più percepito come una macchina efficiente del web, bensì come un ostacolo strutturale alla concorrenza, con effetti a catena sull’intero ecosistema digitale.
USA ed Europa a confronto: due binari giuridici paralleli
Quando si parla di antitrust nell’ad tech, Stati Uniti ed Europa viaggiano su due binari giuridici paralleli. Come sottolinea Fiona Scott Morton, economista alla Yale School of Management ed ex capo economista antitrust al Dipartimento di Giustizia statunitense, in un paper dedicato ai casi Google.
Negli USA il procedimento segue la via giudiziaria classica: il Dipartimento di Giustizia porta Google in tribunale, il giudice accerta la violazione (come ha fatto Leonie Brinkema, riconoscendo il monopolio “wilful”), e solo dopo si apre la fase dei rimedi. È un percorso lungo, scandito da udienze, prove e controprove, che lascia ampio spazio alle parti di contestare ogni virgola e guadagnare tempo. In Europa, invece, nell’ambito del diritto della concorrenza (artt. 101 e 102 TFUE) il meccanismo è di tipo amministrativo: la Commissione europea indaga, formula una decisione, infligge multe e impone misure correttive direttamente. Google può ovviamente appellarsi al Tribunale dell’Unione europea e poi alla Corte di giustizia, ma nel frattempo le sanzioni scattano e le modifiche devono essere avviate.
In altre parole, Bruxelles non ha bisogno di passare da un giudice federale per imporre, ad esempio, la multa record da 2,95 miliardi di euro e chiedere rimedi strutturali nel giro di 60 giorni. Due modelli di enforcement: quello statunitense, che sta arrivando al momento delle remedies dopo un primo giudizio di colpevolezza, e quello europeo, che procede attraverso sanzioni amministrative e ordini compensativi più che tramite tribunali civili. Obiettivo comune: ridurre il potere di Google nell’ad tech e restituire margini di concorrenza a editori e inserzionisti.
Come siamo arrivati al maxi-processo contro Google
Negli ultimi mesi ho analizzato, su Agenda Digitale, l’evoluzione delle vicende antitrust che vedono Google al centro di procedimenti sia negli Stati Uniti sia in Europa. Due articoli in particolare hanno fatto da cornice a questo dibattito: “Antitrust contro Google: gli impatti sul mercato pubblicitario” e “Dentro l’impero pubblicitario di Google: numeri, potere e sfide antitrust” (maggio 2025).
Nel primo ho ricostruito la timeline delle sentenze che, dal 2017 in avanti, hanno progressivamente stretto il cerchio sull’azienda di Mountain View. Dalla multa europea da 2,4 miliardi di euro per Google Shopping fino alle indagini americane sul monopolio della search e dell’ad tech, è emerso con chiarezza un filo rosso: l’abuso di posizione dominante. Non basta avere quote di mercato enormi (oltre il 90% nella ricerca online, per esempio), la questione diventa cruciale quando quella forza viene usata per escludere i concorrenti o auto-favorirsi.
Nel secondo articolo, invece, mi sono concentrata sulla macchina pubblicitaria vera e propria: una struttura sofisticata che regge gran parte dell’economia digitale. Con numeri impressionanti (273 miliardi di dollari di ricavi adv nel 2024, più del doppio di Meta e cinque volte Amazon), Google ha costruito un sistema integrato che va dagli adserver agli exchange fino agli strumenti per inserzionisti, controllando quasi ogni passaggio della filiera. Un approfondimento utile per capire perché oggi siamo arrivati a un maxi-processo che viene definito storico negli USA, con il Dipartimento di Giustizia che non si limita a contestare pratiche scorrette, ma spinge per una vera e propria riorganizzazione del settore. Per chi vuole ripercorrere nel dettaglio i passaggi e i dati che hanno portato a questo punto, rimando alla lettura completa degli articoli su Agenda Digitale come bussola per leggere con più consapevolezza gli ultimi sviluppi analizzati in questo articolo.
Dentro il monopolio ad tech: struttura, conflitti d’interesse e la sfida della procura USA
Per comprendere perché la giustizia americana stia spingendo per uno scorporo forzato, bisogna guardare alla struttura stessa dell’ecosistema pubblicitario di Google. Come ho già analizzato in dettaglio nell’articolo Dentro l’impero pubblicitario di Google: numeri, potere e sfide antitrust, il gigante di Mountain View controlla contemporaneamente i tre anelli decisivi della filiera: gli strumenti per gli editori (ad server, in primis Google Ad Manager), il mercato dove domanda e offerta si incontrano (ad exchange, ossia AdX) e le piattaforme per gli inserzionisti (Google Ads e DV360).
Questa integrazione verticale crea un evidente conflitto d’interessi: Google può gestire le regole d’asta e allo stesso tempo parteciparvi, favorendo il proprio exchange e rendendo difficile per gli editori rivolgersi a piattaforme concorrenti. È proprio qui che il Dipartimento di Giustizia USA ha individuato l’abuso: non tanto nell’esistenza di quote elevate di mercato (che di per sé non sono illegali), ma nel modo in cui l’azienda avrebbe sfruttato la propria posizione dominante per escludere o penalizzare i rivali.
Secondo le accuse, le aste pubblicitarie sarebbero state gestite come una “scatola nera”, con vantaggi informativi e tecnici per AdX e restrizioni contrattuali che legavano gli editori al pacchetto completo di servizi Google. Un sistema che, nelle parole dei procuratori americani, ha “bloccato” il mercato, ridotto la trasparenza e impedito la crescita di alternative competitive.
È questo il cuore della sfida lanciata dal DoJ: non un processo astratto sulle dimensioni di Google, ma un contenzioso concreto sul suo doppio ruolo di arbitro e giocatore nelle aste pubblicitarie. Se la corte accoglierà la richiesta di scorporo, significherà mettere in discussione l’architettura stessa su cui Google ha costruito il proprio predominio nell’ad tech.
Gli impatti sull’ecosistema adv: editori, inserzionisti e piattaforme alternative
La separazione tra l’ad server e l’ad exchange di Google non cambierebbe solo i conti del colosso, ma l’intero equilibrio del mercato pubblicitario digitale. E qui entrerà in gioco la difficoltà concreta di uscire da un ecosistema così integrato.
Gli editori, che nel 90% dei casi usano Google Ad Manager, si trovano bloccati da un lock-in tecnologico: migrare verso un altro ad server significa ricostruire contratti, workflow e integrazioni tecniche, con costi e rischi significativi. Non sorprende che molti publisher abbiano definito questo passaggio “quasi impossibile”, anche nei procedimenti giudiziari USA. Lo ha spiegato bene in tribunale Grant Whitmore, vicepresidente per la pubblicità digitale di Advance Local — uno dei più grandi gruppi editoriali regionali americani, parte di Advance Publications (la stessa holding di Condé Nast). Gestendo testate come AL.com, NJ.com e The Oregonian, Advance Local rappresenta un pezzo rilevante del giornalismo locale USA. Whitmore ha raccontato come gli editori siano costretti ad accettare condizioni contrattuali che non accetterebbero da nessun altro fornitore pur di non perdere l’accesso alla domanda di AdX, definendo l’ecosistema Google una vera e propria “black box”.
Gli inserzionisti vivono un dilemma simile. Google Ads resta la piattaforma più efficace per raggiungere utenti e ottimizzare performance. Se AdX venisse separato, molti continueranno a concentrare lì i budget, più per comodità che per valutazioni di concorrenza pura.
Le alternative
Eppure, le alternative esistono: exchange come PubMatic, Magnite e OpenX, lo stack completo di Microsoft (Xandr), FreeWheel per gli editori, fino a soluzioni cooperative e open source come Prebid.org. Strumenti che, sul piano tecnico, sono intercambiabili e competitivi, ma che non hanno mai avuto lo spazio di crescere perché Google controllava la domanda e imponeva regole di accesso penalizzanti.
Proprio per questo, il tema non è solo “scorporare” ma anche facilitare lo switching. Alcuni rimedi comportamentali potrebbero imporre a Google l’obbligo di interoperabilità con altri sistemi, la portabilità dei dati d’asta e il divieto di tying.
In Europa, il Digital Markets Act già introduce obblighi simili; negli Stati Uniti, il DoJ ha chiesto al giudice di valutare misure per ridurre i costi di transizione. Senza queste agevolazioni, il rischio è che il lock-in resti intatto anche dopo un eventuale divorzio strutturale.
In prospettiva, è probabile che nel breve termine Google resti dominante per inerzia e convenienza. Nel medio periodo, se la separazione sarà accompagnata da vere aperture regolatorie, allora le alternative potranno crescere.
La dimensione geopolitica: tra pressioni USA-UE e il ruolo dei giganti dell’AI
La partita antitrust su Google non si gioca solo nei tribunali: è anche una questione di geopolitica digitale.
Negli Stati Uniti, la causa è diventata il banco di prova di una nuova strategia: enforcement tradizionale dello Sherman Act da un lato, e dall’altro l’idea che l’antitrust debba integrarsi con la politica industriale sull’intelligenza artificiale. Come ha dichiarato l’Assistant Attorney General Gail Slater in un recente intervento, l’enforcement serve anche a evitare che un’unica azienda possa monopolizzare i dati e le infrastrutture necessarie ai modelli di IA.
In Europa, la Commissione ha scelto di colpire Google con una multa record da 2,95 miliardi e con ordini correttivi, ma soprattutto con il Digital Markets Act: un pacchetto che non mira solo al passato (punire gli abusi), ma al futuro, imponendo obblighi di interoperabilità e divieti di auto-preferenza per i cosiddetti “gatekeeper”. È una mossa anche politica: Bruxelles vuole dimostrare che l’UE può fissare lo standard globale sulla regolazione delle Big Tech, come già accaduto con il GDPR.
Sul fronte cinese, la dinamica è diversa: Pechino non apre grandi processi antitrust contro Baidu o Alibaba, ma preferisce una regolazione diretta dei contenuti e una supervisione centralizzata sull’IA. Questo crea un modello alternativo, che privilegia la sovranità dei dati e il controllo politico, più che la concorrenza di mercato.
E nel mezzo ci sono i giganti dell’IA -Google, Microsoft, Meta, OpenAI- che accumulano dati, infrastrutture e potere algoritmico. La convergenza tra advertising e AI rende ancora più delicato il tema antitrust: chi controlla le piattaforme di pubblicità e i modelli di intelligenza artificiale, controlla sia l’accesso alla conoscenza sia i flussi economici che finanziano il web.
Non a caso, in Europa alcuni editori hanno già denunciato Google per il suo servizio “AI Overviews”, accusandolo di drenare traffico dalle fonti originali e di concentrare ancora più valore all’interno dell’ecosistema proprietario. Con l’arrivo delle risposte generate dall’IA, il rischio non è più solo che Google controlli le aste pubblicitarie, ma che decida anche quali contenuti compaiono e quali restino invisibili.
In questo scenario, pubblicità e informazione finiscono per fondersi in un’unica pipeline governata dagli algoritmi: chi controlla i modelli e i canali adv integrati non influenza soltanto i prezzi degli annunci, ma il pluralismo stesso delle fonti. È qui che l’antitrust incontra la politica: decidere chi avrà il potere di scrivere le regole del web del futuro. In definitiva, qual è la vera posta in gioco? Non solo il destino di Google o della pubblicità online, questa è la battaglia per decidere se l’infrastruttura dell’IA e i dati che la alimentano resteranno dominio di pochi conglomerati o se diventeranno un bene condiviso. Da questa scelta dipenderà non soltanto la concorrenza, ma la forma stessa della democrazia digitale.











