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Decrescita digitale: ripensare l’Ed-tech prima che cancelli il sapere



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Tra Ed-Tech e intelligenza artificiale, la promessa di una formazione più accessibile nasconde un rischio di addestramento e standardizzazione. Il digital degrowth invita a ripensare il rapporto tra sapere e tecnica

Pubblicato il 24 ott 2025

Lelio Demichelis

Sociologo della tecnica e del capitalismo



educazione digitale bambini

Tutti pazzi per l’intelligenza artificiale, tutti pazzi per l’Ed-Tech, cioè per l’Education Technology – l’insieme di tecnologie e strumenti digitali applicati alla didattica e alla istruzione/educazione e formazione, con l’obiettivo promesso (anzi, certo per tutti i retori dell’innovazione tecnologica, a prescindere) di rendere l’apprendimento più accessibile, efficace e personalizzato. Magari anche più sostenibile ecologicamente.

E se invece fosse un’altra (l’ennesima) falsa promessa del tecno-capitalismo – e avessimo bisogno piuttosto di un digital degrowth (che rimanda alla decrescita di Serge Latouche applicata all’economia) – intendendo per degrowth, secondo Neil Selwyn – “a proactive renewal of technology use around goals of voluntary simplicity and slowing down, community-based coproduction and sharing, alongside conscious minimalization of resource consumption”? E se invece – su tutto – avessimo urgenza di stimolare una intelligenza naturale per evitare che l’analfabetismo dilagante e il feticismo per l’i.a. diventino uno tsunami che tutto travolge?

Il conflitto tra tecnologia, conoscenza e libertà

Di più: l’obiettivo del digital degrowth, apparentemente positivo e virtuoso, non somiglia pericolosamente alle retoriche e alla propaganda a favore dell’Ed-Tech così come è oggi, cioè funzionale e finalizzato alla crescita (growth, appunto) del capitale, del profitto privato e della sua tecnologia? E non sembra la propaganda che ci ha fatto accettare senza spirito critico la rete negli anni ’90 (rete uguale libertà e democrazia, lavoreremo meno e avremo più tempo libero…), producendosi infine l’esatto contrario, non per una eterogenesi dei fini ma per la logica, per l’essenza, per l’ontologia-teleologia di tecnica e capitale? Il rischio è forte.

Resta quindi – sempre non risolto perché siamo feticisti tecnologici – il problema a monte: essendo tecnica e capitalismo basati su standardizzazione, semplificazione, ripetizione, accelerazione, omologazione, automatismi macchinici e comportamentali e soprattutto delega della conoscenza alle macchine (ultima l’intelligenza artificiale, prima gli algoritmi e il machine learning – ma anche l’i.a. è machine learning), non è forse vero che educazione-conoscenza-pensiero-critico/sapienza e tecnologia/capitalismo sono in conflitto radicale tra loro e che quindi applicare il Tech all’Ed ci fa e farà sempre meno sapiens e sempre più simili a macchine? Mentre servirebbe invece: una educazione e una istruzione capaci di farci usare le macchine senza essere usati e formattati dalle macchine; un pensiero non calcolante per non diventare numeri; cioè un pensiero non tecnologico ma umanistico ed ecologico di convivenza/convivialità con gli altri e con la Terra – appunto un’intelligenza naturale invece dell’intelligenza artificiale. Ed è surreale proibire i cellulari a scuola ma insieme favorire l’uso dell’i.a.

Togliere conoscenza ed esperienza e pensiero autonomo ai lavoratori, accentrando tutto, semplificato e standardizzato, nella Direzione di fabbrica e qui tradotta in schemi e tabelle, non era forse l’obiettivo di Taylor, per accrescere efficienza e produttività? E non accade lo stesso con il taylorismo digitale di oggi, dove il comando al lavoratore arriva su uno schermo da un algoritmo – la nuova Direzione che incorpora organizzazione, comando e controllo – espropriandolo ancora di più di conoscenza e di autonomia e di libertà? E questa non è la stessa logica sottesa allo sviluppo della i.a. (Sam Altman, “l’i.a. serve per accrescere la produttività”) nella società diventata una fabbrica? E l’Assistente AI del pc non ci offre per prima cosa di semplificare il documento che abbiamo aperto, per risparmiare tempo, cioè per accrescere la nostra produttività, rinunciando ad approfondimento, lettura complessa, pensiero critico, ritenuti dal sistema tecno-capitalista assolutamente inefficienti perché ostacolo alla/rallentamento della produttività, che è invece da accrescere (growth) sempre di più? E nelle scuole e nelle Università l’insegnamento non si sta forse riducendo a schemi, tabelle e slides, in specializzazioni chiuse in se stesse senza pensiero complesso e senza collegamenti/connessione tra conoscenze diverse, cioè di nuovo in semplificazione e standardizzazione – ed è taylorismo educativo?

E quindi, e di nuovo: educazione e tecnologia (e capitalismo), non sono in contraddizione tra loro e cercare un uso virtuoso della tecnologia per l’educazione è un contro-senso? E cosa si nasconde allora dietro a quel Ed che precede Tech? Vera conoscenza, vera intelligenza, vera libertà cognitiva, vero pensiero critico (senza il quale non si ha educazione né istruzione), oppure addestramento, manipolazione epistemica, costruzione di una egemonia ontologica/teleologica? – intendendo con ontologia il senso e il logos a cui e per cuil’uomo deve essere formattato/addestratoperché siafunzionale al sistema, ovvero il discorso e gli immaginariche devono produrre l’individuo conforme, stabilendo i criteri della sua esistenza, ciò che può/deve fare e come e ciò che gli è invece impossibile fare; e con teleologia intendendo le finalità da perseguire mediante l’ontologia sistemica, cioè, nella modernità industrialista, l’accrescimentoincessante (growth) del profitto, del mercato e dei sistemi tecnici integrati e convergenti in mega-macchine.

Ontologia e teleologia della modernità diventate un sistema di pensiero archico totalitario/totalizzante basato solo su una razionalità strumentale/calcolante-industriale-industrialista, mentre il pensiero non è e non deve essere solo calcolo, ma prima di tutto etica, responsabilità, consapevolezza, approfondimento, critica. Una tecno-archía, come l’abbiamo definita[i]. Auto-referenziale e auto-accrescitiva.

Educazione o addestramento?

Riprendiamo e adattiamo allora una riflessione del filosofo della tecnica Günther Anders (1902-1992) per il quale “è difficile stabilire dove finisce l’educazione e ha inizio l’addestramento; dunque dove […] degli uomini vengono trasformati in uomini condizionati[ii]. Condizionati a cosa e per cosa e soprattutto, da chi? Ad essere funzionali al funzionamento della società data, a introiettare lontologia che regge e legittima quel tipo di società, ciascuno con-formato ad essa per riprodurla e replicarla, affinché non venga alterata o minacciata. E addestrare – pensiamo al regime di addestramento militare – significa generare automatismi comportamentali (anche quando si lasciano margini di autonomia per raggiungere un obiettivo), sussumere l’individuo nel gruppo riducendolo a parte di un tutto che deve muoversi come un sol uomo, escludere il pensiero critico che minaccia il funzionamento della macchina militare (come di quella industriale o dell’istruzione).

E nei paesi dove predomina la tecno-archía significa addestrare ciascuno ad essere produttore, consumatore, generatore di dati e a produttività crescente. Da qui le retoriche su capitale umano, su empowerment ed engagement nel lavoro, nell’attivazione del desiderio e del godimento nel consumo, nel divertimento e nella società dello spettacolo come nella scuola-azienda/fabbrica. Nessuna costruzione di autonomia in base al sapere aude! di Kant, ma crescente (growth) eteronomia, con sempre qualcuno che pensa per noi, oggi l’intelligenza artificiale come ultima sezione (Ed-Tech) del sistema educativo integrato e composto da sistema scolastico in senso stretto e da un sistema educativo in senso largo, con management e marketing e industria culturale (ieri e oggi Hollywood, oggi Netflix e YouTube e social e dintorni) e digitale e digitalizzazione di massa. Dunque, l’introduzione del tech nel sistema educativo è funzionale alla riproducibilità e all’accrescimento e alla familiarizzazione di ciascuno con queste tecnologie (l’addestramento/training), che sono appunto l’ontologia e la teleologia che si impongono su tutti e ciascuno (omnes et singulatim, richiamando Michel Foucault). Perché l’Ed-Tech non genera pensiero critico (analizzando ad esempio come e perché certe tecnologie sì e non altre, chi le ha prodotte e per quali scopi, perché gli algoritmi sono nascosti e segreti e se davvero le nuove tecnologie sono socialmente ed ecologicamente sostenibili) – ma si esercita addestrando al loro uso senza consapevolezza.

Il digital degrowth come proposta

Fatta questa lunga ma doverosa premessa, torniamo al digital degrowth. Scrive Selwyn[iii] – docente alla Monash University di Melbourne, Australia: “Education technology needs to be reimagined along radically different lines – i.e. toward forms of digital technology use that are more humane and sustainable, that strive to be genuinely nourishing, generative and empowering for all, as well as avoiding harmful impacts on the planet’s environment and ecosystems”. E tuttavia, queste sono appunto le stesse cose che promette il sistema del growth, come riconosce Selwyn: “Indeed, growing numbers of policymakers, industrialists and education professionals continue to promote the imminent digital transformation of education (OECD 2021) as a key element of sustainable development in the 2020s and beyond. […] These ideas have been subsequently bolstered by claims that the continued digitization of education can contribute to environmental sustainability, not least the alignment of digital education with ‘green-tech’ principles – where increased use of digital technologies might contribute to the reduction of carbon emissions associated with campus-based education”. E invece, oltre la propaganda archica, la realtà dice cose diverse: “arguments for the continued development of AI, augmented reality, and other emerging digital technologies feeds directly into environmental problems arising from the depletion of scarce resources in manufacturing, usage and disposal processes, alongside the excessive amounts of energy used to support data processing and storage, and the exacerbation of waste and pollution issues”.

Come passare allora dal growth al degrowth? “This requires developing critical consciousness of how contemporary societies are set up to facilitate and normalise the over-consumption of digital technology […]. Indeed, digital technology as a sociotechnical system is set up to push people into thinking that they need more technology, and that not having more technology is a retrograde step”. Appunto, aggiungiamo, a questo serve la propaganda per il digitale e la digitalizzazione della vita, questo chiede l’ontologia della tecno-archía: di più, di più, sempre di più, illimitatamente, come illimitato deve essere il profitto del capitale e crescente deve essere l’integrazione omnes et singulatim nel sistema archico della modernità.

Ecco allora la proposta del degrowth, con le parole di Selwyn: “degrowth can be seen as promoting an overtly post-capitalist agenda – seeking to develop alternatives to market forces as the primary organising force in our societies. […] degrowth calls for a radical rethinking of how communities choose to do things, as well as the resources they draw upon in order to do these things. Central to this approach are values such as simplicity, slowing-down, and a foregrounding of local approaches toward coproduction and sharing. […] degrowth agitates for the adoption of new practices, relations and institutions that work toward progressive social change and values of ecological integrity and social justice”. E quindi, “the degrowth of digital technology needs to be addressed across all areas of society. Ma bastano le vie suggerite – local approaches, coproduction and sharing, commons, eccetera (tutte cose già sentite) – a scardinare il sistema del growth?

Oltre a Latouche, Selwyn richiama molto opportunamente Ivan Illich (1926-2002), il suo Descolarizzare la società[iv] del 1971 (in cui sosteneva che il sistema scolastico era organizzato per produrre conformismo sociale, obbedienza alle istituzioni e ai manager) e soprattutto la sua idea di convivialità (il libro è del 1973), Illich chiamando società conviviale “una società in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata con la collettività e non riservato a un corpo di specialisti che lo tiene sotto il proprio controllo. Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni”; ma per questo una società “deve stabilire dei limiti pedagogici alla crescita industriale. […] Il monopolio del modo di produzione industriale riduce gli uomini a materia prima lavorata dagli strumenti. E tutto questo in misura non più tollerabile. Poco importa che sia un monopolio pubblico o privato: la degradazione della natura, la distruzione dei legami sociali e la disintegrazione dell’uomo non potranno mai servire a uno scopo sociale”[v].

Tutto giusto e vero. Ma da allora tutto è andato in direzione contraria rispetto alle tesi di Illich. E questo ci porta ad alcune domande conclusive. Anche il concetto di convivialità non è stato forse usato dal tecno-capitalismo per i propri fini di growth incessante, con parole come condividere, amicizia e social? Basta il degrowth di Selwyn (e di altri) – come la decrescita di Latouche – per modificare (ma modificare radicalmente) l’ontologia e teleologia del sistema industriale, arrivato oggi, proprio con il digitale, alla iperindustrializzazione e non certo alla società postindustriale, riducendo ancora di più gli uomini a materia-prima/dati/forza-lavoro lavorata dalle macchine (e dal capitale)? E non è forse la stessa società a cancellare, come richiesto dall’industria (e anche l’i.a. è industria), ogni idea di limite pedagogico alla crescita industriale (a questo serve l’i.a.), lasciando che tutto il sistema educativo sia sempre più funzionale alla (sia un reparto della) società fabbrica?

Domande a cui Selwyn – come la stessa idea di degrowth – non sembra dare risposte convincenti. Perché forse, come sosteniamo, se prima non si esce dall’ontologia/teleologia della modernità, basata invece sul growth, nessun degrowth sarà mai possibile. Così come non si può avere libertà e democrazia se prima non si depone il potere archico.

Bibliografia


[i] L. Demichelis, “Tecno-archía, o la Nave dei folli. La banalità digitale del male”, DeriveApprodi, Bologna, 2025

[ii] G. Anders, “L’uomo è antiquato II”, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag. 16

[iii] N. Selwyn, “Digital degrowth: toward radically sustainable education technology” –

“Learning, Media and Technology”,https://doi.org/10.1080/17439884.2022.2159978

[iv] I. Illich, “Descolarizzare la società”, Mimesis, Milano, 2010

[v] I. Illich, “La convivialità”, Boroli Editore, Milano, 2005, pagg. 15, 12 e 13

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