Ogni cittadino europeo vale in media 92 euro l’anno per Meta. È quanto emerge dai dati Statista 2024, che stimano i ricavi pubblicitari pro capite derivanti dagli utenti dell’Unione Europea. È una cifra apparentemente modesta, ma sufficiente a fotografare un paradosso: un’intera economia digitale costruita sull’estrazione sistematica di valore da informazioni personali che, pur appartenendo agli utenti, non generano alcun ritorno per loro.
L’Europa ha scelto di reagire proteggendo, non redistribuendo. Ha costruito un’architettura giuridica esemplare — il GDPR — che difende i dati, ma non li valorizza. Il risultato è un continente che tutela la riservatezza, ma rinuncia alla partecipazione economica dei cittadini nella filiera informazionale.
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Dai 92 euro a utente al paradosso del valore dei dati
Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito alla nascita di un mercato dei dati tanto immenso quanto invisibile. Secondo l’OCSE Digital Economy Outlook 2024, oltre l’85% del valore globale dei dati è concentrato in meno di dieci imprese, tutte extra-UE.
Il cittadino europeo, pur “protetto” dalla disciplina più garantista al mondo, resta ai margini di una catena del valore che lo usa come fonte ma non come attore. In termini pratici, ogni consenso cliccato legittima un trasferimento di valore unidirezionale: l’utente cede informazioni, l’azienda monetizza insight.
La privacy difensiva, nata per riequilibrare i poteri, ha finito per cristallizzarli. Abbiamo blindato il diritto all’invisibilità, ma non abbiamo costruito il diritto alla partecipazione.
Il mercato invisibile dei dati e il potere delle piattaforme
Oggi qualcosa si muove. L’Unione Europea sta tentando di colmare il divario tra protezione e valore.
Dopo il Data Governance Act (2023), che ha introdotto gli “intermediari fiduciari” dei dati, il Data Act (Regolamento UE 2023/2854, applicabile dal settembre 2025) compie un passo ulteriore: stabilisce il diritto di accesso e riutilizzo dei dati generati da utenti e dispositivi, e soprattutto riconosce che l’informazione personale può generare benefici condivisi.
È la prima infrastruttura giuridica europea per un mercato B2C dei dati, dove la condivisione non è più un atto di fiducia cieca ma un contratto regolato tra cittadini, imprese e intermediari certificati. Dietro questa architettura c’è un’idea precisa: spostare la privacy dal terreno della difesa a quello della partecipazione consapevole.
Dal GDPR al Data Act: basi per la sovranità dei dati europea
Il nuovo paradigma, che alcuni definiscono “data compensation”, non riguarda il pagamento diretto per ogni byte condiviso. Parla piuttosto di equità informazionale: riconoscere all’utente una quota, economica o funzionale, del valore generato dai propri dati.
Progetti come il Solid Project di Tim Berners-Lee o le Data Unions promosse dalla European Data Commons dimostrano la praticabilità di modelli in cui l’individuo conferisce i propri dati a un soggetto fiduciario, li gestisce collettivamente e ne riceve un beneficio misurabile — sconti, servizi, crediti digitali, perfino dividendi.
È un’evoluzione coerente con l’art. 20 del GDPR sulla portabilità dei dati, ma ne amplia la portata: non più spostare i dati da un titolare all’altro, bensì governarli come bene economico collettivo.
Sovranità dei dati europea e modelli di data compensation
Questa transizione normativa non è un semplice esperimento di equità sociale. È una strategia industriale.
L’Europa, spesso accusata di eccesso regolatorio, potrebbe invece giocare d’anticipo trasformando la fiducia in vantaggio competitivo sistemico. Secondo ENISA Threat Landscape 2025, le aziende che adottano policy di trasparenza e controllo informativo registrano un incremento medio del 18 % nella retention clienti e del 27 % nel valore reputazionale.
La fiducia misurabile diventa un asset economico. Le imprese capaci di integrare privacy by design e value sharing by design costruiranno brand sostenibili nel tempo, fondati su una reputazione verificabile. In altre parole, il capitale reputazionale diventa la nuova moneta dell’economia dei dati.
Come la sovranità dei dati europea diventa vantaggio competitivo
Il vero ostacolo non è tecnico né giuridico: è culturale.
In Europa, la parola “profilazione” evoca ancora sorveglianza, manipolazione, intrusione. Ma se la profilazione diventasse uno strumento di autodeterminazione, capace di restituire all’utente controllo e beneficio?
Il cittadino digitale del 2025 non desidera sparire dai radar; vuole scegliere quando essere visibile, a chi e per quale scopo. Vuole sapere quanto vale la propria attenzione, e decidere come monetizzarla.
Continuare a demonizzare la profilazione significa rifiutare di sedersi al tavolo dove si definiscono i nuovi modelli economici. Il rischio non è essere tracciati: è essere irrilevanti.
Cultura digitale, profilazione e sovranità dei dati europea
La privacy europea è nata come scudo, ma può diventare leva economica. Dopo due decenni di regolazione basata sul principio di minimizzazione, serve una grammatica della reciprocità.
Il prossimo passo non sarà chiedere il consenso, ma negoziare il compenso: economico, informativo o reputazionale. Quando l’utente partecipa consapevolmente al valore che produce, la fiducia smette di essere promessa e diventa contratto sociale digitale.
È qui che si giocherà la vera leadership competitiva europea: nella capacità di trasformare la protezione in partecipazione, e la compliance in valore condiviso.
“La libertà non è nascondersi, ma scegliere chi può vederti e a quale prezzo.”
Forse è da questa consapevolezza che potrà nascere la prima vera sovranità dei dati europea, dove la profilazione non è più una minaccia ma una forma evoluta di cittadinanza economica.










