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Lavorare con l’AI, la grande illusione che frena la produttività



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Uno studio condotto da BetterUp Labs e Stanford Social Media Lab, pubblicato su Harvard Business Review, denuncia l’effetto nascosto dell’uso indiscriminato dell’AI generativa nelle aziende. Più tempo sprecato, meno collaborazione, fiducia erosa. Vediamo perché e come fare, mettendo assieme tutti gli studi usciti sul tema produttività del lavoro e AI

Pubblicato il 30 set 2025

Maurizio Carmignani

Founder & CEO – Management Consultant, Trainer & Startup Advisor



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L’entusiasmo per l’adozione dell’AI generativa non si traduce in ritorni concreti. Lo studio BetterUp-Stanford introduce il concetto di “workslop“, contenuti generati dall’AI che sembrano buoni ma in realtà trasferiscono il carico di lavoro sui colleghi, generando costi nascosti e perdita di fiducia.

Abbiamo confrontato i risultati di questo studio con altre ricerche internazionali per capire dove l’AI crea valore e dove invece produce inefficienze. Le raccomandazioni convergono, servono regole chiare, cultura collaborativa, investimenti in sistemi più avanzati e consapevolezza che i benefici si misureranno solo con tempo e complementarità.

AI al lavoro, il concetto di “workslop” nello studio BetterUp-Stanford

Lo studio di BetterUp Labs e Stanford Social Media Lab, pubblicato su Harvard Business Review mette in evidenza una contraddizione, a fronte di un utilizzo dell’AI generativa cresciuto rapidamente negli ultimi due anni, i ritorni concreti restano marginali.

Questa discrepanza tra entusiasmo e risultati misurabili costituisce lo sfondo su cui BetterUp Labs e Stanford Social Media Lab hanno condotto la ricerca. BetterUp è una piattaforma di coaching e sviluppo professionale, mentre lo Stanford Social Media Lab è un centro di ricerca sui processi comunicativi e tecnologici: la collaborazione tra i due dà quindi una prospettiva che intreccia dinamiche organizzative e dimensioni psicologiche.

I problemi

Gli autori segnalano come il numero di processi interamente guidati da AI sia raddoppiato, ma senza che si registri un miglioramento tangibile in termini di ROI. Da qui la scelta di dare un nome al fenomeno e di indagarne i meccanismi, nasce così il concetto di “workslop”.

La ricerca mostra numeri significativi, in un sondaggio su 1.150 dipendenti full-time negli Stati Uniti, il 40% ha dichiarato di aver ricevuto workslop nell’ultimo mese, stimando che circa il 15% dei materiali interni ne sia affetto. Ogni episodio costa quasi due ore di tempo, pari a un “tax invisibile” di 186 dollari al mese per dipendente, oltre 9 milioni l’anno per un’organizzazione di 10.000 persone. Gli autori forniscono esempi concreti, un manager del settore retail racconta di aver dovuto rifare completamente un’analisi generata dall’AI, perdendo ore preziose e convocando riunioni aggiuntive. U

n responsabile tech descrive la confusione creata da un’email piena di testi generati, costringendo il team a spendere due ore per ricostruire le informazioni reali. Un analista finanziario spiega di essersi trovato davanti a un report formalmente corretto ma privo di dati cruciali, dovendo decidere se riscriverlo da zero o accettarne i limiti. Oltre ai costi economici, emergono conseguenze sociali, frustrazione, calo di fiducia e reputazione dei colleghi percepiti come meno competenti o affidabili.

Lo studio rileva anche un impatto emotivo diretto, il 53% dei lavoratori dichiara di sentirsi infastidito quando riceve workslop, il 38% confuso e il 22% addirittura offeso. Queste reazioni non solo aumentano il disagio individuale, ma contribuiscono a incrinare la collaborazione e la disponibilità a lavorare nuovamente con chi ha inviato materiali di scarsa qualità.

Ancora più rilevante è l’impatto sulla percezione di competenza e affidabilità, circa la metà dei partecipanti considera i colleghi che inviano workslop meno creativi, capaci e affidabili; il 42% li giudica meno degni di fiducia, mentre il 37% arriva a percepirli come meno intelligenti. Questo tipo di svalutazione interpersonale rischia di consolidarsi nel tempo, erodendo il capitale sociale delle organizzazioni e la qualità della collaborazione interna.

Il lavoro quantifica anche una vera e propria “workslop tax”: sommando il tempo sprecato e i costi salariali, un’azienda media può perdere milioni di dollari ogni anno in produttività. Si tratta di una tassa invisibile che si accumula e che, a lungo andare, rischia di compromettere non solo i risultati immediati, ma anche la cultura organizzativa e la capacità di collaborare. In prospettiva, gli autori avvertono che senza regole chiare e un uso più mirato dell’AI, questa tassa tenderà a crescere, minando la fiducia reciproca e l’efficienza complessiva delle imprese.

AI e lavoro, le sovrapposizioni con altri studi

Il quadro tracciato si inserisce in un corpus crescente di evidenze che mostrano un paradosso, adozione elevata, impatti limitati. Emergono però anche casi opposti, che invitano a riflettere. Quando cambiano il disegno sperimentale, i compiti o gli incentivi, gli esiti dell’AI possono ribaltarsi. È il caso di P&G, dove la stessa tecnologia che altrove produce inefficienze ha favorito collaborazione e creatività. In altre parole, la tecnologia non ha un destino univoco, se è integrata nei flussi, con coordinamento e ownership, tende ad alzare qualità e creatività; se rimane scorciatoia individuale, genera workslop.

Anche il lavoro del MIT conosciuto come Project NANDA aiuta a chiarire i confini del problema: l’indagine su centinaia di iniziative aziendali mostra che il 95% delle organizzazioni non riesce a trasformare i progetti pilota in valore reale. Qui la diagnosi non è centrata sul comportamento individuale ma sulla strategia. Sistemi che non apprendono, soluzioni sviluppate in casa ma poco scalabili, dipendenti che preferiscono strumenti consumer rispetto a quelli aziendali. In questo caso la mancanza di ROI non deriva da pigrizia o superficialità, ma da un disallineamento tecnologico e organizzativo.

Il grande studio condotto tra Chicago e Copenhagen porta il discorso su un altro piano ancora: quello macroeconomico. In Danimarca l’adozione dell’AI è altissima, fino all’83% dei lavoratori, eppure i benefici osservabili sono modesti. Il risparmio medio di tempo è stimato al 2,8%, mentre salari e occupazione restano invariati. In altre parole, anche dove l’AI viene adottata in massa, i suoi effetti non emergono nelle statistiche di produttività. È la dimostrazione che la J-Curve della produttività non è uno slogan, ma un dato empirico, i benefici, se arriveranno, saranno differiti.

Poi c’è lo studio del MIT su ChatGPT e i processi cognitivi Qui l’analisi è micro, centrata sul cervello degli individui, emerge un “debito cognitivo” perché l’uso dell’AI riduce memoria, capacità critica e senso di proprietà del lavoro. È un risultato che spiega bene la tensione percepita da molti, più velocità, meno profondità. Infine, il caso P&G con Harvard e Wharton, citato prima, mostra una traiettoria diversa.

L’AI non come scorciatoia, ma come “compagno cibernetico” che eleva il lavoro di gruppo. In quell’esperimento con 776 professionisti, l’AI ha permesso a singoli di raggiungere le performance dei team, ha ridotto i silos tra funzioni e ha generato più emozioni positive. Le squadre supportate dall’AI hanno avuto tre volte più probabilità di produrre idee nel top 10% per qualità. Un risultato che ci ricorda quanto il contesto, il design del compito e la governance dell’AI siano determinanti per orientare gli esiti.

Raccomandazioni e scenari per l’uso dell’AI al lavoro

Dalla convergenza degli studi non nascono ricette semplici ma spunti che meritano di essere guardati con occhio critico, un po’ come accadde con l’avvento di Internet, c’era chi usava la nuova risorsa per ampliare la propria conoscenza e chi la sfruttava solo per copiare senza capire.

Allo stesso modo, l’AI può diventare strumento di emancipazione o scorciatoia sterile. Da questa tensione emergono alcune indicazioni.

In primo luogo, servono regole chiare e una cultura organizzativa che non celebri l’AI in sé ma il suo uso intelligente. L’errore più grande è confondere quantità e qualità. Non basta inserire l’AI ovunque per produrre valore, così come non bastava riempire le tesine di citazioni copiate da Internet per dimostrare conoscenza. Un “pilot mindset” significa usare l’AI per arricchire, non per sostituire.

C’è poi il nodo degli investimenti complementari.

Ogni tecnologia che ha davvero spostato la produttività è stata accompagnata da processi e competenze nuove. L’AI non fa eccezione.

Senza ridisegnare i flussi, senza aggiornare le skill, senza infrastrutture adeguate, la promessa resta vuota.

Sul fronte tecnologico, l’illusione di strumenti che producono testi su comando deve lasciare spazio a sistemi agentici, capaci di apprendere e adattarsi. Solo così l’AI diventa partner e non stampella.

È un passaggio che ricorda la differenza tra avere un motore acceso al minimo e farlo correre in pista, la potenza è lì, ma senza un circuito adatto rimane sprecata. Infine, occorre lucidità macroeconomica.

I benefici dell’AI non sono immediati, ma seguono la logica della Productivity J-Curve, prima inefficienze e costi, poi, se andrà bene, arriveranno i risultati. Illudersi che basti introdurre l’AI per vedere crescere i margini è un esercizio di ingenuità manageriale.

Ricordiamoci del recente saggio AI as Normal Technology in cui gli autori collocano l’AI all’interno della traiettoria storica delle tecnologie general purpose e del paper del premio Nobel Daron Acemoğlu The Simple Macroeconomics of AI in cui prevede che l’AI potrebbe incrementare la produttività totale di circa lo 0,66% in dieci anni. Questo numero, però, potrebbe essere anche inferiore, intorno allo 0,53%, poiché molti compiti futuri saranno più complessi e difficili da automatizzare.

Prossimi scenari

Se applichiamo la lente del foresight, emergono almeno tre scenari possibili.

  • Nel primo, che potremmo chiamare “spirale del workslop”, l’AI generativa continua a essere usata come scorciatoia. Più output superficiali, più tempo perso a correggere, più fiducia erosa. Uno scenario di stagnazione, dove l’adozione cresce ma la produttività resta ferma e il capitale sociale delle organizzazioni si deteriora.
  • Nel secondo scenario, “compagno cibernetico”, l’AI diventa partner reale: integrata nei flussi, progettata per apprendere e coordinarsi, capace di aumentare creatività e collaborazione. Qui il rischio di workslop diminuisce e si aprono possibilità concrete di valore aggiunto. È lo scenario che gli esperimenti come quello di P&G rendono plausibile.
  • Infine, c’è uno scenario intermedio, “J-Curve della produttività”, in cui le aziende attraversano una fase di costi e inefficienze prima di maturare l’integrazione necessaria. In questo contesto il workslop è parte di una curva di apprendimento inevitabile, ma con la prospettiva che, dopo una fase iniziale di confusione, emergano benefici reali.

Questi scenari ci ricordano che l’AI non ha un destino già scritto. Molto dipenderà da governance, investimenti e cultura. Essere cinici significa ammettere che l’AI può banalmente peggiorare il lavoro; essere controintuitivi significa riconoscere che, in certi contesti, può invece potenziarlo oltre quanto immaginiamo. La sfida è decidere in quale traiettoria vogliamo collocarci, se nel vicolo cieco del workslop o nel sentiero più difficile ma più promettente dell’AI come alleato strategico.

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