Il disegno di legge sull’intelligenza artificiale, approvato in prima lettura dal Senato il 23 aprile 2024, articola un intervento legislativo che incide trasversalmente su numerosi settori dell’ordinamento, imponendo una razionalizzazione della materia senza alterare la struttura codicistica vigente.
Il testo, composto da ventotto articoli, struttura la propria logica in una sequenza di disposizioni che, pur ispirandosi a una finalità regolativa generale, perseguono un obiettivo di delimitazione funzionale, selettiva e giurisdizionalmente orientata. La riflessione si concentra su due norme del ddl IA: gli artt. 17 e 26.
Indice degli argomenti
Ddl Ai e giudice naturale
Nel passaggio da una logica di territorialità a una logica di tecnicità, esiste una disposizione delo Codice di Procedura civile che incide sulla geografia del potere giudiziario e impone una riflessione rinnovata sul concetto di “giudice naturale”, inteso non solo come precostituito per legge, ma anche come proporzionato alla natura del conflitto e alla capacità delle parti di sostenere il carico processuale. Quella norma è l’art 9 cpc.
La modifica dell’articolo 9 del codice di procedura civile, introdotta dall’articolo 17 del disegno di legge, opera un mutamento strutturale nell’assetto delle competenze giurisdizionali in materia di intelligenza artificiale, attribuendo in via esclusiva al tribunale ordinario la cognizione delle controversie che abbiano a oggetto il funzionamento di un sistema algoritmico. L’effetto diretto dell’intervento legislativo consiste nella sottrazione di tali controversie al giudice di pace, anche nei casi di valore esiguo o di bassa soglia risarcitoria. La logica sottesa a tale scelta risponde a una esigenza di omogeneità decisionale, che valorizza la specializzazione e l’autorità dell’organo giudicante quale presidio di uniformità interpretativa su materie ad alta densità tecnica.
Tuttavia, l’impatto sistemico della disposizione, se esaminato attraverso la lente costituzionale, introduce una tensione non trascurabile rispetto al principio di prossimità del giudice alla parte, insito nell’articolo 24 della Costituzione. L’accesso alla giurisdizione, inteso nella sua accezione sostanziale e non meramente formale, postula una distribuzione territoriale delle competenze capace di garantire al cittadino una tutela effettiva, tempestiva, economicamente sostenibile. La concentrazione presso il tribunale ordinario, benché coerente sul piano della tecnicità, produce un innalzamento della soglia di accesso, con riflessi regressivi in danno delle fasce più deboli dell’utenza giudiziaria.
La norma, dunque, pur iscrivendosi in una razionalità amministrativa fondata sulla selettività e sulla verticalizzazione della competenza, interpella la giurisprudenza costituzionale sul piano dell’equilibrio tra efficienza organizzativa e garanzia individuale. La competenza del giudice di pace, originariamente concepita come presidio di prossimità e come strumento di decongestionamento, subisce una sottrazione silenziosa che altera l’assetto delle tutele disponibili, riservando alla giurisdizione togata la totalità delle vertenze connesse all’intelligenza artificiale, indipendentemente dalla loro complessità fattuale.
Ddl Ai, l’impatto sulla giustizia penale
All’interno dell’impianto normativo delineato dal Titolo IV del disegno di legge, la giustizia penale riceve un innesto particolarmente significativo attraverso l’articolo 26 del Ddl AI, che introduce una nuova circostanza aggravante riferita all’impiego dell’intelligenza artificiale nella commissione del reato.
L’ampliamento del coefficiente punitivo, articolato sulla base della tecnica utilizzata, presuppone un ripensamento della funzione eziologica del mezzo nella struttura del reato, con una traslazione parziale della valutazione giuridica dal fatto alla qualità strumentale del supporto tecnico.
La disposizione prescinde da una definizione univoca delle condizioni oggettive che determinano l’insidiosità del sistema impiegato, e introduce una clausola a contenuto flessibile che postula una valutazione giudiziale costruita a partire dagli effetti generati nel caso concreto. La funzione aggravante assume una configurazione assorbente rispetto all’intera dinamica offensiva, poiché trasforma la tecnologia da elemento neutro a parametro qualificante della pericolosità. L’algoritmo non si presenta come ausilio inerte, bensì come articolazione potenziale di un’intenzione capace di integrare la soglia aggravata del disvalore.
Tecnica e confronto costituzionale
L’assenza di parametri tipologici predeterminati impone un raffronto diretto tra l’elemento tecnico e il principio costituzionale di legalità penale, inteso nella sua declinazione sostanziale. L’identificazione della natura aggravante dell’algoritmo presuppone una ricognizione strutturale delle sue modalità operative, delle sue proprietà funzionali e della sua incidenza concreta sulla condotta umana. Il giudice, nell’accertamento della responsabilità, integra così il proprio ruolo di interprete della norma con quello di valutatore del funzionamento strumentale della tecnologia, attraverso una griglia concettuale ancora priva di stabilità sistemica.
Gli impatti della nuova aggravante
Sul piano soggettivo, la qualificazione aggravata introduce una variabile ulteriore nella ricostruzione dell’elemento psicologico. La previsione normativa richiede un grado di consapevolezza esteso, che investe sia l’intenzionalità lesiva sia la scelta consapevole del mezzo, nella sua idoneità a ostacolare la difesa o intensificare l’offesa. La condotta penalmente rilevante, in questa prospettiva, incorpora la componente tecnologica come parte essenziale del disegno criminoso, e impone alla difesa una strategia ricostruttiva capace di isolare l’interferenza algoritmica dalla volontà penalmente orientata dell’agente.
Ddl AI e deepfake
La nuova fattispecie penale relativa alla diffusione non autorizzata di contenuti deepfake, introdotta all’interno dell’articolo 26 del disegno di legge, istituisce un paradigma punitivo inedito, costruito sull’interazione tra ingegneria sintetica dell’immagine e danno ingiusto alla persona ritratta.
La disposizione circoscrive l’area di rilevanza penale all’ipotesi in cui l’alterazione artificiale dell’identità visiva o vocale venga divulgata in assenza di consenso, con conseguente lesione suscettibile di qualificazione giuridica in termini di ingiustizia sostanziale. L’intero impianto della norma ruota intorno alla definizione implicita di due concetti-cardine: l’identità digitale come bene protetto e la lesività soggettiva come criterio di incriminazione.
Ddl Ai e libertà di espressione
Il testo normativo si innesta su una linea costituzionale stratificata, nella quale coesistono la libertà di manifestazione del pensiero, sancita dall’articolo 21, e la tutela dell’identità, dell’onore e della dignità della persona, scolpita negli articoli 2 e 3. L’interferenza tra questi due assi produce una tensione non riconducibile a formule di bilanciamento astratto, ma impone una ricostruzione teorica e operativa dell’identità personale in ambienti sintetici e computazionali. La punibilità non dipende dalla veridicità dell’immagine, bensì dalla sua capacità lesiva, intesa come effetto relazionale generato dalla diffusione algoritmica di contenuti deformanti, attribuiti a un soggetto determinato.
Il danno, qualificato come “ingiusto”, assume rilievo punitivo solo in presenza di un pregiudizio dotato di valore giuridico protetto. Tale opzione legislativa attribuisce centralità alla soggettività percettiva della vittima, ma mantiene una struttura oggettiva fondata sul contesto di ricezione, sulla potenzialità offensiva del contenuto e sulla finalità implicita della sua circolazione. L’identità artificiale, nell’ottica penalistica introdotta dal legislatore, produce effetti giuridici non in quanto finta, ma in quanto attribuibile, condivisibile, dannosa. L’algoritmo, in tale configurazione, non assume funzione meramente tecnica, bensì opera come dispositivo di falsificazione, capace di incidere sulla costruzione pubblica e privata del sé.
Il principio di proporzionalità
Sotto il profilo costituzionale, la disposizione impone una valutazione articolata del principio di proporzionalità. La previsione incriminatrice introduce un’eccezione al principio di libertà comunicativa, giustificata da una lesione personalistica che trascende l’ambito dell’informazione e si proietta nell’orizzonte dell’identità come diritto relazionale. L’ordine dei valori costituzionali, investito da questa dinamica, non tollera una gerarchia formale, ma richiede un’architettura di compatibilità interna tra diritti della personalità e poteri di espressione. La norma, in tale assetto, non interviene su contenuti d’opinione, bensì su manipolazioni iconografiche attribuite a soggetti reali, e fonda la propria legittimità sull’esigenza di tutelare una verità identitaria minacciata da processi di produzione algoritmica che alterano irreversibilmente la percezione pubblica del singolo.
All’interno dell’ecosistema digitale delineato dal disegno di legge, la funzione giurisdizionale riceve un’attenzione implicita, ma strutturalmente decisiva, nella misura in cui l’introduzione dell’intelligenza artificiale nel processo civile e amministrativo sollecita una ridefinizione del ruolo del giudice, non più confinabile nell’orizzonte ermeneutico tradizionale. L’interazione tra soggettività giurisdizionale e sistemi automatizzati modifica l’architettura epistemologica della decisione, trasformando la deliberazione giuridica in uno snodo tra istanze interpretative e suggerimenti computazionali.
La riserva di giurisdizione, scolpita nell’articolo 102 della Costituzione, non consente una sostituzione della figura del giudice con apparati algoritmici, né ammette una diluizione della responsabilità decisoria in reti tecniche opache o autoreferenziali. Il potere di giudicare conserva natura personale, fiduciaria e motivata, e richiede, in ogni passaggio, una ricostruzione razionale che colleghi le fonti del diritto al fatto concreto, attraverso un procedimento conoscitivo pubblico, verificabile e attribuibile. Ogni elemento computazionale, inserito nel flusso processuale come strumento di supporto, assume rilevanza solo nella misura in cui risulti accessibile, comprensibile e sindacabile. La tracciabilità della sequenza algoritmica, l’intelligibilità del processo decisionale automatizzato, l’attribuibilità dei criteri selettivi utilizzati nel calcolo costituiscono precondizioni necessarie per ogni forma di compatibilità costituzionale tra tecnologia e giurisdizione.
Il giusto processo
L’articolo 111, nella sua formulazione sul giusto processo, istituisce un nesso inscindibile tra decisione e motivazione. Il giudice, in quanto organo sovrano della decisione, esercita il proprio potere attraverso l’esplicitazione dei criteri logici e normativi che sorreggono l’esito del giudizio. Ogni elemento tecnico, sottratto alla possibilità di essere ricostruito e discusso dalle parti, altera l’equilibrio tra autorità e partecipazione, e compromette la simmetria tra potere e difesa. Il diritto alla motivazione, inteso come diritto alla comprensione dell’argomentazione giuridica, presuppone un linguaggio accessibile alle parti, un sistema di regole conoscibili, un circuito di responsabilità stabile e rintracciabile.
L’inserimento dell’intelligenza artificiale nelle dinamiche decisionali comporta un mutamento della semantica del giudizio. Il paradigma ermeneutico, fondato sulla ricostruzione del senso normativo nel caso concreto, tende a retrocedere di fronte alla logica correlativa dei sistemi predittivi, orientati alla probabilità, alla frequenza, all’analogia statistica. La decisione giuridica, in tale assetto, rischia una trasformazione strutturale, nella quale la discrezionalità viene assorbita dalla ricorrenza, la singolarità del fatto viene compressa nella medietà dei dati, e la responsabilità viene redistribuita su una catena tecnica refrattaria al controllo giuridico pieno.
AI e sovranità giurisdizionale
La sovranità giurisdizionale, intesa come insostituibilità della funzione giudicante in quanto espressione della legalità e della ragione pubblica, esige un quadro normativo strutturato, che vincoli l’uso dell’intelligenza artificiale a condizioni di auditabilità, trasparenza, intelligibilità e imputabilità. La giurisdizione non tollera deleghe occulte, non ammette automatismi opachi, non sopporta decisioni impersonali travestite da calcolo neutro. Ogni funzione giurisdizionale conserva natura deliberativa, poiché produce effetti su diritti soggettivi, status personali, rapporti giuridici e situazioni giuridiche soggettive. Ogni giudizio computazionale, per assumere legittimità costituzionale, richiede una riconduzione finale all’autorità razionale e responsabile del giudice, quale garante non sostituibile della tutela.
La tenuta sistemica dell’intero ordinamento processuale dipende dalla capacità di impedire che la razionalità statistica dell’algoritmo si sostituisca alla razionalità giuridica del ragionamento. Il conflitto, nella logica processuale, costituisce forma ordinante della decisione; il dissenso giuridico, nella struttura del giudizio, alimenta il dinamismo della verità forense. L’intelligenza artificiale, inserita in tale orizzonte, può costituire strumento di analisi, mai soggetto deliberante. La tecnocrazia giurisdizionale dissolve l’equilibrio costituzionale tra funzione e limite; la personalizzazione della decisione, al contrario, ne custodisce il fondamento.