Le competenze digitali di base sono diventate un requisito essenziale per affrontare la rivoluzione dell’intelligenza artificiale. Tuttavia, l’Italia appare ancora drammaticamente lontana dall’obiettivo europeo di garantire tali competenze alla maggioranza dei cittadini entro il 2030.
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I dati istat: l’italia al ventiduesimo posto europeo per competenze digitali
“Le competenze digitali giocano un ruolo fondamentale nel favorire la transizione digitale e al tempo stesso contrastare l’emergere di divari che possano compromettere l’equità e l’inclusione sociale. Il programma strategico UE per il decennio digitale13 ha tra l’altro l’obiettivo, da raggiungere entro il 2030, di portare all’80 per cento la quota della popolazione di età compresa tra 16 e 74 anni con almeno competenze digitali di base. Nel 2023, tale quota si attesta a poco più della metà (55,5 per cento nella media UE27) e l’Italia con il 45,8 per cento si colloca al ventiduesimo posto della graduatoria, con una distanza di 20 punti percentuali dalla Spagna (66,2 per cento) e di 14 punti percentuali dalla Francia (59,7 per cento)”.
Emergenza nazionale: oltre metà degli italiani senza competenze digitali di base
Recita letteralmente così il Rapporto annuale ISTAT 2025.
Dati tanto preziosi quanto impietosi sullo stato di alfabetizzazione digitale della popolazione italiana.
Non ce la facciamo.
Siamo indietro.
Più della metà della popolazione manca delle competenze digitali di base.
Stiamo parlando di oltre 30 milioni di persone.
In termini di alfabetizzazione digitale restiamo il fanalino di coda europeo: siamo ventiduesimi.
L’obiettivo 2030, quando la popolazione europea dovrebbe essere alfabetizzata all’80%, forse, potrebbe essere dichiarato per noi, già oggi, irraggiungibile, a meno di miracoli.
Ma il punto non è quell’obiettivo.
Italia senza competenze per l’AI: cronaca di un disastro annunciato
Il punto è chiederci che significano questi numeri quando si discute dell’impatto dell’intelligenza artificiale sulla società nel nostro Paese.
E l’unica risposta sintetica possibile a me pare sia quella che annota la cronaca di un disastro annunciato, un fallimento certo, un sacrilegio di opportunità, competitività e democrazia.
Se non si inverte immediatamente la tendenza, se non si rivedono di corsa piani e programmi, se non si fa un’inversione a “U” nelle priorità, se non si dichiara all’analfabetismo digitale una vera, convinta e urgente guerra come quella che dichiarammo all’analfabetismo funzionale nel secondo dopo guerra, a prescindere da come andranno le cose in giro per il mondo, in Italia, l’intelligenza artificiale non produrrà certamente i benefici sperati e far finta di non saperlo e di non rendersene conto è ipocrita e incosciente a qualsiasi livello.
L’intelligenza artificiale: tecnologia disruptive che richiede competenze digitali
La questione è semplice, anzi, di più, elementare.
L’intelligenza artificiale è la più disruptive, la più pervasiva, la più potente, la più veloce in termini di diffusione tra le tecnologie sin qui generate dall’ingegno umano.
Sono dati di fatto notori sui quali pare inutile perder tempo a mettere in fila elementi di prova.
È questione di mesi in qualche caso e di anni – pochi – in altri, ma non ci sarà un ambito della nostra vita nel quale una qualche forma di intelligenza artificiale non entrerà con prepotenza e del quale non diventerà irrinunciabile protagonista.
Sarà così – e in buona parte già lo è – nella dimensione personale e in quella professionale, sarà così nelle cose dei mercati e in quelle della democrazia.
Fare esempi rischia di suggerire una visione episodica di un fenomeno che è, invece, il più trasversale dei fenomeni tecnologici con i quali ci siamo confrontati sin qui.
Le opportunità che algoritmi e intelligenze artificiali ci offrono sono infinite, inimmaginabili oggi, anche solo guardando sei mesi in avanti.
E, però, c’è una condizione essenziale perché l’intelligenza artificiale produca più opportunità che rischi e la condizione in questione è l’alfabetizzazione di chi la usa e la userà negli anni che verranno.
E la useremo tutti.
Quindi la questione trascende la cosiddetta AI Literacy dell’art. 4 dell’AI Act, trascende le competenze di chi la progetta e progetterà, di chi la sviluppa, di chi la vende e di chi la usa e userà professionalmente.
Disporre di competenze digitali di base nella società degli algoritmi è – e, naturalmente, sarà ogni giorno di più – un indispensabile prerequisito di cittadinanza ma, forse, anche di più, un prerequisito di sostenibilità della vita in ogni sua dimensione.
La metafora del monopattino: competenze digitali come prerequisito di sicurezza
Che nessuno si offenda se scrivo che l’intelligenza artificiale è come un monopattino elettrico in una città caotica: straordinariamente utile o straordinariamente pericoloso, per sé e per gli altri, a seconda che chi ci sale sopra sappia o non sappia usarlo, sappia starci in equilibrio, ne conosca lo spazio lungo di frenata e le potenzialità modeste di accelerazione.
Ecco ora immaginiamoci che a una certa ora, di un certo giorno, trenta milioni di persone, a digiuno di queste competenze di base, salgano contemporaneamente su altrettanti monopattini in tutte le più caotiche delle città italiane.
Non è difficile immaginarsi cosa accadrebbe.
Non ci sarebbe regola sulla circolazione stradale che sarebbe in grado di scongiurare incidenti gravi e gravissimi.
Non ci sarebbe forza di polizia capace di garantire ordine e sicurezza.
Non ci sarebbero ospedali capaci di garantire assistenza e cura agli incidentati.
I numeri del disastro: truffe, deepfake e algoritmi discriminatori
Quel giorno, nel caso dell’intelligenza artificiale, se non è oggi, è domani e non un domani ipotetico, chissà quanto lontano, ma un domani che ci metterà poco a diventare oggi.
Basta, d’altra parte, mettere in fila i numeri dei truffati grazie a soluzioni diverse di intelligenza artificiale, quelli dei ragazzini e delle ragazzine che stanno vedendo la loro vita andare in frantumi, per mano di loro coetanei, utilizzatori – inconsapevoli delle conseguenze – di applicazioni idiote per la generazione di porno deepfake, delle decine di milioni di utenti dei più diversi socialnetwork che confondono per vere informazioni false artificialmente generate, quelli dei milioni di candidati a un posto di lavoro che non lo troveranno mai perché nello scrivere il curriculum non hanno tenuto conto che, ormai, nella più parte dei casi, a leggerlo sarà un algoritmo e che, quindi, lo si deve scrivere in modo diverso da ieri se si vuole avere qualche chance di essere assunti, quelli di quanti, vedendosi respingere una richiesta di finanziamento non ipotizzano neppure che all’origine ci sia l’errore di un algoritmo e, quindi, si rassegnano a rinunciarvi, senza neppure provare a chiedere alla società finanziaria le ragioni di quel rifiuto o di rivederlo.
E così via, per tanti, tantissimi altri numeri che suggeriscono o, almeno, potrebbero suggerire se ci prendessimo la briga di leggerli che l’intelligenza artificiale può certamente produrre quelli che fino a ieri, i credenti, avrebbero chiamato miracoli, ma solo per chi ne conosce le dinamiche di funzionamento di base, perché, per tutti gli altri – in Italia, appunto, oltre la metà della popolazione – è più facile che produca sciagure più o meno gravi.
La società a due velocità: cittadini di serie A e B
Ma non basta.
Anche se, forse, in tutta sincerità, dovrebbe essere abbastanza per convincerci che stiamo sbagliando qualcosa o, meglio, dovremmo fare – e di corsa – qualcosa di diverso, qualcosa che non stiamo facendo, c’è un’altra questione straordinariamente importante, difficile dire se più o meno della precedente.
E per metterla a fuoco vale la pena ritornare all’immagine delle nostre città prese d’assalto in quella famosa ora X, di quel famoso giorno y, da sessanta milioni di monopattini elettrici, guidati, per più della metà, da persone che non sanno guidarli.
Questa volta, però guardiamo a quel 45% di italiani che, secondo l’ISTAT, sanno, più o meno, andare sul monopattino, ovvero per stare alla metafora, dispongono di competenze digitali di base.
Quel giorno per loro sarebbe straordinariamente diverso da quello dell’altra metà della popolazione di cui ho appena detto.
Mentre i primi trenta milioni o poco più, quelli mai saliti sul monopattino – o, sempre per stare alla metafora, privi di competenze digitali di base -, infatti, starebbero a terra a contare le ferite, loro – quelli capaci di andarci sul monopattino – sarebbero i primi a arrivare a scuola al mattino, a entrare al lavoro, a mettersi in fila negli uffici pubblici e negli ospedali per esercitare i loro diritti civili e garantirsi una salute migliore.
E, naturalmente, i primi a tirare su la saracinesca di imprese e negozi, a presentare la loro candidatura a una carica politica e a votare alle elezioni.
Quel giorno, insomma, il Paese si scoprirebbe – più di quanto non sia già evidente – a due velocità, diviso tra cittadini di serie A, quelli in possesso di adeguate competenze digitali di base che li pongono nella condizione di trarre straordinarie opportunità dall’intelligenza artificiale, limitandone i rischi e cittadini di serie B – allo stato, secondo l’ISTAT, più della metà della popolazione – privi di queste competenze e, quindi, esposti a tutti i rischi dell’intelligenza artificiale e con poche chance di trarne anche benefici.
La migliore delle tecnologie nelle mani di chi non sa usarla è pericolosa per sé e per gli altri e se metà del tuo Paese non sa usarla e quella tecnologia diventa parte integrante dell’infrastruttura di base di quel Paese, il Paese in questione non ha nessuna chance di essere democratico, di essere giusto, di essere equo, né di competere per davvero nella società globale dove, gli altri Paesi – la quasi totalità degli altri Paesi europei, gli Stati Uniti e la Cina – hanno percentuali della popolazione non ancora in possesso di competenze digitali almeno di base significativamente inferiori alla nostra.
Educazione digitale: unica soluzione all’emergenza delle competenze digitali
Ecco, questo, probabilmente, è il Paese nel quale viviamo già oggi.
Ma certamente è quello in quello vivremo domani in assenza di interventi tempestivi, efficaci, massicci e, anzi, rivolti alla totalità delle persone che vivono nel nostro Paese.
In questa situazione, francamente, a me sembra che perder tempo a discutere di se e quanto le regole frenino l’innovazione, di come modificarle o eliminarle, di quali nuove regole scrivere per governare l’intelligenza artificiale, sia certamente importante ma non prioritario.
Niente frena l’innovazione più dell’analfabetismo di oltre metà della nostra popolazione e, soprattutto, niente la rende più pericolosa, meno governabile e meno democratica.
Eppure, continuiamo a investire enormemente di più nell’addestrare gli algoritmi a conoscere le persone che nell’educare le persone a conoscere gli algoritmi.
Se non cambiamo direzione in fretta, sarà un disastro e non avremo alibi perché prevederlo era facile e scongiurarlo certamente possibile a condizione di avere il coraggio di mettersi sulle spalle la più difficile delle scelte politiche possibile: quella di investire in educazione, una strada che non produce, per definizione, risultati di breve periodo e che rischia di far sì che i risultati di certe scelte coraggiose e illuminate di chi governava ieri, siano raccolti da chi governerà domani.
E, però, il Paese, il nostro Paese, è uno soltanto e in assenza di quella scelta fatta oggi, il suo domani rischia di essere egualmente sciagurato per tutti.