Nel suo libro Every Screen on the Planet, la giornalista Emily Baker-White racconta l’ascesa di TikTok e la trasformazione di una piattaforma di intrattenimento in uno strumento geopolitico globale. Dalle stanze di ByteDance alle decisioni di Trump e Xi Jinping, una storia che illumina il lato oscuro del capitalismo algoritmico.
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Quando l’algoritmo diventa dipendenza: il meccanismo psicologico di tiktok
TikTok non conquista per ideologia ma per biochimica. Il suo “scroll infinito” addestra il cervello con la stessa logica del rinforzo dopaminico dei casinò, ma su scala planetaria. È la piattaforma che più di ogni altra incarna l’economia dell’attenzione, algoritmi che non solo predicono, ma modellano il comportamento umano. Dietro l’apparente spontaneità dei video c’è una sofisticata infrastruttura cognitiva che misura ogni interazione, registra microsegnali, corregge e apprende in tempo reale. “Pure delight“, scrive Baker-White, un piacere puro e potenzialmente illimitato. L’utente scorre, il sistema osserva, l’algoritmo risponde.
L’equilibrio si spezza quando la gratificazione istantanea sostituisce il discernimento, trasformando l’intrattenimento in dipendenza e l’attenzione in risorsa da estrarre. Studi neuroscientifici pubblicati negli ultimi anni mostrano come le piattaforme basate sullo scroll continuo attivino circuiti neuronali simili a quelli stimolati dal gioco d’azzardo o dalle droghe leggere1.
Il cervello rilascia dopamina non solo quando trova un video interessante, ma soprattutto nell’attesa di trovarlo. Questo schema di rinforzo variabile, la stessa logica che regola le slot machine, crea un legame profondo tra utente e piattaforma, una relazione di attesa e ricompensa che diventa psicologicamente dominante. Secondo alcune ricerche2, un utente medio trascorre su TikTok oltre 95 minuti al giorno, più del tempo dedicato a Netflix o YouTube.
I tassi di engagement superano il 10%, una cifra mai raggiunta da altri social. Ma dietro questi numeri si nasconde un meccanismo più radicale, l’algoritmo che apprende dalle microreazioni, dai secondi di esitazione, dagli sguardi catturati a metà video, fino a costruire un profilo emotivo unico per ciascun individuo.
Nel descrivere il successo dell’app, Baker-White sottolinea che la forza di TikTok sta nella sua capacità di cancellare la distanza tra contenuto e consumo: ogni utente diventa, nello stesso gesto, creatore, spettatore e prodotto. Questa è la nuova forma del potere, la capacità di produrre assuefazione travestita da libertà di scelta, un’economia del piacere che si autoriproduce mentre ridefinisce i limiti della coscienza collettiva.
Zhang Yiming e l’ambizione di una piattaforma globale senza confini
Il fondatore di ByteDance, Zhang Yiming, non è l’eroe negativo che la retorica occidentale vorrebbe. Nato a Longyan, nella provincia del Fujian, nel 1983, ingegnere con formazione informatica, cresce nella Cina post WTO, dove l’ambizione imprenditoriale incontra la pianificazione politica. Prima di fondare ByteDance nel 2012, lavora in Microsoft e poi in startup locali, sviluppando un’idea ossessiva: applicare l’intelligenza artificiale non solo alla ricerca, ma alla distribuzione dei contenuti.
L’intuizione di Yiming fu quella di superare la logica del social network basato su contatti e relazioni per costruire un ecosistema fondato su preferenze individuali e dinamiche predittive. Quando nel 2016 ByteDance lanciò Douyin (la versione cinese di TikTok) e un anno dopo acquistò Musical.ly per 1 miliardo di dollari, unificandola sotto il marchio TikTok, il sogno di un prodotto globale sembrava realizzato. Ma l’espansione planetaria di TikTok mise Yiming di fronte ai limiti della globalizzazione digitale.
Come scrive Baker White, TikTok nasce con l’ambizione di essere “senza politica”, ma finisce per incarnare la politicizzazione totale del digitale. La cultura aziendale di ByteDance cercò di fondere l’innovazione della Silicon Valley con l’efficienza gerarchica cinese: una combinazione che funzionò finché la politica non entrò in gioco. Con la legge sulla sicurezza nazionale del 2017 e la crescente pressione del Partito Comunista, Yiming venne costretto a rivedere il suo ruolo. Nel 2021 si dimise da CEO, dichiarando di voler tornare a un ruolo più tecnico, ma la scelta fu percepita come una resa alle autorità. Da piattaforma apolitica a carburante sfacciato della politica, così sintetizza Baker White la metamorfosi. Yiming è un uomo di confine, e il suo sogno di una rete neutrale si dissolve nel momento in cui l’algoritmo di TikTok diventa più potente di qualsiasi messaggio politico. Nel suo percorso si riflette la parabola dell’intera economia digitale cinese, nata per connettere il mondo, finita per essere osservata, controllata e, in parte, confiscata dal potere.
L’ipocrisia delle democrazie digitali di fronte al controllo algoritmico
L’errore non è solo cinese. Quando Joe Biden usa TikTok per la campagna elettorale dopo averne minacciato il ban, quando il Congresso denuncia la raccolta dati senza approvare alcuna legge federale sulla privacy, emerge l’ipocrisia sistemica, le democrazie digitali stanno adottando i comportamenti che criticano negli altri.
Qui si apre il tema più profondo, la neutralità impossibile della tecnologia. Ogni algoritmo, ogni feed, ogni scelta di visibilità è politica. TikTok lo mostra con crudele chiarezza, ma non è un’eccezione, è uno specchio.
Data sovereignty: il nuovo campo di battaglia tra stati e big tech
Nel mondo iperconnesso, la sovranità dei dati è diventata una nuova forma di potere statale. Dopo il 2017, le leggi cinesi sulla sicurezza nazionale hanno imposto alle aziende locali di cooperare con le autorità in caso di indagini di intelligence, sollevando dubbi globali sull’indipendenza di colossi come ByteDance.
Ma anche in Occidente si moltiplicano le risposte, dal Cloud Act statunitense, che permette al governo USA di accedere ai dati conservati su server di società americane all’estero, al Data Governance Act e al Data Act europeo, che cercano di definire una via autonoma, più equilibrata tra sicurezza, privacy e competitività.
La cosiddetta “data sovereignty” diventa così terreno di scontro tra modelli politici: da un lato il controllo verticale e securitario cinese, dall’altro il pluralismo regolato delle democrazie occidentali, spesso incapaci però di far rispettare le proprie regole alle Big Tech. In mezzo, piattaforme globali come TikTok che, per sopravvivere, devono bilanciare normative contraddittorie, costruendo infrastrutture parallele di dati, server in Irlanda per l’Europa, in Texas per gli Stati Uniti, e a Singapore per l’Asia. L’illusione che la localizzazione fisica dei dati basti a garantire la sicurezza cade rapidamente, ciò che conta non è dove i dati risiedono, ma chi li può interpretare, collegare e sfruttare. TikTok diventa così il primo caso di tecnologia bifronte, cinese nella governance, occidentale nella cultura, globale nella dipendenza che crea. La sua architettura non è solo digitale ma politica, perché nessun dato resta mai neutrale.
AI Act e il costo economico della frammentazione normativa europea
Il dibattito sulla sovranità dei dati non è più solo tecnico o giuridico, ma anche economico. La frammentazione normativa aumenta i costi di compliance per le imprese e rischia di frenare l’innovazione, per ogni nuovo vincolo di localizzazione, le piattaforme devono duplicare infrastrutture, ridurre interoperabilità e limitare l’uso dei dati per l’addestramento dei modelli di intelligenza artificiale.
In questo scenario, l’AI Act europeo introduce criteri di trasparenza e tracciabilità che ridefiniscono il rapporto tra responsabilità algoritmica e competitività. L’effetto collaterale è che le grandi aziende globali, come ByteDance o Meta, dispongono delle risorse per adeguarsi, mentre le PMI e i nuovi attori digitali faticano a sostenere gli oneri burocratici.
TikTok rappresenta dunque una metafora di questa tensione, la ricerca di fiducia e sovranità si scontra con la concentrazione economica e tecnologica. Ogni tentativo di proteggere i dati nazionali rischia di consolidare il dominio dei giganti già esistenti, trasformando la governance dell’informazione in un mercato chiuso. Il futuro della regolazione europea dipenderà dalla capacità di conciliare sicurezza e innovazione, mantenendo aperta l’architettura dell’AI senza sacrificare i diritti digitali.
L’algoritmo come nuova forma di potere: da Trump a Xi Jinping
Trump, Xi Jinping, Zuckerberg, Biden: tutti combattono per controllare lo stesso oggetto, l’algoritmo che decide cosa vediamo e cosa pensiamo. In questo scenario, la contesa non riguarda più solo la libertà d’espressione o la sicurezza dei dati, ma il dominio sul linguaggio e sull’immaginario collettivo. L’algoritmo è diventato un dispositivo politico, un potere invisibile che plasma le percezioni in tempo reale, regolando l’attenzione più che le leggi.
Baker‑White racconta che Donald Trump, nel tentativo di trovare un compromesso sulla presenza di TikTok negli Stati Uniti, avrebbe proposto di affidare la supervisione del suo algoritmo a Larry Ellison, fondatore di Oracle e uno degli imprenditori più influenti della Silicon Valley, noto per il suo sostegno al Partito Repubblicano e per la vicinanza personale all’ex presidente. Oracle, già partner tecnologico di TikTok nella gestione dei dati americani, rappresenta in questa vicenda l’incarnazione del nuovo potere ibrido tra politica e industria: un privato che assume un ruolo di controllo pubblico su una delle più grandi macchine di persuasione mai create. Il cerchio si chiude, la lotta per l’attenzione diventa politica industriale. L’algoritmo, un tempo percepito come strumento neutro di ottimizzazione, diventa il centro di una geopolitica dell’informazione in cui le nazioni competono per la proprietà del codice e la capacità di orientare la mente collettiva. La nuova sovranità, fondata non sul territorio ma sul flusso informativo, un governo invisibile che agisce in tempo reale, anticipando il comportamento più che regolamentandolo.
Oltre il social network: TikTok come laboratorio della democrazia algoritmica
Il caso TikTok non parla solo della Cina, ma del destino stesso della sfera pubblica globale. È la dimostrazione di come l’infrastruttura digitale contemporanea abbia sostituito il vecchio equilibrio tra informazione, potere e cittadinanza. Le società democratiche si stanno adattando, spesso inconsapevolmente, alla logica del controllo algoritmico: una governance fondata sulla predizione e sulla profilazione, dove la trasparenza cede il posto alla performance dei dati.
In questo contesto, TikTok non è più solo un social network ma un laboratorio politico e cognitivo. Le sue dinamiche di raccomandazione definiscono quali temi emergono e quali restano invisibili; il suo linguaggio visivo riscrive il modo stesso di percepire il reale, fondendo consumo culturale e produzione di consenso. L’attenzione diventa una nuova moneta geopolitica, e la sua distribuzione un atto di potere. Emily Baker-White non scrive un pamphlet, ma un avvertimento, la guerra per l’attenzione è già una guerra per la democrazia, combattuta con strumenti apparentemente innocui, feed personalizzati, suggerimenti, suoni virali. Se il secolo scorso ha visto la conquista dello spazio e dell’atomo, questo vede la conquista della mente. Ogni schermo è un campo di battaglia. Il vero terreno della libertà sarà la capacità di conservare coscienza e autonomia in un ecosistema progettato per dissolverle.












