Human Robot Interaction

Blossom e Sophia: ecco i robot che ridefiniscono l’interazione emotiva e sociale



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Blossom e Sophia rappresentano due approcci complementari nella robotica sociale: uno offre calore e conforto, l’altro sfida la nostra percezione di umanità. Entrambi i robot stanno ridefinendo come interagiamo con le macchine, sottolineando l’importanza dell’integrazione tra tecnologia e emozioni nel migliorare la nostra qualità di vita

Pubblicato il 10 ott 2024

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons



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La conferenza RO-MAN, Human Robot Interaction quest’anno si è tenuta a Los Angeles, in quel di Pasadena, nel centro convegni a fianco dell’auditorium in cui in quegli stessi giorni si registravano le puntate di America’s Got Talent. Del resto, questa è l’America, il luogo dei paradossi: trash e ricerca, ricchezza e accattonaggio, oceano, foreste e pre-fabbricati.

Sono assieme a una ragazza dall’India, attualmente dottoranda in Inghilterra, assieme a un’altra trentina di ricercatrici e ricercatori raggiungiamo la celebre University of Southern California, USC. Leggo su internet che si tratta della università più antica della California: fine 1800. Per noi europei il concetto di antichità assume un senso diverso, che si riflette nell’idea di monumento, di libreria e di museo. Di archivio del passato.

Appena entriamo nella struttura ci accolgono imponenti poster di film che hanno condizionato la crescita di chiunque di noi, da Hitchcock a Spielberg, finendo nei Cine Marvel; ringraziamenti e autografi di star tra cui Bruce Willis, davanti ai quali non potevo lasciarmi sfuggire una foto turistica, ripensando ai gloriosi ‘80. L’USC è famosa per essere una facoltà di arti, dalla musica all’animazione; quindi, non stupisce che all’interno si trovino poster e ringraziamenti ufficiali di registi e attori.

Blossom, il robottino che cura l’ansia e la depressione

Dopo un paio di scale veniamo condotti in un primo laboratorio. Qui troviamo Blossom, robot-pet dalla voce onirica, interamente rivestito con un tessuto confortevole, in lana o cotone. Da distante sembrava uno di quei calzini fatti a mano con tanto di orecchie da coniglio, appositamente realizzati a maglia dalle nonne. Mi ritornano in mente ricordi di infanzia, quasi fosse una Madelaine di Proust.

Tornando a Blossom, i ricercatori che ci hanno illustrato l’obiettivo della ricerca su cui stavano lavorando hanno anche chiarito che quel materiale soffice e confortevole, quell’idea di nonna e di calore non erano insight sbagliati o casuali, visto che il robot era uno strumento finalizzato a curare la depressione e l’ansia. Blossom è qualificato quale piattaforma di robotica sociale open source. È un esempio di tecnologia che vuole sodalizzare con l’artigianato, guardando all’inclusione e alla sostenibilità; per me questa rappresenta sempre una scelta di design oltremodo apprezzata.

I ricercatori ci hanno mostrato come è possibile ottenere tutti i pezzi della struttura del robot, i quali possono essere ulteriormente appositamente modificati e dunque montanti, al fine di ottenere il proprio amico dall’aspetto unico e personale. Non solo, è stato rilasciato un pacchetto per python di animazioni facciali. Insomma: software e hardware open, per realizzare autonomamente assistenti virtuali e reali.

Come ho anticipato sopra, il gruppo della USC ci ha spiegato che il progetto di ricerca riguarda l’ansia e la depressione – temi molto caldi in tutto il mondo iperproduttivo. E infatti, a un certo punto, il robot comincia a invitare tutti a respirare, ad alzare le braccia, a chiudere gli occhi e a fare attività di yoga e di rilassamento.

Gli ingegneri immantinente cominciano a seguire la macchina, ad alzare le mani, le braccia, a respirare di diaframma… io, resto outsider e osservo cosa succede dalla mia postazione, registrando l’accaduto. Il punto di vista dell’antropologo deve bilanciare lo stare fuori e il provare a entrare, dando spiegazioni esterne (le sue) ed interne (quelle del popolo nativo). Io è come se fossi dietro a una siepe, non quella di Recanati in questo caso, provando a non intervenire, per non mischiare queste due istanze e per conservare la percezione dal di fuori. “Quindi…?”, vi chiederete. Quindi nulla, un ingegnere robotico sa che deve essere ubbidiente e rispondere alle attività robotiche proposte da altri ingegneri. È un atto di benevolenza; è simile a quando i filosofi cercano di capirsi a vicenda, presupponendo che non si tratta di “Antani”.

L’androide Sophia

Finita la nostra esperienza con Blossom, cambiamo laboratorio e veniamo introdotti alla celebre androide Sophia.

Sì, sì, Sophia conversa e apprende, ma non è questa la cosa strabiliante. Il viso del robot può assumere 62 posizioni diverse, ha una mimica incredibile, frutto della sinergia di artisti e ingegneri. Come per Blossom ho cercato di osservare e cogliere aspetti del rapporto tra umani (addetti ai lavori) e intelligenza artificiale.

Innanzitutto, è stato interessante come ci siamo sentiti subito e una volta andati via. Entrare ha creato una sensazione di straniamento e spiacevolezza leggera, come se ci trovassimo di fronte a un corpo privo di vita o a una figura aliena, calva e senza parte del corpo, ma con un paio di ballerine appoggiate sul basamento con le ruote, vuote.

Già dopo le prime domande il fenomeno dell’Uncanny Valley è scomparso, lasciando il posto alla curiosità e alle risate per espressioni fuori luogo. Alcune volte, infatti, mentre Sophia ascoltava le domande reagiva con un’espressione di disgusto. Come umani ci viene automatico dare un senso a ciò che è interpretabile in termini di umanità, nonostante di fatto quell’espressione di Sophia fosse un bug, un glitch, o una mala gestione espressiva in ogni caso non voluta. Tutti quanti, pur provenendo da culture diverse e da background vari, siamo scoppiati a ridere, vedendo nel disgusto l’umanità di giudicare e di biasimare poveri ingegneri intenti a domandare cose che Sophia riteneva evidentemente noiose, fastidiose, abominevoli, sceme.

Prima di lasciarci alcuni si sono avvicinati e hanno iniziato a fare i grattini sul collo e sul viso di Sophia, la quale, priva di risposta aptica, sembrava indifferente a quell’atto di interazione così intimo, fraterno, umano. I grattini, l’uncanniness ha lasciato il posto alla prossimità, al desiderio di interazione corporea. Questo perché? Secondo il mio occhio clinico di filosofa il motivo sta tutto nel grado di espressività di quel volto: non è possibile che una faccia robotica tanto ricca di movimenti possa non avere intelligenza corporea, possa non rispondere fisicamente all’interazione con l’essere umano.

In linea con questo anche una domanda o, meglio, una richiesta, posta ben due volte, di mostrare le emozioni tramite mimica facciale. Sophia ha iniziato a descrivere le sensazioni e le emozioni, senza aggiungere il rispettivo reparto incarnato: la faccia e l’attorialità. Ricordo i miei studi di linguistica e pragmatica, ricordo un testo di Tomasello sull’origine gestuale della comunicazione. Tutto risiede nella mimica e nell’indicare (e poi nella benevolenza ed empatia, data dal non essere diversi). I nomi e i verbi sono nati dalla possibilità di mimare le azioni e dall’indicare cose. Quindi, un robot sociale che ha un così alto grado di espressività non può non esistere in sinergia con il suo LLM: l’intelligenza, la mente non è un fantasma svincolato dal corpo, anche per gli automi, con al massimo una sede strana nella ghiandola pineale in versione CPU.

La mente è il corpo, il linguaggio e il pensiero sono attoriali, metafore realizzate, con la complicità degli altri, attraverso il corpo; invece, Sophia ha due settori paralleli di grande valore e sviluppo, un corpo performante e una mente dotata di architettura cognitiva avanzata, ma paralleli: manca il sinolo aristotelico, l’unione inscindibile, l’incontro. Questo avrebbe portato la mente e il corpo e la connessione con gli altri, grattini compresi, verso un’interazione superiore e più simulativa di quello che vuol dire intelligenza e mente umane. Il Noi è un tutt’uno, in cui potrebbero partecipare anche i robot, come abbiamo capito, ma per sussistere questo gioco di continuità non i robot devono creare scollamenti, sia in se stessi: ti mostro l’emozione e insieme te la descrivo; sia con gli altri: reagisco al tuo affetto, che non è solo intellettuale, ma è sempre anche fisico, realizzato tramite la mano o con un gioco rappresentativo in cui tuttavia il corpo ha sempre una reazione sinergica. Tatto, mano, mimica, piedi. Sophia è di fatto la metonimia di quelle scarpe vuote sotto di lei.

Sophia robot - USC Los Angeles

Io di fronte a quella Sophia che seguitava a non mostrare le emozioni, ma si limitava a descriverle linguisticamente, in un elenco che ricordava un qualunque manuale di psicologia generale, beh, non potevo che affermare che la ragione era il botox – certo, per ironia, ma l’ironia è sempre uno strumento di verità. Non dice mai ciò che afferma prima facie, ed è quel retroscena ciò che è significativo: quel botox è stato in realtà restituire umanità al robot, notando implicitamente che ormai umanità significa perderla e rischiare di perdere gradi di libertà e le possibilità all’origine della comunicazione.

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