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Meta, concorrenza sleale agli editori: che cambia con la sentenza spagnola



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La recente pronuncia contro Meta e a favore degli editori spagnoli segna un precedente significativo nel panorama giuridico europeo, per la portata economica e per la ricostruzione causale adottata, collegando violazione del GDPR e responsabilità risarcitoria per concorrenza sleale nel mercato pubblicitario digitale

Pubblicato il 25 nov 2025

Alfredo Esposito

Studio Legale Difesa d’Autore



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Meta dovrà versare 479 milioni di euro, che salgono a 540 con gli interessi, a 87 editori spagnoli e diverse agenzie di informazione.

La recente pronuncia del Juzgado de lo Mercantil n. 15 di Madrid segna un precedente significativo nel panorama giuridico europeo, per la portata economica e per la ricostruzione causale adottata, collegando violazione del GDPR e responsabilità risarcitoria per concorrenza sleale nel mercato pubblicitario digitale.

Potrebbe questa sentenza innescare un effetto domino in Italia e negli altri Stati membri dell’Unione Europea?

Meta, concorrenza sleale? La causa degli editori spagnoli

Il contenzioso spagnolo nasce dall’iniziativa coordinata di 87 editori digitali, riuniti attraverso l’Asociación de Medios de Información (AMI), che hanno portato Meta davanti al tribunale madrileno accusando la piattaforma di aver ottenuto un vantaggio competitivo illecito nel mercato pubblicitario attraverso il trattamento massivo di dati personali degli utenti di Facebook e Instagram in violazione del GDPR.

Tra gli attori del procedimento figurano i principali gruppi editoriali spagnoli: Unidad Editorial (El Mundo, Marca, Expansión), Prisa (El País, As), Vocento (ABC), affiancati da testate come Europa Press. Una rappresentanza trasversale che copre tutto lo spettro dell’editoria digitale iberica, dai grandi gruppi multimediali alle redazioni di dimensioni più contenute.

Gli editori coinvolti e il periodo contestato

Il periodo contestato si estende dal 25 maggio 2018, data di entrata in vigore del GDPR, al 1 agosto 2023, quando Meta ha modificato la base giuridica del trattamento dati, passando da un regime basato sul “legittimo interesse” a uno fondato sul consenso esplicito degli utenti. Una finestra temporale di cinque anni durante la quale, secondo le risultanze processuali, la piattaforma avrebbe accumulato oltre 5,2 miliardi di euro di ricavi pubblicitari in territorio spagnolo.

Il tribunale ha ritenuto dimostrato che Meta abbia sfruttato ingenti quantità di dati personali in violazione del GDPR, tra cui informazioni comportamentali, preferenze di navigazione, interazioni social e profilazioni demografiche dettagliate. Grazie a questi dati, la piattaforma ha potuto offrire agli inserzionisti una targettizzazione degli annunci molto più efficace e precisa rispetto agli strumenti disponibili per i media digitali tradizionali.

Un elemento che ha pesato negativamente nella valutazione del giudice è stata la scarsa collaborazione processuale di Meta, che secondo la sentenza “non avrebbe fornito informazioni sufficienti per determinare l’esatto volume di affari generato in Spagna”, ostacolando di fatto la piena ricostruzione dei fatti e costringendo il tribunale a ricorrere a stime basate su fonti indipendenti.

L’architettura giuridica della decisione spagnola

L’elemento di maggiore interesse risiede nella qualificazione della condotta di Meta. Il giudice spagnolo ha inquadrato il trattamento illecito come un atto di concorrenza sleale sanzionabile civilisticamente, basandosi sull’articolo 15 della Ley de Competencia Desleal, che considera sleale qualsiasi comportamento contrario alla correttezza professionale idoneo a danneggiare i concorrenti.

La sentenza sviluppa un ragionamento in tre passaggi concatenati. Meta ha raccolto dati su base giuridica inadeguata violando il GDPR; questo trattamento illecito ha conferito un vantaggio competitivo quantificabile nella vendita di spazi pubblicitari più targettizzati; tale vantaggio ha sottratto ricavi agli editori digitali operanti nel medesimo mercato.

Per quantificare il risarcimento, il giudice ha utilizzato un rapporto dell’autorità spagnola per la concorrenza (CNMC), stimando quale quota dei ricavi pubblicitari di Meta derivasse specificamente dal vantaggio illecito, distinguendola dai ricavi legittimi.

Strumenti italiani per reagire a Meta

Il sistema giuridico italiano dispone di istituti sovrapponibili a quelli utilizzati dal tribunale spagnolo, rendendo tecnicamente percorribile un’azione analoga, sebbene con ostacoli processuali significativi.

L’articolo 2598 del Codice Civile disciplina la concorrenza sleale, sanzionando al numero 3 “ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”. Questa clausola generale potrebbe consentire di inquadrare la violazione del GDPR come atto di concorrenza sleale. Va da sé che la riconducibilità non è automatica, considerando che il GDPR tutela primariamente i diritti fondamentali degli individui, non la concorrenza, e la giurisprudenza italiana è tradizionalmente restrittiva nell’ammettere azioni di concorrenza sleale fondate sulla violazione di normative che tutelano altri interessi.

La tutela risarcitoria degli editori non deriverebbe dall’articolo 82 GDPR, che protegge esclusivamente gli interessati (gli utenti), ma dalla qualificazione della condotta come concorrenza sleale. Gli editori non sono titolari dei diritti GDPR riferiti ai dati degli utenti di Facebook e Instagram.

Azioni collettive, cumulo soggettivo e coordinamento

Dal punto di vista procedurale, gli editori non potrebbero utilizzare l’azione di classe ex art. 840-bis c.p.c., riservata ai consumatori. Ciascun editore potrebbe agire individualmente per il proprio danno, oppure più editori potrebbero coordinarsi in un’azione congiunta attraverso il cumulo soggettivo, così come previsto dall’art. 103 c.p.c., sul modello dell’esperienza spagnola con l’AMI. Quest’ultima soluzione offrirebbe vantaggi significativi, come la ripartizione dei costi processuali, maggiore forza negoziale e capacità di sostenere perizie econometriche complesse necessarie per dimostrare il nesso causale.

Sul piano della prescrizione, l’azione risarcitoria per illecito anticoncorrenziale soggiace al termine quinquennale previsto dall’art. 2947 c.c. La giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione, ribadita di recente con la sentenza n. 1923/2025, chiarisce che il termine non decorre dalla semplice verificazione del fatto illecito, ma dal momento in cui il soggetto danneggiato sia stato, o avrebbe potuto essere con l’ordinaria diligenza, ragionevolmente informato non solo dell’altrui violazione, ma anche dell’esistenza di un possibile danno ingiusto.

In altre parole, l’avvio del termine prescrizionale richiede la “percezione qualificata” del pregiudizio concorrenziale, non la mera conoscenza del comportamento antigiuridico.

Prescrizione e illecito continuato

Nel caso che coinvolge Meta, le prime violazioni del GDPR sono state pubblicamente accertate dal Garante per la protezione dei dati personali già nel 2019 e hanno ricevuto ampia copertura mediatica. È quindi sostenibile che gli editori fossero, quantomeno da tale momento, ragionevolmente in grado di percepire la possibile ingiustizia della condotta, con il rischio che le pretese risarcitorie riferite alle annualità più risalenti (2018–2019) risultino prescritte.

Ad ogni buon conto, la condotta contestata presenta i tratti dell’illecito continuato, protrattosi fino al 2023. In tali casi, la giurisprudenza ammette che la prescrizione possa decorrere autonomamente per ciascun anno di illecito, ovvero dalla cessazione della condotta complessiva, o ancora dal momento in cui il danneggiato abbia potuto acquisire una conoscenza effettiva dell’entità complessiva del danno subito.

La determinazione del dies a quo richiederebbe dunque un accertamento processuale specifico, particolarmente complesso, soprattutto in relazione alla effettiva accessibilità, da parte degli editori, delle informazioni necessarie a cogliere la correlazione tra violazioni privacy e pregiudizio concorrenziale.

Criticità probatorie e ostacoli per gli editori

A differenza della Spagna, dove l’Asociación de Medios de Información ha aggregato 87 editori in un’unica azione collettiva, in Italia il panorama appare più frammentato. Pur con questa premessa, la FIEG (Federazione Italiana Editori Giornali) ha recentemente dimostrato capacità di coordinamento con il reclamo ad AGCOM contro Google per AI Overviews, coordinato con l’European Newspapers Publishers’ Association a livello europeo. Un’azione giudiziaria risarcitoria richiederebbe però un impegno economico e organizzativo decisamente maggiore rispetto a una segnalazione amministrativa.

Il nesso di causalità

Il punto critico è dimostrare il nesso causale tra violazione GDPR e danno subito. Non basta provare che Meta ha violato il GDPR e che gli editori hanno perduto ricavi pubblicitari, ma occorre dimostrare che queste perdite derivano specificamente dalla violazione privacy e non da altri fattori di mercato come cambiamenti nelle preferenze degli utenti, evoluzione tecnologica, strategie commerciali dei concorrenti o crisi economiche.

In Spagna il tribunale ha utilizzato un rapporto della CNMC con dati granulari sul mercato pubblicitario digitale. In Italia sarebbe necessaria una consulenza tecnica d’ufficio di elevata complessità, capace di isolare il “vantaggio sleale” attraverso modelli econometrici sofisticati. La difficoltà è aggravata dalla scarsa collaborazione di Meta nel fornire dati sui volumi d’affari, come emerso dalla sentenza spagnola.

La legittimazione attiva

Una questione preliminare di estremo rilievo riguarda la legittimazione attiva degli editori. Le violazioni GDPR contestate a Meta hanno leso direttamente i diritti degli utenti di Facebook e Instagram, non quelli degli editori. Questi ultimi lamentano, come dicevamo, un danno indiretto relativamente alla perdita di competitività nel mercato pubblicitario conseguente al vantaggio sleale acquisito da Meta attraverso il trattamento illecito dei dati altrui.

La sentenza spagnola ha superato questa obiezione qualificando la condotta come concorrenza sleale, spostando il focus dalla violazione privacy alla distorsione competitiva. In Italia, tuttavia, la giurisprudenza è significativamente più restrittiva nell’ammettere azioni di concorrenza sleale fondate sulla violazione di normative extraconcorrenziali che tutelano primariamente altri interessi.

L’art. 2598 c.c. richiede tradizionalmente una lesione diretta nel rapporto concorrenziale, e la giurisprudenza italiana ha mostrato cautela nel riconoscere legittimazione a soggetti che subiscono danni meramente riflessi o indiretti da condotte illecite rivolte contro terzi. La legittimazione attiva degli editori è tutt’altro che pacifica e rappresenta probabilmente il principale ostacolo processuale da superare, richiedendo un’argomentazione giuridica particolarmente robusta e creativa.

Prospettive europee dopo la sentenza spagnola su Meta

Un’azione degli editori italiani contro Meta per concorrenza sleale derivante da violazioni GDPR è giuridicamente argomentabile e dispone di alcune basi normative. La sentenza spagnola dimostra che questo tipo di contenzioso può concludersi favorevolmente per gli attori, sebbene non costituisca precedente vincolante. Il periodo 2018-2023 è definito e quantificabile senza le incertezze legate a proiezioni future.

Senza dubbio alcuno, gli ostacoli processuali sono considerevoli. La legittimazione attiva rappresenta il principale scoglio giuridico, con la giurisprudenza italiana storicamente restrittiva su questo punto. La dimostrazione del nesso causale richiede investimenti significativi in perizie econometriche sofisticate senza garanzie di successo. La prescrizione potrebbe aver già eroso parte del credito risarcitorio. La frammentazione del settore editoriale italiano richiede un coordinamento senza precedenti.

Per gli editori italiani, la domanda fondamentale non è tanto “se” sia tecnicamente possibile agire, la risposta è positivamente argomentabile, quanto “se” esista la volontà strategica collettiva di farlo, accettando i rischi processuali concreti e gli investimenti necessari per un contenzioso ad alto contenuto tecnico con esito tutt’altro che scontato.

L’alternativa all’azione legale, per quanto non priva di incertezze secondo la disamina sin qui effettuata, è l’accettazione di un mercato pubblicitario digitale sempre più dominato da pochi operatori tecnologici che, attraverso pratiche di trattamento dati ai limiti o oltre i limiti della legalità, erodono progressivamente la sostenibilità economica dell’editoria indipendente con conseguenze potenzialmente gravi per il pluralismo informativo e la democrazia.

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