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Baby influencer, infanzia da proteggere: le norme



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In Italia il disegno di legge n. 1136 ha disciplina organica per la tutela dei minori nella dimensione digitale. Nasce dal crescente allarme per l’esposizione dei minori sui social network e per la diffusione del cosiddetto “lavoro da influencer”. Vediamo perché è importante agire subito

Pubblicato il 8 ott 2025

Tania Orrù

Privacy Officer e Consulente Privacy Tuv Italia



baby influencer

Il disegno di legge n. 1136, all’esame del Senato, mira a introdurre una disciplina organica per la tutela dei minori nella dimensione digitale.

La proposta, di iniziativa parlamentare, nasce dal crescente allarme per l’esposizione dei minori sui social network e per la diffusione del cosiddetto “lavoro da influencer” svolto da bambini e adolescenti, spesso sotto la direzione e gestione dei genitori.

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Il disegno di legge social, minori e baby influencer

Il Ddl interviene su due piani distinti e cioè sull’accesso dei minori ai social network e sulla regolamentazione dei contenuti in cui i minori sono protagonisti a fini economici.

Età minima per social e chat e verifica

Sul primo fronte, la norma fissa un limite di età (15 anni) per aprire e gestire un profilo social, qui comprese anche le chat tipo Whatsapp; i fornitori dei servizi digitali dovranno garantire sistemi di verifica dell’età affidabili e conformi agli standard europei in materia di privacy, anche mediante l’uso dell’EU Digital Identity Wallet, in corso di sperimentazione in diversi Stati membri. I contratti stipulati con soggetti di età inferiore a 15 anni saranno nulli, salvo l’intervento o il consenso dei titolari della responsabilità genitoriale.

Autorizzazione dell’ispettorato del lavoro

Sul secondo fronte, il Ddl disciplina le attività dei minori influencer e dei contenuti digitali a scopo di lucro che li coinvolgono. Quando la presenza online di un minore genera ricavi superiori a una soglia annuale (10.000 euro nel testo base), sarà necessaria un’autorizzazione dell’Ispettorato territoriale del lavoro, che potrà imporre limiti di orario, condizioni psicologiche e vincoli legati alla frequenza scolastica. I proventi dovranno essere versati in un conto vincolato intestato al minore, analogo a quello previsto dalla normativa francese (2020), e potranno essere utilizzati solo al raggiungimento della maggiore età o su autorizzazione giudiziaria.
Il disegno di legge affida inoltre ad Agcom e al Garante per la protezione dei dati personali compiti di vigilanza e di definizione tecnica delle modalità di verifica e di attuazione.

L’iniziativa arriva in un contesto normativo frammentato, dal momento che in Italia l’unico riferimento vigente è il Decreto legislativo 101/2018, che ha fissato a 14 anni l’età del consenso digitale ai sensi del GDPR, e la legge 977/1967 sul lavoro minorile, pensata però per l’ambito industriale e artistico e non direttamente per la produzione domestica di contenuti digitali. Il Ddl ha quindi l’intento di colmare questo vuoto normativo e rispondere a una preoccupazione crescente nell’opinione pubblica, ossia la trasformazione dei bambini in soggetti economici all’interno delle piattaforme social.

Perché si è arrivati a questa proposta sul lavoro del baby influencer

L’intervento legislativo è la risposta a un fenomeno che negli ultimi anni ha superato la dimensione episodica per diventare un mercato strutturato. Ricerche accademiche internazionali collocano infatti il kidfluencing all’interno di un mercato multimiliardario, ancora privo di una vera e propria regolamentazione strutturata. Gli studi convergono inoltre nell’identificare il fenomeno come una forma di lavoro minorile digitale, in cui la produzione di contenuti avviene spesso in ambito domestico e sotto la gestione dei genitori, con rischi di sfruttamento economico e di esposizione eccessiva dell’immagine del minore.

L’attenzione pubblica si è intensificata anche a seguito di casi internazionali che hanno evidenziato la fragilità del confine tra rappresentazione familiare e sfruttamento. Negli Stati Uniti, il canale DaddyOFive è stato chiuso nel 2017 dopo la condanna dei genitori, Mike e Heather Martin, per abusi psicologici nei confronti dei figli utilizzati nei video di “scherzi familiari” ovvero prank video; Nel 2020, la Stauffer Family, nota per i video sull’adozione del figlio Huxley, ha destato scalpore dopo averne annunciato la “ricollocazione” presso un’altra famiglia, sollevando interrogativi sullo sfruttamento dei minori nei contenuti sponsorizzati; nel 2024 la youtuber Ruby Franke, del canale 8 Passengers, è stata condannata per maltrattamenti aggravati.

Francia

In Francia, il successo dei fratelli Swan e Néo e del loro canale YouTube Swan The Voice, gestito dai genitori, è stato al centro del dibattito pubblico sull’assenza di tutele per i minori influencer e scaturito interrogazioni parlamentari che contribuirono all’entrata in vigore della loi n° 2020-1266 del 19 ottobre 2020, e l’introduzione, per la prima volta in Francia, di una disciplina del lavoro dei minori online (autorizzazioni prefettizie, limiti orari e protezione dei compensi).

L’Italia, fino ad oggi, ha affrontato la questione solo in termini di consenso al trattamento dei dati personali e di limitazioni all’età di accesso, senza toccare la dimensione economica e contrattuale del fenomeno. Il Ddl attuale rappresenta quindi un tentativo di estendere le tutele previste nel mondo del lavoro tradizionale all’economia digitale domestica.

Il fenomeno baby influencer in Italia: tra normalizzazione e assenza di tutele

Il quadro italiano mostra una continuità con i fenomeni internazionali, ma con una specificità: la produzione di contenuti avviene quasi sempre in ambito familiare, fuori da ogni riconoscimento giuridico. Inchieste giornalistiche recenti – da PresaDiretta (Rai, 2025) a La Repubblica e Avvenire – mostrano un universo domestico in cui la produzione di contenuti con minori è diventata parte integrante dell’economia familiare. In particolare, l’inchiesta di PresaDiretta (“Piccole star del web”) ha raccontato storie di bambine e preadolescenti con centinaia di migliaia di follower, la cui quotidianità viene interamente organizzata intorno alla creazione di video e post sponsorizzati. In un segmento, gli autori ricordano che solo nel settore della cosmesi la quota di mercato legata ai baby influencer raggiunge centinaia di milioni di euro, segno di un coinvolgimento precoce e sistematico di minori nella filiera pubblicitaria digitale.

L’inchiesta di La Repubblica del gennaio 2025 ha invece posto l’attenzione sulla forma più diffusa e meno riconosciuta di questa economia: lo sharenting. Le influencer della maternità (madri che documentano la crescita dei figli) contribuiscono a costruire un flusso costante di immagini e dati personali, spesso in chiave promozionale, rendendo i bambini protagonisti inconsapevoli di campagne commerciali. Avvenire ha aggiunto un elemento quantitativo rilevante: in Italia circa 336.000 minorenni tra i 7 e i 15 anni avrebbero già svolto attività lavorative, e tra queste, anche “nuove forme di lavoro online”.

Anche altre testate (da Fanpage a Quotidiano.net) hanno mostrato come la figura del minore “micro-imprenditore” stia emergendo nel contesto dei social network, sostenuta da genitori che fungono da manager, autori e responsabili commerciali. Il risultato è una forma di lavoro familiare invisibile, in cui l’attività del bambino appare spontanea ma risponde a logiche di mercato ben definite. Le piattaforme digitali, grazie alla possibilità di monetizzare le visualizzazioni, trasformano il gioco in un’attività produttiva, mentre la sfera domestica diventa il primo laboratorio di marketing affettivo.

Il quadro normativo europeo a confronto su minori e social

L’articolo 8 del GDPR lascia agli Stati membri la facoltà di fissare l’età del consenso digitale tra i 13 e i 16 anni.
Le scelte sono state diverse: 13 anni in Francia, Estonia e Paesi Bassi, 14 in Italia e Spagna, 16 in Germania e Austria.

La Francia ha scelto di accompagnare la soglia di età con la sopracitata legge del 2020 che disciplina in modo dettagliato l’attività dei minori nei contenuti online, stabilendo:

  • obbligo di autorizzazione amministrativa per i minori sotto i 16 anni impegnati in attività remunerate online;
  • limiti orari e diritto alla disconnessione;
  • obbligo di deposito dei compensi su un conto vincolato intestato al minore;
  • diritto all’oblio commerciale, cioè la possibilità, al raggiungimento della maggiore età, di chiedere la rimozione dei contenuti che lo riguardano.

Si tratta di un modello organico e preventivo, che riconosce il minore come soggetto di diritto anche nell’ambito del lavoro digitale; al contrario, il Ddl italiano affronta la questione prevalentemente in chiave di accesso e controllo, lasciando sullo sfondo la dimensione economica.

Verifica dell’età: che cosa prevede davvero l’UE e come si innesta nel Ddl italiano

Nel quadro europeo, la protezione dei minori non si esaurisce nel blocco anagrafico: il Digital Services Act impone alle piattaforme “misure appropriate e proporzionate” per tutelare i minori, e la Commissione ha pubblicato linee guida dedicate insieme a un prototipo di app di age-verification per facilitare la conformità. Il messaggio è semplice: la self-declaration (“clicco e dichiaro di avere 18 anni”) non è più sufficiente (se mai lo fosse stata). Le piattaforme devono adottare strumenti più solidi, coerenti con privacy e minimizzazione dei dati.

Il tassello tecnologico di medio periodo è il citato EU Digital Identity Wallet, previsto dal nuovo eIDAS 2: un portafoglio digitale che consente di dimostrare attributi (per esempio “over 15/over 18”) con rilascio selettivo delle sole informazioni necessarie, senza che l’utente, per provare di avere l’età richiesta, debba rivelare data di nascita o altri dati identificativi. Il regolamento vincola i provider del Wallet a trattamenti separati e alla minimizzazione, e l’Architecture and Reference Framework (ARF) definisce l’interoperabilità basata su credenziali verificabili. Il regolamento eIDAS 2 è già in vigore; l’adozione operativa dei portafogli digitali europei d’identità avverrà gradualmente nel 2026, secondo standard tecnici condivisi a livello UE stabiliti dall’ARF e dagli atti di esecuzione della Commissione. Quest’ultima ha intanto avviato piloti di una app prototipale per verificare l’età in alcuni Stati membri (tra cui l’Italia) come soluzione ponte verso il Wallet, con l’obiettivo di dare alle piattaforme un meccanismo standardizzato e privacy-preserving per l’accesso a contenuti o servizi con soglie anagrafiche. Il senso politico è chiaro ed è quello di evitare di centralizzare dati sensibili in mano alle piattaforme e portare la prova d’età nel dispositivo dell’utente o nel suo wallet.

Per l’Italia questo si traduce in un bivio operativo in cui si dovrà decidere tra l’imposizione di metodi eterogenei (stima dell’età via AI, controlli documentali, database terzi) con rischi di errori, bias e sovra-raccolta di dati; o agganciarsi alla traiettoria europea (Wallet + linee guida DSA), ancorando Agcom e Garante a standard interoperabili e verificabili.

Le opzioni oggi sul tavolo che sono essenzialmente tre: i) la dichiarazione d’età (debole), ii) l’age estimation (accuratezza variabile e criticità privacy), iii) age verification con credenziali rilasciate da soggetti fidati (più robusta e “parsimoniosa” in termini di trattamento dati). È su quest’ultimo punto che il Ddl potrebbe fare la differenza, legando la soglia d’età ad un meccanismo tecnico realmente idoneo e auditabile, non ad un “flag” formale.

Infine, con riferimento all’enforcement, l’UE ha già aperto procedimenti verso piattaforme che di fatto non impediscono l’accesso dei minori a contenuti per adulti, con l’obiettivo di standardizzare la prova dell’età in modo riutilizzabile, a divulgazione minima e con controlli pubblici. È una linea più sobria rispetto alla retorica dei “divieti”, in quanto sposta la tutela dal “dove non puoi entrare” al “come dimostri” ciò che serve, senza regalare dati a nessuno.

Limiti e criticità della proposta italiana di regolare i baby influencer

L’impianto del Ddl, pur ispirato da un intento protettivo, solleva alcune criticità.
In primo luogo (al netto della scelta per la verifica dell’età di cui sopra) l’innalzamento della soglia d’età da 14 a 15 anni rischia di avere un effetto prevalentemente simbolico, in quanto la misura potrebbe spostare il fenomeno verso forme meno trasparenti, con la creazione di profili (formalmente) gestiti da genitori o agenzie.
In secondo luogo, la mancanza di una disciplina chiara e compiuta, ma solo accennata, sui rapporti economici rende il sistema di tutela incompleto. Così, il conto vincolato e l’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro sono misure positive, che tuttavia non risolvono il nodo centrale e cioè la qualificazione giuridica del minore come lavoratore o prestatore d’opera nell’ambito della produzione digitale.

Il rischio è che il Ddl crei una doppia area di incertezza: quella dei minori formalmente esclusi dai social ma presenti attraverso account “familiari”; e quella dei minori che producono contenuti monetizzabili ma senza una cornice contrattuale definita.

La proposta legislativa italiana, così strutturata, appare insomma più come uno strumento di moralizzazione del web che come risposta concreta alle dinamiche economiche che lo alimentano.

La responsabilità familiare

Il punto più critico, e allo stesso tempo meno discusso, è lo sfruttamento intra-familiare dei baby influencer. Nella maggior parte dei casi, i contenuti che vedono i minori protagonisti sono prodotti all’interno delle mura domestiche, con i genitori che fungono da autori, registi e spesso manager, che decidono orari e ritmi di lavoro, sceneggiature, contratti pubblicitari.
L’attività assume così i tratti di un lavoro sommerso, perché non riconosciuto come tale, quindi privo di contribuzione, tutela sanitaria e limiti di orario.

La dottrina sociologica descrive questa forma di lavoro come “invisibile perché normalizzata”, radicata in un immaginario familiare che trasforma l’intimità domestica in contenuto economico. Senza una regolamentazione specifica, il rischio è, da un lato, lo sfruttamento economico del minore, dall’altro la diluizione della responsabilità genitoriale, mascherata da collaborazione o gioco.

Il Ddl italiano, pur introducendo il principio di autorizzazione e di deposito dei compensi, non affronta in modo sistematico il tema della responsabilità patrimoniale e fiscale dei genitori né quello della trasparenza nei rapporti con i brand.

Gli effetti sui minori fruitori

L’attenzione alla tutela dei minori non può limitarsi a chi produce contenuti.

Anche i minori spettatori sono esposti a rischi specifici:

  • difficoltà nel distinguere tra contenuto spontaneo e messaggio pubblicitario;
  • idealizzazione di modelli di successo precoce;
  • interiorizzazione della visibilità come misura del valore personale.

Difficilmente i minori sono in gradi di riconoscere la natura commerciale dei contenuti pubblicati dagli influencer, soprattutto quando coinvolgono loro coetanei. In questo modo, l’esposizione continuativa a questo tipo di messaggi contribuisce a costruire un’immagine distorta della realtà familiare e sociale, in cui l’intimità diventa merce e la popolarità una forma di reddito.

Una regolamentazione efficace dovrebbe quindi agire, oltre che sul versante produttivo anche su quello educativo e informativo, imponendo etichette pubblicitarie comprensibili ai minori, trasparenza sugli sponsor e limiti di targeting per le piattaforme.

Verso una legge organica

L’Italia ha ora l’opportunità di definire una normativa completa, capace di coniugare tutela, libertà e responsabilità.
Un modello efficace dovrebbe comprendere:

  1. riconoscimento giuridico del minore-creator come lavoratore tutelato, con registrazione, limiti orari e diritto ai compensi;
  2. obblighi per le piattaforme di trasparenza, verifica e cooperazione con le autorità nazionali;
  3. educazione digitale strutturata nel percorso scolastico, per formare capacità critiche nei minori fruitori;
  4. diritto all’oblio commerciale, sul modello francese, che consenta ai ragazzi di rimuovere i contenuti prodotti durante l’infanzia;
  5. tutela patrimoniale vincolata, che impedisca ai genitori di disporre liberamente dei proventi generati dall’immagine dei figli.

Solo un impianto normativo di questo tipo può trasformare il principio di tutela in una pratica effettiva, evitando che la protezione dei minori resti confinata a una soglia anagrafica o a un controllo di accesso.

Oltre i divieti: riconoscere l’economia dell’infanzia online

Il Ddl italiano rappresenta un passo avanti rispetto al silenzio normativo degli anni passati, ma la sua impostazione resta parziale e difensiva.

La protezione dei minori nel mondo digitale non può esaurirsi nell’alzare un limite d’età o nell’imporre un nuovo filtro tecnologico. Occorre riconoscere che dietro molti profili e video “familiari” si nasconde un’attività economica reale, con ricavi, equilibri economici e dinamiche di potere.
Ignorare questa dimensione significa lasciare irrisolto il nodo centrale: il lavoro dei minori nel digitale è lavoro a tutti gli effetti, e come tale deve essere regolato.

Una legge organica, simile a quella francese, che definisca diritti economici, responsabilità genitoriali e strumenti di trasparenza, appare oggi non solo auspicabile ma necessaria.
Senza questo riconoscimento, il rischio è di continuare a confondere tutela con controllo e di lasciare i minori (produttori o spettatori) esposti a un sistema che li utilizza come protagonisti inconsapevoli di un’economia familiare ormai strutturale, ma ancora senza regole.

Bellissima - Anna Magnani - Trailer by Film&Clips

Da Bellissima a Instagram: l’infanzia in scena

Nel film Bellissima (1951), capolavoro del neorealismo italiano, Anna Magnani accompagna la figlia ai provini di Cinecittà per offrirle un futuro migliore, ma la bambina piange sotto le luci del set, incarnando il simbolo di un’infanzia che si consuma davanti allo sguardo altrui.

Oggi, i bambini non piangono più: sorridono davanti allo smartphone, ripetono battute, promuovono marchi, ringraziano gli sponsor. La scena si è spostata dalla sala cinematografica alla stanza di casa, con i genitori che curano l’inquadratura e l’engagement, trasformando la quotidianità in contenuto economico. Il dolore, pur nascosto, resta possibile.


Come la madre di Bellissima, molti adulti oggi proiettano nei figli il desiderio di riscatto, senza percepire che la vita digitale dei bambini diventa parte di un mercato che non dimentica nulla. Questi nuovi protagonisti dell’infanzia mediatica, anche se non conoscono il pianto del provino, potrebbero un giorno scoprire il rimpianto di un’infanzia narrata da altri.

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