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Sanità digitale: la vera sfida è la qualità dei dati



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Difendere la privacy non basta più, anzi rischia di diventare un alibi. Nel nuovo ecosistema europeo dei dati sanitari, la vera sfida è generare fiducia garantendo sicurezza del dato, orientandosi alla qualità e non all’accumulo di informazioni

Pubblicato il 11 nov 2025

Alex Dell'Era

Co-coordinatore, Gruppo Scienze della vita – FERPI (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana) Adjunct Professor – DiTEiM Department, CUIRIF (Centro Universitario Internazionale per la Ricerca sull’Innovazione e la Formazione)



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La qualità dei dati sanitari è un prerequisito essenziale per una sanità digitale credibile e sostenibile. Solo dati completi, coerenti e interoperabili permettono di trasformare la tecnologia in fiducia, la ricerca in valore condiviso e la regolazione in innovazione responsabile.

Un quadro normativo per l’uso responsabile dei dati

Con il Data Act, l’AI Act e il progetto dell’European Health Data Space, si sta delineando un quadro normativo integrato che punta a garantire un uso sicuro, trasparente e responsabile dei dati, favorendo ricerca, innovazione e politiche sanitarie più efficaci. Anche la recente legge italiana sull’intelligenza artificiale va in questa direzione, con l’obiettivo di tradurre i principi europei in linee guida concrete per l’applicazione delle nuove tecnologie nei contesti pubblici e sanitari.

Tuttavia, l’impressione è che nel dibattito pubblico ed istituzionale si tenda ancora a confondere il tema della privacy con quello della sicurezza del dato.

In realtà, sono due dimensioni complementari ma distinte: la privacy tutela i diritti individuali, mentre la sicurezza garantisce l’integrità, l’affidabilità e la disponibilità delle informazioni. Senza sicurezza la privacy non esiste, ma senza qualità la sicurezza non genera valore. È su questo equilibrio che si gioca oggi la vera sfida della sanità digitale europea.

Un problema di qualità, non di quantità

La sanità digitale produce dati in crescita a ritmi esponenziali. Ogni esame, ogni cartella clinica, ogni monitoraggio genera informazioni. Ma quanti e quali di questi dati sono davvero utilizzabili? Quanti e quali sono completi, standardizzati, confrontabili tra ospedali e Paesi diversi?

È miope pensare che il vero fattore competitivo sia l’accumulo di informazioni. La capacità di un sistema sanitario di produrre conoscenza, migliorare le cure e rafforzare la fiducia tra cittadini, istituzioni e industria si misura sulla qualità, non sulla quantità, dei dati. La sanità digitale non ha bisogno solo di grandi database, ma di dati affidabili, coerenti, interoperabili, capaci di dialogare non solo tra reparti e strutture ospedaliere diversi, ma con orizzonti ben più ampi.

Un primo esempio di questa necessità si è manifestato durante la pandemia, con il passaporto vaccinale europeo, come ha ricordato di recente la professoressa Fidelia Cascini durante il Congresso della SIMM, evidenziando come quell’esperienza abbia rappresentato il primo vero caso di interoperabilità dei dati sanitari. Sono ormai passati anni ed è doveroso pensare che si possa fare molto di più. È una sfida tanto tecnica quanto culturale, che chiama in causa governance, responsabilità e visione di lungo periodo.

Diagnostica e intelligenza artificiale: quando la qualità determina l’affidabilità

Nel campo della diagnostica e della radiologia, questa sfida è particolarmente evidente. Gli algoritmi di intelligenza artificiale si alimentano di immagini e relative interpretazioni, ma se i dati sono incompleti, non standardizzati e di scarsa qualità anche da un punto di vista interpretativo, i risultati diventano inaffidabili. La qualità del dato non è un aspetto accessorio, ma il cuore stesso dell’innovazione. Solo dati ben strutturati e coerenti consentono di addestrare modelli robusti, validare soluzioni cliniche e garantire equità nell’accesso alle tecnologie. La competitività di un Paese non si misura più sul numero di dati prodotti, ma sulla capacità di trasformarli in valore condiviso.

Dall’approccio difensivo a quello abilitante

Per anni le politiche sui dati sanitari si sono mosse con la logica del “meglio non fare, per non rischiare”. Il risultato è tangibile, ovvero ricerca frenata, innovazione e sperimentazione limitate, progetti bloccati o portati avanti da Paesi europei ed extraeuropei che avevano una gestione più snella ed efficiente del dato. La privacy è diventata quindi molto spesso un alibi per non decidere, e quindi non fare.

Innovare significa assumersi responsabilità, sperimentare nel rispetto delle regole senza esserne paralizzati. Serve un cambio di mentalità: la protezione dei dati deve essere un prerequisito solido, non un ostacolo. Per questo serve un nuovo patto di fiducia tra istituzioni, operatori sanitari e cittadini, basato sulla trasparenza nell’uso delle informazioni e sulla qualità delle infrastrutture che le custodiscono.

Il paradigma umanologico applicato ai dati

L’Umanologia nasce dal tentativo di riportare la logica umana al centro del rapporto tra tecnologia e società, superando la contrapposizione tra etica e innovazione. Applicata al governo dei dati, questa prospettiva suggerisce dei principi che possono fungere da guida, soprattutto in un settore complesso come quello sanitario.

Questi cinque pillar che compongono il paradigma, si possono tradurre in scelte concrete, come l’approccio etico in primis, ovvero la gestione del dato secondo la dignità della persona, non solo secondo la norma o addirittura la convenienza. Da un punto di vista empatico è doveroso comprendere l’impatto relazionale della raccolta dati sulla fiducia tra pazienti e enti/professionisti, considerando che un paziente informato è un paziente che collabora. La chiarezza richiede di rendere comprensibili le logiche di funzionamento dei sistemi, evitando che la complessità tecnica si trasformi in qualcosa di oscuro e respingente, che alimenta atteggiamenti diffidenti o addirittura ostativi. La sostenibilità impone di costruire infrastrutture interoperabili e durature, progettando per il lungo periodo invece di rincorrere mode tecnologiche. Infine, il dato sanitario va considerato una risorsa collettiva, che produce valore reale solo quando viene condivisa in modo responsabile per il beneficio comune (co-valore).

Qualità come atto di responsabilità

Investire sulla qualità dei dati non è un obiettivo tecnico, è un atto di responsabilità collettiva. È ciò che rende la ricerca credibile, le politiche sanitarie eque, le imprese innovative senza rinunciare all’etica. La qualità costruisce fiducia, e la trasparenza è il vero capitale della sanità digitale europea.

La tecnologia può offrirci milioni di dati, ma la vera innovazione non consiste nell’accumulare informazioni, bensì nel comprenderle e nel far comprendere. Trasformare il dato in conoscenza e la conoscenza in consapevolezza. L’Europa si sta dotando di norme e progettualità ambiziose, ora serve la volontà politica di applicarle senza timidezza. Il rischio non è quello di innovare troppo in maniera incontrollata, ma di arrivare tardi.

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