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Antitrust Ue: Big Tech e lusso, le stesse cattive pratiche



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La Commissione Europea ha inflitto una maxi-multa da 157 milioni di euro a Gucci, Chloé e Loewe per aver imposto ai rivenditori indipendenti di mantenere prezzi fissi o limiti agli sconti. Ecco un nuovo capitolo della strategia antitrust europea, che negli ultimi mesi ha colpito anche Apple, Meta e Google. Vediamo gli impatti

Pubblicato il 17 ott 2025

Marianna Tramontano

Consulente Marketing Digitale e innovazione per PMI



antitrust lusso big tech

La Commissione europea ha colpito tre icone del lusso con una sanzione complessiva da 157 milioni di euro per violazione dell’articolo 101 del TFUE attraverso pratiche di controllo dei prezzi nella rete di distribuzione, online e non.

Il podio vede Gucci al primo posto con una sanzione di 119,7 milioni di euro, seguono Chloé 19,7 milioni di euro e Loewe 18 milioni di euro. In tutti i casi, le sanzioni sono state ridotte per la collaborazione dei brand nel corso dell’indagine.

Anche se a prima vista non sembra, la notizia va a braccetto con le ultime mosse a tenaglia dell’Antitrust sulle big tech.

COMP Flash | Gucci, Chloé & Loewe fined 157 € million for anticompetitive pricing practices

Si può disegnare quindi un quadro che ci dice come le multinazionali tech e non adottino tecniche simile, distorsive della concorrenza. E la nuova stagione di caccia dell’Antitrust contro queste pratiche.

Una svolta: negli ultimi anni l’Europa non parla più solo di “efficienza dei mercati” o “benessere del consumatore”, ma sempre più spesso di “libertà di scelta”, “pluralismo digitale”, “equità tra operatori”

La sanzione Antitrust al lusso, Gucci, Chloé e Lowe

Come indicato nel comunicato ufficiale della Commissione, le tre aziende avrebbero limitato la libertà dei rivenditori di determinare i propri prezzi, una pratica nota come Resale Price Maintenance, classificata tra le “restrizioni più gravi” dalle linee guida europee sulle intese verticali. In sostanza, un modo per “blindare” i listini e mantenere i prezzi del lusso forzatamente stabili su tutto il mercato europeo.

Come dichiarato nel video diffuso dalla Direzione Generale Concorrenza della Commissione europea: Nell’UE non c’è spazio per l’RPM. Questo tipo di comportamento anticoncorrenziale aumenta i prezzi e riduce la reale possibilità di scelta per i consumatori”. Una presa di posizione che arriva in un momento cruciale per l’Europa, sempre più decisa a colpire le distorsioni di mercato, dai listini del lusso alle pratiche monopolistiche delle Big Tech.

Il cuore della decisione UE: l’indagine Gucci – Chloé – Loewe

L’indagine della Commissione europea è iniziata nella primavera del 2023, con una serie di ispezioni a sorpresa(“dawn raids”) negli uffici europei di alcune maison del lusso. I sospetti riguardavano pratiche di controllo dei prezzi nella distribuzione, una dinamica già segnalata da diversi rivenditori indipendenti. Dopo oltre un anno di verifiche documentali e audizioni, nell’estate 2024 Bruxelles ha formalizzato le accuse con la Statement of Objections, l’atto ufficiale che precede la sanzione.

Il 14 ottobre 2025 è arrivata la decisione finale: Gucci, Chloé e Loewe sono state riconosciute colpevoli di aver imposto ai propri rivenditori limiti ai prezzi di vendita e agli sconti. In sostanza, le tre aziende hanno interferito con la libertà dei negozi partner online e offline imponendo condizioni come: il divieto di discostarsi dai prezzi raccomandati, dell’applicazione di soglie massime di sconto e l’obbligo di rispettare periodi specifici per le promozioni. In alcuni casi, secondo la Commissione, ai retailer sarebbe stato vietato temporaneamente di praticare qualunque sconto, con l’obiettivo di mantenere allineati i listini dei punti vendita indipendenti e quelli dei canali diretti dei brand (boutique e e-commerce).

Cos’è il Resale Price Maintenance e perché è vietato

Dietro l’acronimo RPM, Resale Price Maintenance, si nasconde una delle pratiche più “tossiche” per la concorrenza: il mantenimento del prezzo di rivendita. In sostanza, un produttore impone ai propri rivenditori il prezzo a cui devono vendere un prodotto o stabilisce limiti rigidi agli sconti e alle promozioni. Il risultato è che tutti i punti vendita, indipendenti o affiliati, finiscono per proporre lo stesso listino, privando i consumatori della possibilità di scegliere dove comprare a condizioni migliori. Nel comunicato ufficiale riguardante quest’ultima sanzione viene riportata un’infografica che mira a chiarire ulteriormente il comportamento sanzionato.

Nel linguaggio dell’antitrust europeo, l’RPM è considerata una “restrizione hardcore”: una di quelle pratiche che, per la loro stessa natura, distorcono la concorrenza a valle e non possono essere giustificate con esigenze di marketing o tutela del brand. Le Linee guida Ue sulle intese verticali e il Regolamento (UE) n. 2022/720 (il cosiddetto Vertical Block Exemption Regulation, o VBER) lo dicono esplicitamente: fissare prezzi minimi di rivendita o impedire sconti non rientra tra le eccezioni consentite, nemmeno se la quota di mercato è modesta o se l’obiettivo dichiarato è proteggere l’immagine del marchio. In pratica, l’RPM altera la catena del valore dal produttore al consumatore.

  • Per i retailer, significa perdere autonomia commerciale e margini di manovra.
  • Per i consumatori, vuol dire pagare un prezzo che non riflette la concorrenza reale ma solo la volontà del brand.
  • Per il mercato, comporta una perdita di dinamismo e un rialzo artificiale dei prezzi.

La Commissione è chiara su un punto: la libertà di un marchio di selezionare i propri distributori ( le cosiddette reti selettive) non legittima il controllo sui prezzi finali. In un sistema concorrenziale, i brand possono scegliere chi vende i loro prodotti, ma non quanto li vende.

Il lusso nel mirino: quando il brand soffoca la concorrenza

Nel mondo del lusso, il prezzo non è solo un numero, è l’essenza stessa del “posizionamento” di un marchio. Proprio per questo le maison hanno sempre cercato di controllare non solo la distribuzione, ma anche il modo in cui i loro prodotti vengono prezzati, esposti, scontati. Un controllo che, se oltrepassa la soglia del marketing, diventa un problema di concorrenza. Il caso che stiamo analizzando mostra come il lusso possa trasformarsi in un laboratorio di pratiche restrittive. Le tre aziende non si sono accordate tra loro, ma hanno esercitato – ciascuna all’interno della propria rete – un controllo verticale sui rivenditori. È la tipica zona grigia dove il concetto di “coerenza del brand” sfuma nel controllo dei prezzi. Nell’interpretazione della Commissione, questo comportamento ha reso impossibile ai negozi indipendenti competere liberamente, appiattendo i listini e “sincronizzando” i prezzi in tutta Europa.

Bruxelles non mette in discussione il diritto dei marchi a scegliere chi può vendere i loro prodotti: le cosiddette reti selettive di distribuzione sono perfettamente legittime, anzi spesso necessarie per preservare la qualità e l’immagine. A dimostrazione di questo, ricordiamo il caso Coty del 2018: la Corte di Giustizia aveva riconosciuto la legittimità delle reti selettive per motivi di immagine, ma chiarito che tali reti non possono mai limitare la concorrenza sui prezzi. Una volta selezionato il rivenditore, quel rivenditore deve poter decidere a che prezzo vendere. Ed è qui che Gucci, Chloé e Loewe hanno superato la linea.

Quest’ultima indagine fa parte di un giro di vite più ampio del regolatore europeo sul settore della moda e del lusso. Nel 2023, invece, Bruxelles aveva inviato una comunicazione di addebiti a Pierre Cardin e al suo licenziatario Ahlers, accusandoli di limitare la vendita transfrontaliera e di imporre restrizioni territoriali e di canale ai distributori. Un altro tipo di violazione delle regole sulla concorrenza, ma sintomatica dello stesso problema: il controllo eccessivo sulla filiera commerciale. In parallelo, la Commissione ha mantenuto aperto un monitoraggio su altre case di moda europee, dopo le ispezioni del 2023, indagini poi archiviate per questioni di priorità. La lezione è chiara: che si tratti di territori, canali o listini, Bruxelles sta smontando l’idea che il lusso possa vivere in una “zona franca” delle regole di mercato e il principio di fondo è sempre lo stesso: l’immagine di un brand non può essere costruita a spese della concorrenza.

Dalla moda alle Big Tech: l’antitrust parla la stessa lingua

Negli ultimi due anni, la linea dura antitrust si è fatta sentire soprattutto nel digitale. Nel 2024, la Commissione ha inflitto a Apple una multa da 1,8 miliardi di euro per abuso di posizione dominante nell’App Store, accusandola di impedire agli utenti di sapere che potevano abbonarsi ai servizi musicali anche al di fuori della piattaforma. Un anno dopo, nel 2025, sempre Apple è finita nuovamente nel mirino, questa volta per violazione del Digital Markets Act, con una sanzione da 500 milioni per aver ostacolato la concorrenza con regole anti-steering poco trasparenti.

Nello stesso periodo, Meta è stata multata per 200 milioni di euro, colpevole di aver violato l’articolo 5 del DMA con il suo modello “Pay or Consent”, giudicato incompatibile con la libertà di scelta degli utenti sui dati personali. Infine Google, travolta nel 2025 da una multa record da 2,95 miliardi di euro per abuso di posizione dominante nell’ad tech, accusata di aver auto-favorito la propria piattaforma pubblicitaria (AdX) a discapito dei competitor.

Una vicenda che, come ho raccontato nel mio articolo in cui parlo della grande guerra contro l’impero pubblicitario Google, rappresenta molto più di un contenzioso economico: è la battaglia per la struttura stessa del web. Il meccanismo contestato è simile a quello del lusso: in entrambi i casi, un attore dominante controlla contemporaneamente il prodotto e il canale, dettando le regole di accesso e di prezzo. Per questo il messaggio politico della Commissione è così chiaro: chi costruisce un ecosistema non può usarlo per soffocare la concorrenza.

RPM, DMA e il nuovo paradigma del controllo economico

Guardando insieme i casi del lusso e quelli delle Big Tech, è evidente che l’Unione europea stia ridisegnando la sua idea di mercato aperto: con il Resale Price Maintenance Bruxelles colpisce chi controlla il prezzo a valle e con il Digital Markets Act chi controlla l’accesso a monte. Due strumenti diversi, un’unica filosofia: impedire che il potere economico si trasformi in potere regolatorio privato.

Nel primo caso, l’intervento arriva ex post: la Commissione indaga, accerta la violazione e sanziona, come accaduto con Gucci, Chloé e Loewe. Nel secondo, si agisce ex ante: il DMA impone obblighi preventivi ai gatekeeper digitali: interoperabilità, divieto di auto-preferenza, trasparenza negli algoritmi per evitare che la distorsione si verifichi.

Il nuovo paradigma dell’Antitrust europeo  punisce e regola, corregge e previene. Non si limita a “riparare” il mercato, ma ridefinisce i limiti del potere privato. Questo approccio segna anche un cambio culturale.

Una svolta culturale: libertà di scelta, equità, pluralismo

Negli ultimi anni infatti l’Europa non parla più solo di “efficienza dei mercati” o “benessere del consumatore”, ma sempre più spesso di “libertà di scelta”, “pluralismo digitale”, “equità tra operatori”. È un passaggio semantico che riflette un cambio di paradigma: la concorrenza diventa non solo un obiettivo economico, ma una condizione strutturale di equilibrio politico nell’era digitale. 

Questo nuovo approccio segna una svolta: non basta più rilevare il danno, bisogna fermare il potere prima che si cristallizzi.  In un mondo dove prezzi e visibilità possono essere manipolati dall’algoritmo, l’Europa vuole ribadire un principio: la struttura del mercato non deve diventare una sfera di influenza privata. Non è la tecnologia o il brand che governa il mercato, ma il diritto che governa tutti.

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