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Strategia Ue sui dati: perché la PA italiana è in ritardo e come risolvere



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La strategia europea punta su condivisione e valorizzazione dei dati. La pubblica amministrazione italiana mostra però ritardi culturali e organizzativi: mancano competenze, strategie chiare e governance efficace. Serve un cambio di paradigma per trasformare i dati in strumento di innovazione

Pubblicato il 5 nov 2025

Pietro Pavone

Research Fellow presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”



small language models nelle aziende

La strategia europea sui dati punta a costruire un quadro comune per la condivisione dei dati all’interno dell’UE. Le pubbliche amministrazioni sono chiamate a ripensare processi e procedure per restare al passo con le innovazioni normative in tema di data economy.

In Italia, l’approccio rischia però di restare tradizionale, con una gestione dei dati di tipo adempimentale. Basti pensare alle principali leve che dovrebbero orientare in un senso data-driven l’azione delle amministrazioni: data culture, data strategy, data governance, data sharing.

Il mercato unico dei dati e le opportunità per la PA

L’Europa ha scelto i dati come infrastruttura strategica del futuro. Soprattutto con il Data Governance Act e il Data Act, la Commissione europea punta a costruire un vero mercato unico dei dati: un ecosistema in cui pubblico e privato possano condividere informazioni in sicurezza, generando innovazione, crescita economica e nuovo valore sociale.

Le opportunità sono molteplici. I dati possono supportare politiche pubbliche più efficaci, migliorare la qualità dei servizi ai cittadini, abilitare soluzioni innovative per sfide complesse come la sanità digitale, la transizione verde o la mobilità sostenibile. In prospettiva, i cittadini stessi potranno farsi co-produttori di valore, fornendo dati utili alla PA per costruire servizi personalizzati e politiche più mirate.

Eppure, nonostante questo scenario, in Italia la pubblica amministrazione appare ancora lontana da una piena maturità. La distanza rispetto all’agenda europea si misura soprattutto sul piano culturale e strategico: esiste la consapevolezza, ma manca la traduzione concreta nei processi e nelle strutture organizzative.

Le fragilità culturali e organizzative della PA italiana

La sfida non è più soltanto quella degli open data, cioè la messa a disposizione di dataset pubblici. Oggi si chiede alle amministrazioni di diventare davvero data-driven, capaci di utilizzare i dati come leva per guidare decisioni e politiche. È un cambio di paradigma che richiede non solo tecnologie, ma soprattutto nuove competenze e una diversa cultura organizzativa.

Qui emergono tre fragilità principali. La prima riguarda la cultura del dato: molti enti riconoscono l’importanza dei dati, ma pochi investono in formazione e alfabetizzazione digitale. Senza queste competenze, il dato rimane una risorsa potenziale, poco utilizzata nei processi decisionali quotidiani.

La seconda debolezza è la mancanza di strategie chiare. Poche amministrazioni hanno elaborato piani strutturati su come valorizzare i dati. Spesso ci si limita a iniziative estemporanee o a consulenze esterne, senza integrare l’uso del dato nella programmazione ordinaria e nei documenti di pianificazione.

Infine, la governance. In molti enti mancano strutture dedicate alla gestione dei dati; dove esistono, risultano sottodimensionate e con competenze limitate. Senza una governance solida, che assegni ruoli e responsabilità, la gestione dei dati rischia di restare frammentata e inefficace.

La condivisione dei dati tra enti pubblici e privati

Uno dei cardini della strategia europea è il data sharing, la condivisione dei dati non solo tra amministrazioni pubbliche, ma anche con soggetti privati. È qui che si gioca gran parte del potenziale di innovazione.

In Italia, le esperienze sono ancora sporadiche. Alcuni enti hanno avviato collaborazioni, ma spesso si tratta di progetti esplorativi e non sistemici. Le partnership tra amministrazioni sono più frequenti, ma il coinvolgimento dei privati resta marginale.

Gli ostacoli sono noti: sistemi informativi che non comunicano, regole complesse che intrecciano (Data Act, Data Governance Act, AI Act e GDPR), e soprattutto una fiducia reciproca ancora fragile. Eppure, proprio la fiducia è la condizione necessaria per far funzionare la condivisione dei dati su larga scala. Senza di essa, i dati restano chiusi nei silos degli enti, perdendo gran parte del loro valore potenziale.

Tre azioni per una PA data-driven

La sfida non è principalmente tecnologica. Le piattaforme esistono, le soluzioni tecniche sono disponibili. Il vero nodo è culturale e organizzativo. Per recuperare terreno servono tre azioni decisive.

La prima è investire in competenze, diffondendo una cultura del dato che diventi patrimonio condiviso del personale della PA. Si tratta certamente di alfabetizzazione digitale, ma soprattutto di una nuova capacità di leggere, interpretare e utilizzare i dati per orientare le scelte.

La seconda è definire strategie chiare, che rendano l’uso dei dati parte integrante della missione degli enti. La data strategy deve diventare un capitolo fondamentale della pianificazione e dei PIAO, con obiettivi concreti e risorse dedicate.

La terza è rafforzare la governance, creando strutture e unità operative responsabili della gestione dei dati, capaci di garantire interoperabilità, trasparenza e responsabilità. Senza una cabina di regia chiara, le iniziative rischiano di restare frammentate e inefficaci.

Tre modelli di maturità organizzativa nelle amministrazioni

Quando osserviamo il comportamento delle amministrazioni pubbliche di fronte al tema della valorizzazione dei dati, possiamo distinguere tre grandi atteggiamenti che rappresentano diversi stadi di maturità organizzativa e culturale.

L’approccio passivo

Il primo è l’approccio passivo, caratterizzato da inerzia e immobilismo. Qui i dati vengono trattati come meri adempimenti burocratici, raccolti e archiviati per rispondere a obblighi normativi, senza che vengano realmente messi a sistema per generare conoscenza. Questo atteggiamento, purtroppo ancora diffuso in molte realtà italiane, evidenzia una distanza rispetto alle aspettative europee: gli enti restano ancorati a logiche amministrative tradizionali, trascurando il potenziale pubblico e politico dei dati.

L’approccio attendista-esplorativo

Un secondo insieme di enti adotta un approccio attendista-esplorativo. In questo caso esiste la consapevolezza delle sfide poste dal nuovo quadro regolamentare europeo e dalla Strategia dei dati, ma prevale una logica prudenziale. Le amministrazioni si muovono con cautela: avviano progetti sperimentali, introducono strumenti di interoperabilità in modo parziale, cercano di capire come le novità possano essere integrate senza compromettere equilibri organizzativi già fragili. È un atteggiamento “a metà”, che riflette il timore di restare esclusi dai processi di innovazione ma, allo stesso tempo, l’incapacità di fare un salto di qualità. Proprio qui si gioca una partita cruciale: restare troppo a lungo in questa posizione rischia di tradursi in un ritardo strutturale, con il risultato di inseguire anziché guidare il cambiamento.

L’approccio pionieristico e proattivo

Il terzo approccio è quello pionieristico e proattivo, ancora minoritario ma già riconoscibile in alcune esperienze italiane ed europee. Qui gli enti non solo recepiscono le direttive comunitarie, ma le trasformano in opportunità. Il dato diventa una vera e propria infrastruttura strategica: alimenta sistemi predittivi, sostiene processi decisionali, rafforza la capacità di rendere conto ai cittadini e stimola l’innovazione di imprese e start-up. È un approccio che va oltre la compliance normativa e che si colloca su un piano più ambizioso: quello della generazione di valore pubblico, inteso non solo come efficienza interna, ma come capacità di incidere sulla vita delle comunità attraverso scelte più informate, inclusive e sostenibili.

Dal dato come adempimento al dato come bene comune

La European Data Strategy rappresenta un’occasione storica per modernizzare la pubblica amministrazione italiana. Ma oggi, più che un punto di forza, i dati rischiano di essere un tallone d’Achille, se non accompagnati da un cambiamento culturale e organizzativo profondo.

I tre intervalli organizzativo-comportamentali descritti non sono categorie statiche, bensì tappe di un percorso. Ogni amministrazione può evolvere dall’inerzia alla sperimentazione, fino ad assumere un ruolo da protagonista. La differenza dipende da fattori cruciali: la leadership, le competenze digitali, la disponibilità a investire in infrastrutture tecnologiche e soprattutto la capacità di concepire il dato non come fardello burocratico, ma come bene comune da cui dipende la credibilità delle istituzioni e la qualità delle politiche pubbliche.

Le regole europee ci sono, le opportunità anche. Ora spetta alle amministrazioni italiane trasformare il dato da promessa astratta a strumento quotidiano di creazione di valore pubblico. È una sfida che non si vince con progetti isolati o con qualche sperimentazione tecnologica: serve un ripensamento sistemico, che faccia della cultura del dato un pilastro del DNA istituzionale.

Solo così l’Italia potrà colmare il divario con l’Europa e sfruttare la potenza dei dati come leva di innovazione, crescita e cittadinanza digitale.

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