Dopo anni in cui la regolazione dell’intelligenza artificiale è rimasta terreno di soft law, linee guida e codici volontari, la California ha scelto l’intervento legislativo.
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Ddal soft law all’intervento legislativo: nasce la SB 53
Il cuore del nuovo quadro è la Senate Bill 53, spesso presentata come la “Transparency in Frontier Artificial Intelligence Act”, una legge che non guarda solo all’uso dell’IA ma risale alla fonte, all’atto di progettare, addestrare e rilasciare i cosiddetti “modelli frontiera”.
Accanto alla SB 53, un pacchetto di misure settoriali – dal contrasto ai deepfake alle regole sulle chatbots “compagni”, fino a profili di pricing algoritmico e data brokerage – disegna un ecosistema denso, capace di condizionare prassi industriali ben oltre i confini dello Stato.
L’obiettivo di questo contributo è offrire una lettura giuridica ragionata del nuovo assetto: chi è soggetto agli obblighi; quali sono i doveri di trasparenza, sicurezza e segnalazione; che cosa cambia per le imprese; come si innesta tutto ciò nel più ampio confronto transatlantico, in particolare con l’AI Act europeo.
L’analisi non si ferma al dettato normativo: prova a coglierne la logica, i margini di discrezionalità, i punti di frizione e i probabili effetti di “travaso” regolatorio tra ordinamenti.
La scelta californiana: governare i rischi a monte dello sviluppo
Sul piano costituzionale federale, gli Stati conservano ampi spazi d’intervento in materia di tutela dei consumatori, sicurezza pubblica e diritto dei contratti. La California, sede di gran parte dell’industria digitale occidentale, conosce bene l’effetto di rete delle proprie leggi: è quanto accaduto con la privacy (CCPA/CPRA) e quanto potrebbe ripetersi con l’IA. La SB 53 nasce da una preoccupazione precisa: i modelli più potenti possono generare esternalità che non si esauriscono in danni individuali, ma assumono un profilo sistemico. È su questo crinale che la legge innesta un dovere di “cautela ex ante”, imponendo meccanismi di governance già nella fase di sviluppo e prima del rilascio pubblico.
La scelta di intervenire “a monte” non è banale. Significa trattare i laboratori di ricerca e i reparti R&D non come zone franche, ma come luoghi in cui maturano doveri giuridici positivi: documentare, testare, mitigare, segnalare. In quest’ottica, il diritto torna a esercitare una funzione ordinante tipica del product safety law, ma ibridata con la specificità computazionale dei foundation models. La conseguenza – di grande interesse teorico oltre che pratico – è che l’unità di regolazione non è più solo il “prodotto” o il “servizio” al pubblico, bensì la catena di processi tecnici che lo precedono.
Chi è soggetto alla SB 53 e come cambia la responsabilità
La legge circoscrive l’attenzione ai “frontier models”, una categoria tecnica che, semplificando, coincide con modelli addestrati grazie a capacità computazionali e dataset di scala eccezionale. L’idea è di non disperdere il fuoco regolatorio: imporre oneri proporzionati ai soggetti che, per risorse e impatto potenziale, possono spostare il rischio complessivo. Ne discende una doppia soglia: da un lato la caratterizzazione tecnica del modello; dall’altro la dimensione economica dello sviluppatore, con regole più pressanti per i “large frontier developers”. Questa architettura selettiva ha due effetti.
- Primo: evita di strozzare l’innovazione minore o sperimentale, lasciando respirare startup e progetti accademici che non varcano certe soglie.
- Secondo: responsabilizza chi è strutturalmente in grado di sostenere costi di compliance, trasformando l’adempimento in un tassello della governance aziendale e – verosimilmente – nella base di future diligence contrattuali lungo la filiera (provider di infrastrutture, integratori, distributori).
Governance interna, incident reporting e tutela dei whistleblower
La trasparenza è solo la punta dell’iceberg. La SB 53 pretende un vero e proprio “framework” interno – una grammatica organizzativa – che mostri come lo sviluppatore identifichi i rischi elevati, come li testi, come li mitighi e come protegga asset critici come i pesi del modello. Il framework non è un documento vetrina: deve vivere nella prassi, aggiornarsi, sostenere audit interni ed esterni, integrarsi con standard tecnici riconosciuti.
A ciò si affianca un obbligo di segnalazione degli incidenti di sicurezza gravi a un’autorità statale competente. La cultura dell’incident reporting – nata nella safety industriale, poi diffusasi nella cybersecurity – entra qui nell’IA con un taglio inedito: non solo breach e intrusioni, ma anche comportamenti del modello che, per prevedibilità e materialità, possano concorrere a danni su larga scala. Questo spinge le imprese a dotarsi di canali interni di emersione tempestiva, a investire in capacità forensi e a ridefinire il perimetro delle responsabilità tra sviluppatore, integratore e cliente finale. Elemento non trascurabile è la tutela dei whistleblower coinvolti nei processi di valutazione e risposta agli incidenti: una protezione anti-ritorsione e un correlato diritto di azione privata rendono credibile il sistema dall’interno, introducendo un contrappeso alla naturale reticenza organizzativa a esporre criticità.
Il bilanciamento tra disclosure e segreto industriale
Il legislatore californiano non pretende di spalancare le porte del laboratorio. La pubblicità richiesta – rapporto di trasparenza e versioni “redatte” dei framework – deve misurarsi con l’esigenza di proteggere segreti industriali e know-how. Il risultato è un equilibrio pratico: divulgare abbastanza da rendere verificabile la serietà del risk management, senza compromettere vantaggi competitivi o sicurezza dei modelli. Questo compromesso, però, chiedendo alle imprese di separare ciò che è “essenziale per la fiducia” da ciò che è “sensibile”, ne spingerà molte a standardizzare processi di redazione, predisporre criteri di classificazione e rafforzare le funzioni legali e di compliance. È lecito attendersi che, come già visto in altri domini regolati, si consolidi una prassi di reporting industry-standard, capace di orientare anche i contenziosi: ciò che è scritto (o taciuto) nel framework diventerà la prima frontiera della responsabilità civile.
Norme complementari su usi specifici dell’IA
La SB 53 non è un monolite isolato. Norme parallele disciplinano aspetti puntuali dell’ecosistema IA: il comportamento delle chatbots che simulano interazioni personali; l’obbligo di informare su alterazioni digitali di immagini in contesti sensibili; presidi contro l’abuso di repliche digitali e deepfake; trasparenze e tutele nel mercato dei dati; cautele su algoritmi che incidono sul prezzo.
La logica è complementare: un pilastro orizzontale sui modelli di punta, e una costellazione di regole verticali su usi ad alto rischio sociale. Per le imprese, ciò significa che l’analisi di conformità non può fermarsi alla domanda “il mio modello è un frontier model?”; deve mappare i casi d’uso, i flussi di dati, i rapporti contrattuali a valle, l’informazione al consumatore. L’era del “build fast, fix later” lascia il campo a un ciclo di vita dell’IA in cui la compliance è progettuale, e i contratti diventano infrastruttura giuridica della sicurezza.
Differenze e assonanze con l’AI Act europeo
Passando al versante europeo, l’AI Act adotta un’architettura diversa. L’Unione sceglie un regolamento orizzontale fondato su livelli di rischio e su una trama di diritti e garanzie che mette al centro la persona: divieti per usi ritenuti inaccettabili; requisiti stringenti per i sistemi “ad alto rischio”; obblighi di trasparenza e documentazione tecnica per i modelli per scopi generali; attenzioni specifiche ai foundation models più potenti. La California, al contrario, sale subito sulla vetta: guarda ai modelli di massima scala e alle imprese che li sviluppano, e su quel vertice innesta requisiti severi di governance e safety.
Ne discende una differenza di “granulometria”: l’AI Act è pensato per catturare un ventaglio ampio di sistemi e attori, pacificando diritti fondamentali e mercato unico; la SB 53 dirige il fascio di luce su pochi, grandissimi operatori, con l’intento di sterilizzare il rischio catastrofico e produrre esternalità virtuose lungo la filiera. Malgrado ciò, gli assi portanti si toccano: trasparenza documentale, testing e valutazione dei rischi, protezione degli utenti e canali di segnalazione, responsabilizzazione del management.
È qui che potrebbe maturare un “dialogo regolatorio” di fatto: molte multinazionali, esposte a entrambi i regimi, tenderanno a unificare procedure interne, definizioni operative, metriche di test e formati di reporting. La convergenza spontanea – spinta da economia dei costi e da esigenze probatorie – potrebbe generare standard de facto che i due ordinamenti finirebbero per riconoscere, in un percorso non dissimile da quello visto in materia di privacy e sicurezza delle informazioni.
L’effetto California e la proiezione extraterritoriale
L’Europa conosce bene il cosiddetto “Brussels Effect”: la capacità di proiettare oltreconfine standard regolatori grazie al peso del mercato interno e alla scelta delle imprese globali di adottare un’unica configurazione compliance-by-default. La California, per densità di operatori e centralità tecnologica, può produrre un effetto analogo. Anche senza un titolo federale onnicomprensivo, una legge statale che incide sullo sviluppo dei modelli più potenti tende a “farsi seguire”: fornitori di infrastrutture cloud, partner industriali, grandi clienti corporate e investitori chiedono garanzie uniformi.
Né va dimenticato il ruolo della contrattualistica: clausole di allocazione del rischio, impegni di audit e reporting, obblighi di pass-through lungo la catena distributiva possono trasformare i requisiti californiani in condizioni di accesso ai mercati o ai capitali, avvicinandoli – di fatto – alle logiche europee. Su questo terreno si giocherà una partita interessante: quanto i meccanismi di mercato riusciranno a colmare le differenze testuali tra i due regimi, prefigurando un diritto transatlantico dell’IA fatto anche di standard tecnici condivisi e prassi di assurance interoperabili.
Cosa cambia concretamente per le imprese
Per chi sviluppa o integra modelli avanzati, il cambio di passo è netto. Occorre un registro dei rischi che sia più di un foglio di calcolo: tassonomie condivise, soglie di materialità motivate, scenari controfattuali, stress test riproducibili. Occorrono funzioni integrate tra legale, sicurezza, prodotto e data science, con una “prima linea” tecnica in grado di riconoscere un incidente prima che diventi danno. Occorre, infine, una disciplina documentale capace di reggere il vaglio esterno: autorità, controparti contrattuali, giudici. La buona notizia è che nulla di ciò è alieno alle grandi imprese regolamentate: si tratta di importare nel dominio dell’IA prassi già note in product safety, banking e cybersecurity, adattandole alla specificità dei modelli generativi e ai relativi rischi di abuso, manipolazione e fuga dei pesi. La cattiva notizia è che l’inerzia organizzativa – soprattutto in strutture nate come “engineering-first” – può essere forte. La SB 53 usa il bastone delle sanzioni e la leva reputazionale dei report pubblici per accelerare la transizione.
Nodi aperti e compliance dinamica
Una legge che rinvia ad aggiornamenti periodici delle definizioni tecniche accetta la propria incompletezza: è una virtù, purché l’adattamento resti trasparente e predicibile. Le imprese devono mettere in conto una compliance dinamica, con cicli di revisione del framework che dialoghino con lo stato dell’arte tecnico.
Rimane però un nodo concettuale: come si misura, ex ante, un rischio “catastrofico” in un sistema capace di comportamenti emergenti? Qui il diritto potrà chiedere aiuto a discipline confinanti – ingegneria della sicurezza, valutazione del rischio, scienze comportamentali – ma dovrà tollerare una quota di incertezza metodologica. Altro fronte: il coordinamento con il futuro quadro federale statunitense. Qualsiasi intervento del Congresso in materia di IA non potrà ignorare l’esperienza californiana; al tempo stesso, potrà tentare di armonizzare il patchwork statale. Per gli operatori transatlantici, si tratterà di mantenere una bussola coerente che permetta di “mappare” gli obblighi UE sulle prassi californiane e viceversa, riducendo ridondanze e conflitti.
Verso una cultura condivisa della sicurezza dell’IA
Se c’è un terreno su cui California e Unione europea possono incontrarsi, questo è la costruzione di un’“assurance” credibile: testing indipendente, attestazioni verificabili, logiche di audit ripetibili, disclosure comprensibili a stakeholder non tecnici. Non si tratta di certificare l’infallibilità – che non esiste – ma la ragionevolezza dei processi e la loro tracciabilità. Un simile terreno comune avrebbe un doppio pregio. Primo, ridurrebbe l’arbitraggio regolatorio: chi è conforme da una parte avrebbe pochi gradini da salire per esserlo anche dall’altra. Secondo, favorirebbe la nascita di un mercato dei servizi di valutazione e auditing dell’IA, necessario per non scaricare sull’autorità pubblica – da sola – il compito di verificare l’intero ecosistema. In questo senso, la SB 53 e l’AI Act, pur diversi, possono essere letti come due rampe che salgono allo stesso pianerottolo.
La stagione della regolazione “leggera” dell’IA volge al termine. La California ha scelto di iniziare dall’alto, dai modelli più potenti e dai soggetti più strutturati, imponendo loro un dovere di governo del rischio che precede il lancio sul mercato. L’Unione europea ha disegnato un quadro generale, graduato per rischio e teso a proteggere i diritti fondamentali lungo l’intero spettro dei sistemi.
Le due strade non si escludono; anzi, possono rinforzarsi a vicenda. Per le imprese, la lezione è duplice. Da un lato, occorre dotarsi di infrastrutture di compliance vive -framework, testing, reporting, canali di segnalazione – pensate per durare e adattarsi. Dall’altro, serve un lessico comune tra giuristi e ingegneri, perché la responsabilità non si gioca nei comunicati stampa ma nella qualità dei processi. Se davvero assisteremo a un “California Effect” capace di dialogare con il “Brussels Effect”, il risultato non sarà una sterile corsa alla sovra-regolazione, ma la nascita di una cultura della sicurezza dell’IA che renda l’innovazione più affidabile, contrattualmente gestibile e socialmente sostenibile. È qui che, al di là dei tecnicismi, il diritto torna a fare ciò per cui esiste: ridurre l’incertezza e distribuire in modo equo i costi dei rischi che noi, con le nostre tecnologie, creiamo.













