Teglie di pasta al forno e ordinanze di custodia cautelare. Sullo sfondo una cucina, il letto o l’ingresso di un carcere italiano. La protagonista pesa e imbusta cibi secondo le regole dell’amministrazione penitenziaria, abbraccia i figli o prepara bagagli, con la stessa solennità con cui Penelope tesseva e disfaceva la sua tela. “Adda passà”, “marit mij carnal”, “ti aspetto”, gli hashtag. Migliaia i follower e i commenti. La post-verità delle mogli dei detenuti della criminalità organizzata su TikTok si manifesta attraverso una narrazione epica, a colpi di emoji di leoni e catene, dove la quotidianità diventa performance e contribuisce a divulgare l’estetica e il sistema di valori della cultura dei clan.
Un contesto criminale in cui la donna in attesa del ritorno del compagno assume, online e offline, il ruolo di vicaria del suo uomo, ma solo se è capace di mostrare la stessa ferocia: “Non emancipandosi, quindi, ma mascolinizzandosi alla maniera criminale. Il maschilismo in questo mondo diventa l’interpretazione generale della realtà“, spiega Marcello Ravveduto, professore del Dipartimento di Scienze politiche e della comunicazione dell’Università di Salerno, dove insegna Digital public history e Storia contemporanea e che ha curato il report Le mafie nell’era digitale: Focus TikTok di Fondazione Magna Grecia, che è stato presentato a ottobre 2025 all’Onu a New York ed è stato citato anche da The Economist.
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Mafiosfera: l’ecosistema digitale della criminalità organizzata
Ricalcando il concetto di infosfera introdotto da Luciano Floridi, l’ambiente informazionale della criminalità organizzata viene definito mafiosfera: “Un ecosistema digitale dove atteggiamenti, pensieri, reti si leggono con gli effetti della presenza delle mafie – spiega il professor Ravveduto -. E in questo ambiente c’è come una doppia cittadinanza, cioè i mafiosi e i mafiofili. I mafiofili sono coloro che alimentano la narrazione della mentalità mafiosa senza essere mafiosi. Ne fa parte chi appartiene alla cerchia dei clan, come a volte le stesse mogli, che magari non sono coinvolte ma alimentano la stessa mafiosità”.
In questi ambienti digitali, le donne assumono il ruolo che tradizionalmente nel contesto della criminalità organizzata viene attribuito loro anche offline: quello di promotrici della cultura mafiosa, alle quali è demandata la trasmissione della particolare etica alle generazioni successive: “Offline alla donna di mafia viene attribuito il compito di diffondere la cultura mafiosa, mantenendo vivo per esempio il culto della vendetta, della famiglia. Online questi aspetti si replicano e in più assumono effetti performanti“, aggiunge il professore.
Dinamiche della narrazione delle mogli dei detenuti di mafia su TikTok
Su TikTok in particolare si assistono a diversi filoni narrativi. In primis, quello epico. La donna del cavaliere solitario che sfida il mondo, “ovviamente portatrice di una verità diversa da quella che è la realtà dei tribunali e della società – spiega Ravveduto -. Queste donne sui social sono le promotrici della post-verità mafiosa, cioè raccontano una verità interna all’ambiente della criminalità organizzata, in contro tendenza alla verità della legge, dello Stato e della società”.
Il linguaggio delle mogli dei detenuti su TikTok
Questa post-verità viene costruita attraverso un linguaggio di resistenza sociale al mondo della legalità. E quindi non mancano proclami, spesso con toni molto accesi, in cui il marito, quasi innalzato a martire, in galera ci è finito per colpa della società e in realtà è una persona per bene. Un processo di de-responsabilizzazione personale e di conseguente attribuzione dell’errore a una colpa della società: “Hanno un atteggiamento fondamentalista, integralista: l’idea di un mondo esterno a quell’ambiente, una polarizzazione che diventa ideologica. E secondo quest’ottica, se la società li condanna è perché non li capisce”, aggiunge Ravveduto.
Leone, catene e altre emoji: semantica delle mogli dei detenuti di mafia su TikTok
Di solito i video sui social sono corredati da musiche neomelodiche, hashtag e dediche, ma senza mai esagerare troppo col linguaggio. Per esprimere ciò che si sente davvero, entrano in gioco le emoji, in particolare quella del leone e delle catene: “L’inserimento dell’emoji del leone e della catena vanno oltre quello che noi percepiamo: costruiscono la narrazione in modo da non subire blocchi da forze dell’ordine o dalla piattaforma”, spiega Ravveduto. Dunque se il linguaggio è moderato, la semantica è forte: “La catena indica il fatto che lui è in galera ma anche che lei e lui hanno un legame indissolubile, mentre il leone rappresenta il capo”.
Spesso gli account dove vengono postati questi video non riportano il solo nome della donna, ma il nome di lui e quello di lei insieme oppure una definizione, come “moglie/fidanzata/compagna di” e un riferimento alla detenzione. Il rapporto con l’uomo amato, lontano fisicamente, viene sottolineato e reso pubblico anche in questo modo.
Gelosia tra donne nei video delle mogli dei detenuti di mafia su TikTok
In questa rappresentazione digitale della vita, dove il vicolo, la strada, è ora diventato TikTok, vengono messe in mostra tutte le dinamiche del privato in modo molto esplicito. E quindi non mancano riferimenti ai rapporti intimi col compagno lontano, alla sfera emotiva e alle questioni di corna. La figura dell’amante nel contesto della criminalità organizzata c’è sempre stata: “Un tempo la moglie avrebbe urlato in mezzo alla strada contro l’amante. La moglie è la moglie, quello che lo accompagna in galera, va dall’avvocato, cresce i figli. L’amante è lo sfogo. La moglie lo accetta fin quando l’amante non chiede di volerlo farlo uscire dalla famiglia, a quel punto inizia lo scontro”, spiega il professore.
Scontro che su TikTok assume i contorni del drama, della soap opera, con frecciatine per niente velate, dissing, alzando l’engagement. E monetizzando.
Le figure retoriche del malessere e della chanel
Ma questo lui, in galera e conteso, chi è? Di solito, un malessere. “Me piace o’ malessere / O’ tipo ca’ si esco che cumpagne doppe po’ fa arrevuta”, cioè “mi piace il malessere, il tipo che se esco con le amiche poi pianta grane”, recita il testo di un pezzo della cantante neomelodica Fabiana. E descrive bene la figura retorica del malessere, cioè l’ideale di uomo celebrato nella narrazione di molte donne di detenuti di mafia su TikTok. Piace l’uomo che entra ed esce dal carcere, con un’estetica precisa che comprende tatuaggi, barba lunga e una definita tipologia di abbigliamento, ma soprattutto portatore di comportamenti tossici. Il malessere è geloso e possessivo, aggressivo, impulsivo. E la moglie, succube per aver interiorizzato il maschilismo che permea la realtà sociale in cui è nata e cresciuta, lo vuole proprio così.
Spiega il professor Ravveduto che “quello che agli altri sembra un rapporto tossico, in questa cultura invece viene promosso. Piace l’elemento del comando, l’uomo che impone la sua visione, deve essere geloso e possessivo”. E del resto “bisogna tenere presente che le donne di mafia quando assumono il ruolo di vicario dell’uomo finito in carcere non si emancipano, ma si mascolinizzano alla maniera criminale, iniziano infatti a essere aggressive, comandano in una maniera maschile perdendo le qualità femminili nella dimensione psicologica con cui affrontano il mondo”.
Chi sono le chanel
Donne che vengono ricondotte allo stereotipo della cosiddetta chanel: “Sono quelle che vivono una condizione di sostituzione dei mariti presentandosi come capo del clan, un nome che è legato a elementi estetici: le tute di marca, i capelli portati sempre in un certo modo, le unghie fatte, elementi interni a un processo di assunzione da parte delle donne di una visione del potere legato all’estetica – aggiunge Ravveduto -. Nella mafia, del resto, da sempre l’estetica è importante per determinare il potere. Il nome chanel chiaramente rimanda alla moda e a una donna, Coco Chanel, che rappresenta l’imprenditrice ante litteram, ma certo anche a uno dei personaggi più noti della serie Gomorra”, tratta dal libro di Roberto Saviano.
E la leadership femminile, se assume questi connotati maschili, viene riconosciuta. Può diventare capo se fa la “leonessa”, cioè se sa condurre gli affari, affrontare la galera, gestire il narcotraffico con la stessa aggressività del suo compagno. Va sottolineato che invece quando le donne si ribellano a questo sistema, “saltano i clan: succede quando difendono i figli, allora sì che si emancipano. Quando comprendono che il loro ruolo è quello di trasmettere la cultura di morte dei clan e che dunque i figli rischiano la vita o la figlia subirà lo stesso destino di succube, c’è allora il tentativo di uscire dal giro”, spiega il professore.
La cultura mafiosa nei contenuti social
Ci si chiede come mai molte donne in questo contesto rafforzino questa situazione. L’errore di interpretazione del fenomeno, a livello globale, considerando la prospettiva sociologica, è aver a lungo considerato quella mafiosa una subcultura e non una cultura: “Le mogli e le loro figlie vivono immerse in una cultura criminale che si replica da secoli. Loro nascono e vivono in questa cultura, che ha una sua etica del lavoro, della famiglia, della società, una visione del mondo che è totalmente diversa da quella che abbiamo noi e che il social network fa emergere con grande forza”, spiega Ravveduto.
Un mondo, aggiunge, “che spesso etichettiamo come trash ma ha una sua cultura e una sua dimensione popolare che diventa narrazione. Le mogli dei carcerati rendono perfomance la loro vita, come i personaggi di un reality show. Non si comportano da influencer, ma da celebrità all’interno di una comunità di simili. Per esempio, fanno contenuti tutorial su come preparare il cibo da portare in carcere, quale profumo regalare al marito, come fagli la valigia”.
Gli impatti sociali delle mogli dei detenuti di mafia su TikTok
I migliaia di follower che seguono queste utenti “sono per la maggior parte curiosi che ne sorridono ma molti altri sono mafiofili, i loro simili che vivono la stessa esperienza e che sostengono questa visione”. E certo “c’è un rischio di influenza. Non abbiamo casi di reclutamento esplicito, ma ci sono casi in cui questo tipo di narrazione può essere un elemento che favorisce l’adesione alla cultura del clan che poi si esprime in una reale adesione al clan stesso”, precisa il professor Ravveduto. E quindi dal contesto digitale si passa ai fatti nella realtà.
Solitamente, ad attrarre è l’elemento della ricchezza: “Il reclutamento avviene sulle immagini di ricchezza, mettendo il silenziatore alla violenza di questo mondo. Se faccio vedere il Rolex, le Ferrari in un mondo in cui ci sono povertà materiale e immateriale, questi elementi indirettamente diventano una capacità di poter dire che se stai con il clan puoi ottenere tutto questo – aggiunge -. Internet in questo ha una potenza enorme, può arrivare a fasce sociali prima non coinvolte, i social si ampliano oltre il territorio”, portando avanti una narrativa che può colpire anche i più giovani.











