Quando pensiamo alle grandi invenzioni che hanno cambiato la nostra vita, raramente ci vengono in mente quelle che usiamo ogni giorno senza accorgercene. La cintura di sicurezza a tre punti, inventata da Volvo nel 1959, appartiene a questa categoria di innovazioni invisibili eppure fondamentali: ha salvato oltre un milione di vite in poco più di sei decenni.
Oggi, sessantasei anni dopo quella rivoluzione silenziosa — i cui frutti vennero condivisi gratuitamente con tutti i produttori di automobili — la casa automobilistica svedese compie un nuovo passo, premiato dalla rivista TIME come una delle migliori invenzioni del 2025: una cintura di sicurezza che si adatta in tempo reale alla persona che la indossa e alla situazione circostante, inclusa la dinamica dell’incidente. La nuova cintura multi-adattiva, destinata a debuttare a fine gennaio 2026 sulla Volvo EX60 (auto elettrica), rappresenta un salto tecnologico enorme.
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Come la cintura intelligente apre la strada alle tecnologie che salvano la vita
Grazie a una rete di sensori interni ed esterni all’auto, il sistema raccoglie dati in tempo reale su chi è seduto e su cosa sta accadendo attorno al veicolo. Altezza, peso, conformazione fisica, posizione del sedile: tutto viene analizzato per calibrare in continuo la risposta della cintura in caso di incidente. In una frazione di secondo, più velocemente di un battito di ciglia, l’auto riconosce le caratteristiche uniche dell’impatto e istruisce la cintura su come reagire nel modo più efficace.
Perché la personalizzazione conta davvero negli impatti
Il principio alla base di questa innovazione è tanto semplice quanto geniale: non tutti gli incidenti sono uguali e non tutte le persone hanno bisogno della stessa protezione. Una persona più robusta coinvolta in un incidente grave riceverà un livello di tensione maggiore dalla cintura per ridurre il rischio di trauma cranico, mentre una persona più minuta in un impatto più lieve riceverà una tensione inferiore per prevenire fratture alle costole.
Questa personalizzazione è possibile grazie all’espansione delle configurazioni di limitazione del carico da tre a undici profili, con un numero di impostazioni possibili enormemente superiore rispetto alle cinture tradizionali. La cintura riceve inoltre aggiornamenti software via Internet che le permettono di affinare continuamente le sue capacità protettive, attingendo a un database di oltre 80.000 occupanti coinvolti in incidenti reali, costruito in oltre cinquant’anni di ricerca sulla sicurezza.
Robot chirurghi: quando le tecnologie che salvano la vita diventano visibili
Se la cintura di Volvo rappresenta l’intelligenza nascosta negli oggetti quotidiani, la chirurgia robotica incarna la frontiera più visibile dell’innovazione medica. In Italia, nel solo 2024, oltre 50.000 pazienti hanno beneficiato di interventi assistiti dal sistema robotico da Vinci (la cui prima versione vide la luce nel 1998 e arrivò in Italia l’anno successivo), una piattaforma chirurgica mininvasiva con quattro bracci giunta alla sua quarta versione, con circa 240 apparati installati nel Paese.
A livello europeo sono circa 1.500 e più di cinquemila negli Stati Uniti. A novembre 2025, il Congresso Nazionale della Società Italiana di Urologia ha ospitato la presentazione ufficiale del da Vinci 5 da parte di abMedica, la quinta generazione di questo strumento rivoluzionario che promette di aprire una nuova era nella pratica chirurgica.
Cosa cambia in sala operatoria con il sistema da Vinci
Il sistema da Vinci permette ai chirurghi di operare attraverso piccole incisioni controllando bracci robotici dotati di strumenti miniaturizzati. Il medico utilizza una console e osserva il campo operatorio su uno schermo tridimensionale ad alta definizione, con un ingrandimento fino a dieci volte superiore alla visione naturale. I movimenti delle mani vengono tradotti in gesti micrometrici, filtrando il tremore naturale e permettendo manovre impossibili per la mano umana.
Gli strumenti possono ruotare di quasi 360 gradi con sette gradi di libertà, un raggio d’azione ben superiore a quello del polso umano. La quinta generazione introduce innovazioni che sembrano uscite da un romanzo di fantascienza: la tecnologia Force Feedback, appena introdotta, consentirà al chirurgo di percepire il contatto con i tessuti durante l’intervento, modulando con precisione la forza applicata su organi delicati e suture.
La potenza di elaborazione è aumentata di diecimila volte rispetto alla quarta generazione, permettendo analisi in tempo reale e supporto decisionale basato sull’intelligenza artificiale. Il sistema di visione 3D è stato ridisegnato per offrire colori più realistici e una risoluzione mai raggiunta prima. Non meno importante, la console è stata riprogettata ergonomicamente per ridurre l’affaticamento del chirurgo, proteggendo così anche chi opera oltre a chi viene operato.
Giuseppe Carrieri, presidente della Società Italiana di Urologia, ha definito questa evoluzione “senza precedenti” per la capacità di raccogliere dati oggettivi, migliorare le prestazioni chirurgiche e potenziare l’esperienza del personale medico. Gli urologi italiani saranno i primi utilizzatori della chirurgia robotica nel nostro Paese, ma le applicazioni si estendono ormai alla ginecologia, alla chirurgia toracica, cardiaca, pediatrica e generale.
Chirurgia a distanza: il prossimo passo delle tecnologie che salvano la vita
Ciò che rende questa tecnologia particolarmente promettente è la prospettiva della chirurgia a distanza (anche a questo servirà il 6G con la sua latenza ridottissima): il sistema permetterebbe a un medico di operare un paziente a centinaia di chilometri di distanza. Anche se questa possibilità non è ancora pratica comune, apre scenari inediti per portare competenze chirurgiche d’eccellenza in aree remote o sottosviluppate del pianeta.
Diagnosi precoce: tecnologie che salvano la vita prima dei sintomi
Mentre i robot chirurghi intervengono quando la malattia è già stata individuata, l’intelligenza artificiale sta rivoluzionando la fase ancora più cruciale della diagnosi precoce. Il Massachusetts Institute of Technology, in collaborazione con il Massachusetts General Hospital, ha sviluppato un sistema di deep learning addestrato su oltre 90.000 mammografie, capace di prevedere l’insorgenza del tumore al seno fino a cinque anni prima delle diagnosi tradizionali.
Questa tecnologia non si limita a cercare segni visibili di malattia: individua pattern nascosti che sfuggono all’occhio umano anche più esperto, riconoscendo tracce biologiche e strutturali impresse nei tessuti prima ancora che la malattia emerga. In Ungheria il sistema è già operativo, mentre Regno Unito e Unione Europea stanno valutando l’adozione nei propri sistemi sanitari.
Ci sono ovviamente molte questioni aperte, ben affrontate in questo articolo pubblicato su queste colonne da Luigi Mischitelli.
Il cuore connesso: tecnologie che salvano la vita tra pacemaker e defibrillatori
Nel silenzioso ma incessante battito del cuore si cela l’orologio biologico che regola la nostra vita. Quando questo ritmo si spezza, la medicina interviene con una delle sue tecnologie più collaudate: il pacemaker. Ma anche questa invenzione consolidata sta vivendo una trasformazione radicale. I pacemaker leadless, ovvero senza fili, rappresentano una delle innovazioni più significative dell’ultimo decennio.
Il Centro Cardiologico Monzino è stato tra i primi centri in Europa a impiantarli. Si tratta di dispositivi miniaturizzati, lunghi circa tre centimetri e simili a una capsula, che contengono al loro interno sia il generatore sia il sistema di stimolazione. Vengono introdotti attraverso la vena femorale e fissati direttamente al muscolo cardiaco, senza necessità di incisioni chirurgiche né di tasche sottocutanee.
Dispositivi più piccoli, procedure meno invasive
I vantaggi sono molteplici: procedure meno invasive, minor rischio di infezioni, invisibilità esterna. Se fino a poco tempo fa erano disponibili solo in versione monocamerale, oggi consentono anche la stimolazione bicamerale, per atrio e ventricolo insieme. In Italia vengono impiantati circa 15.000 pacemaker all’anno, e questa tecnologia permette di personalizzare molto meglio la terapia per ogni paziente.
Parallelamente, i defibrillatori impiantabili stanno compiendo passi avanti decisivi. Il nuovo Aurora EV-ICD, sviluppato da Medtronic (azienda USA) dopo oltre dieci anni di ricerca, rappresenta un dispositivo unico nel suo genere. A differenza dei defibrillatori tradizionali, che richiedono il passaggio degli elettrodi attraverso i vasi sanguigni fino alla parete cardiaca con rischio di occlusioni e infezioni, Aurora posiziona l’elettrocatetere sotto lo sterno, all’esterno del cuore e delle vene.
In questo modo preserva il sistema venoso mentre garantisce terapie salvavita e stimolazione antitachicardica. L’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola di Bologna (uno dei quattro centri di riferimento italiani per lo sviluppo del sistema robotico di Medtronic) ha già realizzato con successo decine di interventi utilizzando i nuovi dispositivi, che hanno una longevità di oltre undici anni, dimensioni compatte e possono interrompere le aritmie potenzialmente letali anche senza erogare shock ad alta energia, riducendo il dolore per il paziente.
Considerando che il 92% delle persone colpite da arresto cardiaco muore entro pochi minuti se non salvato da un defibrillatore, e che nel mondo più persone muoiono per arresto cardiaco che per cancro del colon o polmonite, l’impatto di queste tecnologie sulla sopravvivenza è enorme.
Uno smartphone in tasca: tecnologie che salvano la vita contro l’ipertensione
L’applicazione OptiBP, sviluppata dalla svizzera Biospectal, è stata studiata per limitare i danni di quella che l’OMS definisce l’epidemia silenziosa più diffusa al mondo: l’ipertensione arteriosa. Con 1,3 miliardi di persone affette a livello globale e il 78% dei pazienti ipertesi residenti in Paesi a basso e medio reddito (Global Hypertension Report OMS 2023), la necessità di strumenti di screening e monitoraggio accessibili e a basso costo rappresenta una priorità sanitaria assoluta.
I dati epidemiologici sono allarmanti: globalmente, solo il 54% dei pazienti ipertesi ha ricevuto una diagnosi e appena un quinto di questi ha la propria pressione sotto controllo. Biospectal ha avuto una grande intuizione: sviluppare una soluzione basata su uno degli strumenti più comuni al mondo, lo smartphone. OptiBP trasforma infatti qualsiasi smartphone Android in un dispositivo medico per la misurazione della pressione arteriosa utilizzando esclusivamente la fotocamera integrata del telefono.
Come funziona OptiBP: PPG, calibrazione e limiti da gestire
La tecnologia si basa sulla fotopletismografia (PPG), una tecnica che rileva le variazioni di volume del sangue nei tessuti periferici attraverso l’assorbimento della luce. L’utente posiziona il polpastrello sulla fotocamera posteriore dello smartphone, che illumina il tessuto con il flash LED e registra le microscopiche variazioni di assorbimento luminoso correlate al flusso pulsatile arterioso.
Algoritmi proprietari analizzano quindi le caratteristiche della forma d’onda PPG per stimare i valori di pressione sistolica e diastolica. L’applicazione richiede una calibrazione iniziale con uno sfigmomanometro tradizionale a bracciale, il che implica almeno un contatto iniziale con un operatore sanitario, cosa che la differenzia da tante applicazioni che tentano di simularne le funzioni senza successo.
Una volta calibrato, il sistema consente monitoraggi ripetuti autonomi da parte del paziente, con una precisione che gli sviluppatori dichiarano comparabile ai dispositivi sfigmomanometrici di grado medico. L’applicazione è stata testata estensivamente in diverse popolazioni e condizioni cliniche e ha ottenuto la certificazione CE come dispositivo medico di Classe IIa nell’Unione Europea.
Dal punto di vista economico-sanitario, l’impatto potenziale è rivoluzionario. Il prezzo indicativo di 5 euro per l’applicazione elimina la barriera economica rappresentata dall’acquisto di sfigmomanometri tradizionali, il cui costo può variare da 20 a oltre 100 euro per dispositivi di qualità medica, oltre ai costi di sostituzione periodica dei bracciali e delle batterie.
La durabilità e l’usabilità dipendono interamente dal telefono, rendendo il sistema intrinsecamente sostenibile nel lungo periodo. La valutazione OMS ha raccomandato la tecnologia con una nota di cautela, principalmente legata alla necessità di ulteriore documentazione sulla validazione clinica e sulla gestione del rischio cybersecurity. Il produttore non ha infatti presentato la documentazione completa di verifica e validazione del design, né i rapporti post-market.
Ciononostante, il potenziale per la raccolta di dati epidemiologici su scala globale attraverso misurazioni aggregate anonimizzate potrebbe fornire informazioni senza precedenti sulla prevalenza e il controllo dell’ipertensione in popolazioni precedentemente non monitorate. OptiBP rappresenta un esempio paradigmatico di come la salute digitale possa democratizzare l’accesso a interventi sanitari fondamentali nei contesti con maggiore carico di malattia.
Sicurezza sul lavoro: tecnologie che salvano la vita tra wearable e AI
Nei contesti industriali e nei cantieri, i wearable di sicurezza stanno diventando una sorta di esoscheletro invisibile attorno alla persona. Il primo filone è quello anti-collisione con mezzi in movimento: il lavoratore porta un tag attivo (UWB, RFID o simili) integrato in casco, giubbotto o badge; il muletto ha un modulo che crea attorno a sé due o più “bolle” virtuali, tipicamente una zona di avviso e una di protezione.
Quando il tag entra nella zona, il sistema calcola in tempo reale distanza e direzione con precisione dell’ordine dei 10–20 cm grazie alla tecnologia Ultra-Wideband, molto più accurata del semplice RFID per gli ambienti indoor complessi. Se il pedone entra nell’area di rischio, scattano vibrazioni e beep sul wearable, allarmi visivi/acustici in cabina e — nelle versioni avanzate — rallentamento o arresto automatico del mezzo.
Un secondo filone riguarda il monitoraggio fisiologico e della fatica. Braccialetti, fasce toraciche o magliette sensorizzate misurano parametri come frequenza cardiaca, variabilità della frequenza, movimento e, in alcuni casi, temperatura cutanea. Algoritmi di analisi multimodale, spesso basati su AI, ricostruiscono un “profilo di fatica” del lavoratore nel corso del turno e segnalano condizioni critiche: ad esempio rischio di colpo di calore, calo di vigilanza o carico fisico eccessivo e prolungato.
L’uso più interessante non è solo l’allarme immediato (“fermati, riposati, idratati”), ma la possibilità per l’azienda di vedere pattern di rischio su reparti, turni e mansioni, riprogettando orari, pause e attrezzature. È una prevenzione “di secondo livello”: non impedisce l’evento con un singolo gesto come la cintura, ma riduce la probabilità che il lavoratore arrivi a quel punto di collasso in cui l’errore diventa inevitabile.
Ovviamente è importante che tutte queste innovazioni siano gestite contemperando le esigenze di riservatezza dei dati delle persone. Ma c’è di più: da un lato ci sono wearable “attivi”, per esempio caschi che riconoscono se sono allacciati o giubbotti con sensori di ancoraggio per chi lavora in quota. Dall’altro lato, sempre più spesso, entra in gioco la video-analisi AI: telecamere già presenti in sito vengono potenziate con software che riconosce in tempo reale casco, giubbotto ad alta visibilità, guanti, occhiali e genera un alert se qualcuno entra in area critica senza la dotazione corretta.
Per il lavoratore la differenza si traduce in una serie di micro-feedback: il varco che non si apre se non hai il casco, il messaggio sul display quando ti togli il gilet rifrangente, la chiamata del preposto quando il sistema segnala che in una certa area è aumentata l’incidenza di near-miss.
Dal punto di vista regolatorio siamo ancora in una fase ibrida: negli USA, ad esempio, non ci sono standard specifici sui wearable, ma sono considerati strumenti utili se integrati in un sistema di gestione della sicurezza. NIOSH (l’agenzia federale per la ricerca sulla sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro) ha documentato sperimentazioni su sistemi di allerta indossabili in edilizia e in settori ad alto rischio.
In Europa l’Agenzia EU-OSHA e vari organismi nazionali analizzano opportunità e rischi (privacy, sovraccarico di monitoraggio), ma il movimento va chiaramente verso un’integrazione strutturale: linee guida tecniche, incentivi assicurativi, clausole nei capitolati d’appalto.
Alla fine, il punto è che questi sistemi hanno la stessa logica della cintura di sicurezza: non ti rendono “più bravo”, ma rendono meno catastrofico l’errore inevitabile. Il muletto ti vede anche quando tu non vedi lui; l’algoritmo nota che sei allo stremo prima che tu lo ammetta; la telecamera si accorge che stai entrando a testa scoperta in zona carico.
La logica comune delle tecnologie che salvano la vita: adattarsi e prevenire
Dalla cintura intelligente di Volvo ai robot chirurghi, dall’occhio artificiale che individua il cancro ai pacemaker invisibili, dai defibrillatori di nuova generazione allo smartphone che misura la pressione, fino ai wearable che proteggono chi lavora in cantiere o in magazzino: il filo rosso che unisce tutte queste innovazioni è la capacità di adattarsi all’individuo e di intervenire prima che l’errore diventi tragedia.
Non esiste più una soluzione uguale per tutti, ma tecnologie che imparano, si calibrano e si evolvono per proteggere ogni persona nel modo più efficace possibile. In un’epoca in cui parliamo molto di intelligenza artificiale e tecnologie futuristiche, queste innovazioni ci ricordano che il vero progresso non sta nel sostituire l’uomo, ma nel fornirgli più strumenti.
I chirurghi non vengono rimpiazzati dai robot, ma guidano macchine che amplificano la loro precisione. I radiologi non cedono il posto agli algoritmi, ma utilizzano strumenti che estendono la loro capacità di vedere. Le cinture di sicurezza non decidono al posto nostro, ma ci proteggono in modi che da soli non potremmo mai raggiungere.
È questa la direzione della medicina, della sicurezza e della tecnologia del futuro: non l’automazione cieca, ma l’intelligenza distribuita negli oggetti che ci circondano — sempre al servizio della vita umana. Quando queste soluzioni diventeranno standard e non più progetti pilota, il loro vero effetto si misurerà in migliaia di quasi-incidenti che non diventano mai tragedie, visibili solo nelle statistiche di lungo periodo come una lenta, strutturale discesa della curva degli incidenti.











