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Leadership storytelling: come il racconto trasforma i brand



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Il passaggio da “Just do it” a “Why do it” segna un cambio culturale. I brand non cercano più eroi ma interlocutori credibili. Il leadership storytelling diventa chiave per costruire fiducia e identità condivisa

Pubblicato il 6 nov 2025

Alessio Pecoraro

coordinatore PAsocial Emilia-Romagna, marketing & communication manager



leadership storytelling (1)

Il leadership storytelling sta ridefinendo le regole della comunicazione aziendale. Non si tratta più di costruire slogan memorabili o campagne persuasive, ma di dare voce ai leader d’impresa per creare narrative autentiche capaci di generare dialogo.

Il cambio di paradigma di Nike: da “Just do it” a “Why do it?”

Come accade spesso è da oltre oceano oche arrivano le ultime tendenze del marketing. Nike, l’azienda con sede a Eugene, in Oregon, ha fatto di tre parole “Just do it” un elemento capace di segnare la storia del marketing globale. Un claim che, per oltre trent’anni, ha incarnato l’essenza della comunicazione Nike. Eppure, nel 2024, il brand ha scelto di battere una nuova strada con un cambio di narrativa sottile ma dirompente: “Why do it?”. Perché farlo?

I marketer di Nike segnano un passaggio d’epoca: non siamo più nell’era degli slogan lineari, che offrivano certezze e risposte preconfezionate. Oggi i brand più rilevanti non parlano dall’alto di un palcoscenico, ma entrano in relazione con le persone attraverso domande aperte, che stimolano riflessione, dialogo, condivisione.

“I brand che pongono domande diventano più rilevanti di quelli che danno risposte. Le persone non cercano più eroi, ma compagni di viaggio”, ha sentenziato la Harvard Business Review, la più diffusa e autorevole rivista di management del mondo.

In questa fase storica si moltiplicano le aziende, i brand e le organizzazioni che aggiornano il proprio posizionamento e di conseguenza le proprie strategie.

Cristiano Ferrari, digital strategist che conosce bene gli Stati Uniti puntualizza “Why do it è solo una nuova campagna, non un nuovo payoff aziendale dovuta ai gravi errori commerciali commessi nel momento sbagliato che hanno dato fiato e coraggio a molti competitor”.

Dal monologo persuasivo al dialogo co-creativo con i consumatori

Eppure, Nike con la sua “nuova” comunicazione sembra aver aperto una strada nuova.

Il marketing tradizionale nasceva con l’obiettivo di persuadere, di indicare la strada. Il messaggio era verticale, unidirezionale: il brand parlava, il consumatore ascoltava (e, auspicabilmente, agiva). Ma la trasformazione digitale, la frammentazione dei media, la centralità delle community hanno cambiato radicalmente lo scenario.

Oggi i consumatori non cercano più brand che recitino slogan rassicuranti. Vogliono marchi capaci di attivare conversazioni, di mettere in discussione certezze, di offrire spazi di confronto. Nike lo ha capito: non basta dire “fallo”. Serve chiedere “perché lo fai?”. È un cambio di paradigma che sposta il focus dall’azione alla motivazione, dal gesto alla narrazione intima che lo sostiene.

“Stiamo accendendo per la nuova generazione una scintilla”, ha affermato Nicole Graham, Direttrice Marketing di Nike.

“Altri grandi brand hanno fatto questo cambio, inserendo spesso domande ‘esistenziali’ all’interno delle grandi campagne internazionali” spiega Nicola Bigi, Presidente di Tiwi Studio che aggiunge “Credo che sia un fenomeno interessante rispetto ad alcuni cambiamenti della società. Per esempio, il noto report di Edelman sulla fiducia (Edelman Trust report, 2025 ndr) evidenzia come sia un calo netto della fiducia, soprattutto delle generazioni più giovani, rispetto ad alcuni pilastri: futuro, governo, aziende. In questo report si evidenzia anche che questo fenomeno è sì globale, ma i dati più bassi di questa fiducia sono proprio nei paesi occidentali Davanti a questo scenario credo sia molto interessante questo cambio di claim e direi anche di paradigma.

La fiducia in calo e i brand come specchio dei cambiamenti sociali

Dopotutto Nike è sempre stata un metro di misura attraverso il quale misurare i cambi della società. Negli anni 80 e 90 il focus era principalmente il grandissimo testimonial, poi sono iniziate le campagne con gli atleti ‘normali’ o anche le persone normali, che portavano il brand allo stesso livello degli acquirenti. Non è un caso se questi cambi sono anche cambi della società”.

Le domande come strumenti strategici nell’era della complessità

Perché questo shift è così importante? Perché viviamo in un contesto segnato da complessità, incertezza e frammentazione. Le persone si muovono in ecosistemi informativi iper-affollati, dove ogni brand compete non solo con i diretti concorrenti, ma con tutto il rumore del mondo digitale.

In questo scenario, le risposte semplici rischiano di sembrare ingenue o addirittura sospette. Le domande, invece, diventano strumenti potenti: aprono varchi di senso, stimolano il pensiero critico, generano engagement autentico. È la logica della “co-creazione”: non ti dico chi sei, ma ti aiuto a esplorarlo insieme a me.

Per Veronica Gentili, una delle voci più autorevoli per quanto riguarda digitale e social media, “I social in questo scenario sono utilizzati, non semplicemente, per pubblicare contenuti ma come spazi di confronto attivo con le persone per confrontarsi con la propria audience e provare, anche, a reperire degli input da poter trasformare in azioni reali”.

Leadership storytelling: quando i Ceo diventano asset comunicativi

Qui entra in gioco una leva spesso sottovalutata: il leadership storytelling. Non parliamo di storytelling inteso come esercizio retorico o packaging emozionale. Ma della capacità, da parte del CEO e del top management, di incarnare una narrazione autentica, coerente, credibile.

In un contesto in cui i brand sono osservati e valutati non solo per i prodotti che offrono ma per i valori che esprimono, la voce del leader diventa strategica. Non basta “rappresentare” l’azienda: occorre interpretarla, darle direzione, costruire senso. Un Ceo che sa raccontare non è solo un portavoce, ma un compagno di viaggio: condivide dubbi, apre prospettive, invita le persone a sentirsi parte di un progetto più grande.

I dati che dimostrano l’efficacia del leadership storytelling

“Le persone amano le storie delle altre persone”, l’opinione di Joseph Sugarman, uno dei più noti copywriter al mondo, fa capire perché il top management delle aziende e dei loro brand hanno la potenzialità di diventare importanti asset comunicativi.

Secondo un’indagine del Mit Sloan Management Review le aziende che investono in queste strategie di marketing registrano +21% di crescita. Il leadership storytelling è leva di empowerment: per l’Harvard Business Review le narrazioni guidate dai leader aumentano del +58% l’engagement interno e favoriscono una percezione esterna dell’impresa come luogo di senso e visione.

Per il World economic forum il 72 % degli investitori tende a sostenere di più le aziende i cui leader sanno comunicare la propria storia.

“Trovo questa strategia molto interessante, perché da sempre utilizzare un volto umano intorno ad un brand aiutare ad avvicinare le persone, a trasmettere sicurezza ed è un driver importante per quanto riguarda l’engagement. Ce lo dicono i dati. C’è però un rischio importante se queste persone vengono immediatamente associate ad un brand e poi cambiano lavoro si perde anche un importante valore. Il leader storytelling è un’occasione importante, lo vediamo soprattutto su LinkedIn, ma attenzione ai rischi” l’opinione di Veronica Gentili.

I rischi del leadership storytelling e la nuova figura professionale

Uno dei rischi più frequenti lo analizza Joseph Badaracco dell’Harvard Business School “Il leader è continuamente sotto i riflettori: ogni immagine, parola o gesto diventa simbolo”. Per Stefania Romenti, professoressa ordinaria di strategic communication all’Università Iulm, “Oggi conta più un flusso continuo di messaggi sulla personalità dell’impresa e dei suoi leader rispetto alla comunicazione di cosa quella realtà sappia fare e di quali risultati abbia raggiunto”.

Tanto che molte aziende e i loro brand hanno iniziato ad inserire nei loro team marketing e comunicazione la figura dell’head of Ceo content, un professionista della comunicazione impegnato nello storytelling del capo aziendale.

Dalla venerazione dell’eroe all’empatia del compagno di viaggio

La comunicazione contemporanea non cerca più eroi da venerare. L’epoca dell’eroe solitario, carismatico e infallibile, lascia spazio a figure più vicine, più vulnerabili, più capaci di entrare in empatia.

Le persone non vogliono seguire un modello irraggiungibile, ma riconoscersi in un percorso comune. Ecco perché i brand che pongono domande risultano più rilevanti: perché non impongono, ma propongono; non esibiscono, ma condividono; non si limitano a raccontare il “cosa”, ma scavano nel “perché”.

Il Financial Times ha studiato il podcast «In Good Company», realizzato da Nicolai Tangen, Ceo di Norges Bank investment management. Uno spazio narrativo percepito più rassicurante e più trasparente rispetto ai canali tradizionali.

Per McKinsey in periodi turbolenti investitori e clienti cercano nei Ceo non solo analisi ma contesto. La società di consulenza nella sua analisi “The CEO’s role as chief storyteller”. Spiega che l’amministratore delegato guida e dirige l’azienda anche attraverso la narrazione.

Metriche evolute: dall’engagement all’allineamento valoriale

Questo cambiamento comporta anche un cambio di metriche. Non è più sufficiente misurare like, visualizzazioni o conversioni. La vera sfida è l’allineamento valoriale: quanto le persone si riconoscono in ciò che il brand rappresenta? Quanto percepiscono coerenza tra il racconto dei leader e le pratiche aziendali?

“In realtà like e visualizzazioni per molti brand non avrebbero mai dovuto essere indicatori di performance. Tutto dipende dagli obiettivi. Definiti quelli si scelgono le metriche” spiega Veronica Gentili che aggiunge: “Ora che siamo in un’era social più matura si capisce che like, commenti e condivisioni non sono poi così importanti nella maggior parte dei casi”.

Autenticità e coerenza: i pilastri della narrazione contemporanea

Oggi al centro delle strategie c’è sempre di più la narrazione che deve essere autentica e che non si può improvvisare. Richiede trasparenza, coerenza, coraggio. Ogni incoerenza viene amplificata, ogni contraddizione diventa occasione di crisi reputazionale che si riflette, quasi immediatamente, sul mercato. Ma quando è sincera, la capacità di porre domande apre uno spazio fertile, on-line e off-line: le persone non cercano più certezze, ma direzioni da esplorare ed il marketing e la comunicazione delle aziende e dei loro brand deve offrirgliele.

Esempi concreti di leadership storytelling vincente

Nike, quindi, non ha fatto solo un’operazione di rebranding comunicativo, temporaneo o definitivo che sia. È il segnale di un cambio epocale nel modo di intendere il marketing e la comunicazione. Non più slogan vincenti, ma domande radicali. Non più storytelling celebrativo, ma narrative coinvolgenti, aperte al contributo della propria audience e leader capaci di incarnare storie (non necessariamente vincenti a tutti i costi).

In USA, le lettere agli investitori di Jamie Dimon (JPMorgan Chase) o Larry Fink (BlackRock) hanno il potere comunicativo di molti discorsi presidenziali. In Italia Claudio Descalzi, Amministratore Delegato di ENI, ha fatto scuola sui social media. Cristina Scocchia, AD di Illy caffè ha raccontato la sua storia attraverso un libro.

La sfida futura: essere compagni di domande, non maestri di risposte

Per i brand, la sfida è smettere di voler essere sempre “maestri di risposte” e imparare a essere “compagni di domande”. Un cambio di postura che non solo rafforza l’identità aziendale, ma contribuisce a creare legami più profondi e duraturi con le persone.

Secondo Nicola Bigi siamo difronte ad un approccio “molto interessante” perché “lascia moltissimo spazio ai consumatori. Lascia uno spazio di dialogo e interazione con il brand”.

In fondo, il futuro del marketing non appartiene solo a chi sa dire “Just do it”, a chi propone imperativi, ma a chi sa chiedere, con coraggio e autenticità e lo fa aggiungendo voci, anche del top management.

Credo sia interessante perché questa domanda ha molti impliciti. Il “just do it” è troppo semplicistico per i nostri tempi, dove ognuno di noi ha bisogno, sempre più spesso, di chiedersi il perché più grande di certe cose che affrontiamo quotidianamente.

Lo spot parte proprio dall’assunto “why do it?”, con una serie di domande che evidenziano la complessità del fare le cose: “perchè mettersi in gioco con così tante possibilità di fallire?”, “perchè rischiare”, “perchè farlo se puoi dare tutto te stesso e comunque perdere?”…a queste domande Nike risponde “e se non lo fai?”. Questa risposta evidenzia come da un lato si debbano affrontare le difficoltà quotidiane con una motivazione più alta rispetto al perchè facciamo alcune cose…e se questa domanda non ha una risposta importante, allora vale la pena cambiare obiettivo…ma se l’obiettivo a monte è importante, allora bisogna dirsi che la fatica e gli errori possono fare parte del percorso.

Dal lato del marketing credo anche sia molto interessante questo approccio perchè lascia spazio moltissimo ai consumatori. Lascia uno spazio di dialogo e interazione con la marca. Credo che sia anche un tema molto interessante per la comunicazione pubblica, cioè quella di coinvolgere maggiormente il “consumatore” su alcuni temi chiave, rendendo palese che alcuni obiettivi hanno percorsi complessi.

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