l'analisi

De-globalizzazione? Ecco perché è (quasi) impossibile tornare indietro

La globalizzazione è essenza e tendenza del sistema tecnico e del capitalismo. A meno che non arrivi sulla scena politica (almeno) un nuovo Roosevelt capace (almeno) di regolamentare questo tecno-capitalismo globalizzante e ormai tendenzialmente totalitario, la deglobalizzazione resterà un’utopia

Pubblicato il 13 Apr 2022

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

Global-Digital-Identity-Credentials

La globalizzazione è morta? Viva la globalizzazione! La guerra in Ucraina e il disastro che sta provocando – in termini di morti e di distruzione ma poi anche di disordine globale su fonti di energia, altre materie prime, riposizionamento dei blocchi politici, economici e militari, sanzioni economiche, crollo del Pil, eccetera eccetera – stanno portando molti a sostenere che la globalizzazione che conosciamo, avviatasi negli anni ’90, sia arrivata al tramonto. Ma se ne parlava anche come effetto della pandemia – è un tema che ritorna. De-globalizzazione? Lo riteniamo altamente improbabile, perché sistema tecnico e capitalismo hanno la globalizzazione (l’accrescimento di sé, la tecnica; e del profitto privato, il capitale – in strettissima sinergia tra loro) come propria essenza e tendenza, rafforzata dalla propria autoreferenzialità e autopoiesi e dalla propria incessante propaganda.

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Cos’è la globalizzazione

Proviamo allora a richiamare alcune cose su ciò che chiamiamo globalizzazione tecnica ed economica e proviamo a fissare alcuni paletti concettuali, in primo luogo definendola come la tendenza – soprattutto oggi – delle imprese e dei mercati finanziari a sviluppare processi integrati di produzione, distribuzione, ricerca e sviluppo e di movimento di capitali e investimenti soprattutto speculativi mediante sistemi informatizzati (la rete digitale).

Ma ricordiamo anche che globale/globalizzata – è uno degli effetti, forse il peggiore, del sistema tecno-capitalista – è la crisi climatica e ambientale (l’inquinamento atmosferico uccide 13 persone al minuto, nel mondo); che globale – e non da oggi – è la voglia popolare/populista di autoritarismo, di para-fascismo (l’Ungheria di Orban è solo un caso tra i molti), di delega politica a un uomo forte ma soprattutto di globale delega dell’uomo a una tecnica sempre più forte (che è un’altra forma di fascismo); che il complesso militare-industriale-tecnologico non è mai stato così potente e globale come oggi (la spesa militare mondiale è raddoppiata dal 2000 al 2021 arrivando a 2 trilioni di dollari Usa all’anno, spesa poi cresciuta ancora dopo la crisi ucraina); che gli oligarchi del mondo globale non sono solo quelli russi, ma anche o soprattutto Bill Gates, Mark Zuckerberg, Jeff Bezos o il fondo BlackRock (che ha 10mila miliardi di dollari di capitale investito), mentre l’80 per cento del capitale azionario globale è oggi controllato da meno del 2 per cento di azionisti. Oligarchi del tecno-capitalismo che certo sono contrarissimi (come quelli russi e cinesi e indiani…) ad ogni ipotesi di de-globalizzazione e faranno di tutto per impedirla.

Le globalizzazioni del passato

Partiamo allora con qualche (molto) sommario richiamo alle globalizzazioni del passato. L’Impero Romano o quello di Alessandro Magno – per fare due esempi facili – erano di fatto ciò che oggi chiameremmo appunto globalizzazione. Ma erano globalizzazioni prima militari e poi economiche. Prima c’era la conquista manu militari di territori e di popolazioni, poi arrivava la rete delle comunicazioni, poi l’economia. Erano piccole globalizzazioni perché geograficamente limitate rispetto alla totalità del mondo, ma comunque erano una forma di globalizzazione. Ugualmente è accaduto per il colonialismo europeo, soprattutto post-scoperta dell’America. Anche qui, prima una conquista militare – abbastanza facile – e poi l’espropriazione, appropriazione e la privatizzazione da parte degli europei delle terre dei nativi e insieme il loro genocidio di massa. Qui cambiano le dimensioni del processo, che si fa appunto più globale. La storia della globalizzazione imposta dall’Europa al resto del mondo, ieri e oggi, gronda dunque di sangue, di violenza, di schiavismo e produce sfruttamento spietato e compulsivo dell’uomo e dell’ambiente, genocidio e poi ecocidio. Senza dimenticare che anche l’azione dei mercanti e dei banchieri rinascimentali si svolgeva quasi a livello globale – il denaro, il prestito essendo qualcosa che aggirava facilmente confini e barriere, potendo muoversi già allora con molta maggiore facilità degli uomini.

Poi arriva la rivoluzione industriale, cioè il capitalismo industriale (diverso dalle sue forme precedenti), quindi una produzione sempre più di massa per un consumo sempre più di massa, per profitti sempre per pochi. Il profitto privato che il capitale ricerca ossessivamente ha infatti bisogno di produrre sempre di più e di conquistare mercati sempre nuovi e sempre più grandi e integrati tra loro; e deve fare in modo che la gente – e sempre più genteconsumi sempre di più e che produzione e consumo siano sempre più standardizzati (si riducono i costi di produzione e si aumentano i profitti, ieri come oggi) e sempre più reciprocamente funzionali (Anders: la produzione richiede il consumo, anzi il consumismo e lo spreco; il consumismo/spreco alimenta la produzione, in un circolo vizioso ma molto profittevole e appunto autoreferenziale e quasi-autopoietico).

Per tutto questo nasce il management nella prima metà dell’Ottocento, poi l’organizzazione scientifica (taylorismo) del lavoro, poi la lean production, poi le piattaforme, poi l’Industria 4.0… e il marketing, perché sempre più tra produzione e consumo deve essere introdotto a forza/indotto il bisogno/desiderio di sempre più gente di consumare sempre di più. E la pubblicità e il marketing non sono altro che l’organizzazione scientifica del nostro lavoro di consumatori (ancora Anders), funzionale alla crescita della produzione e della produttività e quindi del profitto.

Management e marketing nascono negli Stati Uniti (Postman e Packard) ma poi vanno alla conquista imperiale del mondo. Qualcosa di assolutamente pianificato (questo sono infatti management e marketing: pianificazione capitalistica e tecnica), mescolando guerra e mercato; complesso militare-industriale (colpi di stato compresi) , pubblicità e televisione; consumismo, industria culturale e american way of life; capitalismo e tecnologia. Per comprendere meglio questo processo di globalizzazione militare ed economica insieme – oppure: prima il mercato e poi le armi – moderna e diversa da quelle del passato, utilissimo è il libro di Victoria de Grazia, L’impero irresistibile, ripubblicato nei mesi scorsi da Einaudi, dove l’autrice ripercorre la storia dell’evento più significativo del XX secolo, appunto il trionfo crescente e poi globale della società dei consumi secondo il modello americano; impostosi infine – così come il fordismo-taylorismo per la parte di capitalismo che concerne la produzione – anche sulla civiltà borghese europea, raggiungendo un’egemonia culturale antropologica (quindi totalitaria) oggi su scala globale. Un impero appunto irresistibile quello del mercato divenuto non solo una forma di scambio ma una forma di vita ormai globale, secondo De Grazia, e che ha assoggettato e colonizzato i suoi sudditi – cioè tutti noi produttori e consumatori – con le armi seducenti dei consumi di massa – e poi (aggiungiamo) della rete/digitale.

La globalizzazione secondo Marx ed Engels

Scrivevano Marx ed Engels nel 1848, nel Manifesto del partito comunista, con una perfetta descrizione della globalizzazione anche di oggi: “La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria. Dove è giunta al potere, essa ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache. Essa ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato pagamento in contanti. […]. La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. […] Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. […] Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. […] Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la base nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e vengono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione è questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili – industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano soltanto nel paese, ma in tutte le parti del mondo”.

E quindi, “In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a sé stesso, subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra. Col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare. […]. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi. In una parola, essa crea un mondo a propria immagine e somiglianza. […]. Nel suo dominio di classe, che dura appena da un secolo, la borghesia ha creato delle forze produttive il cui numero e la cui importanza superano quanto mai avessero fatto tutte insieme le generazioni passate. […] L’industria moderna ha trasformato la piccola officina dell’artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalismo industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. Come soldati semplici dell’industria essi vengono sottoposti alla sorveglianza di tutta una gerarchia di sottufficiali e di ufficiali. Essi non sono soltanto servi della classe borghese, dello Stato borghese, ma vengono, ogni giorno e ogni ora asserviti alla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese padrone di fabbrica. Siffatto dispotismo e tanto più meschino, odioso, esasperante, quanto più apertamente esso proclama di non avere altro scopo che il guadagno”.

Citazione lunga ma necessaria per dimostrare come la dynamis/disruption della globalizzazione capitalistica e tecnica siano in realtà – a differenza di Marx ed Engels – la forma e la norma di organizzazione del tecno-capitalismo, più che della borghesia. E di come laccrescimento del mercato e della tecnica, oggi diventato appunto globale con l’integrazione di tutti i mercati in un unico mercato e di tutta l’umanità nella rete e nella digitalizzazione della vita e del lavoro, siano la tendenza totalizzante – perché questa è la sua essenzadel capitalismo così come del sistema tecnico.

La globalizzazione tecno-capitalista/neoliberale

E la globalizzazione iniziata negli anni ’90 – niente di nuovo, dunque, semmai l’ultima fase di un processo in realtà molto più antico e soprattutto strutturale/implicito nella tecnica e nel capitalismo – si basa ancora più delle precedenti sul connubio e sull’integrazione tra tecnologia di rete (il digitale di oggi analogamente alle strade dell’Impero Romano e delle ferrovie ottocentesche) e capitalismo nella sua ultima versione neoliberale. Ed è riassumibile in questi elementi della loro comune ideologia: società-mondi come mercato/sistema tecnico; impresa come modello sociale/social; competizione di tutti contro tutti (cioè: istituzionalizzazione tecno-capitalista dello stato di natura e legittimazione del darwinismo sociale); (ir)razionalità economica e tecnologica estesa a ogni aspetto del vivere; tutto è calcolo/algoritmi; lavoro tornato ad essere una merce (possibilmente low cost) e non più come un diritto; de-regolamentazione dei mercati del lavoro e della finanza; riduzione dei sistemi di welfare; individualizzazione e uberizzazione/precarizzazione/sfruttamento del lavoro, arrivando al caporalato digitale; abolizione della distinzione tra tempo di vita e tempo produttivo e consumativo; taylorismo globale e anch’esso digitalizzato; disuguaglianza (Stiglitz) ma anche ecocidio come scelta politica delle oligarchie tecno-capitaliste; irresponsabilità e ingiustizia sociale e ambientale. Su tutto, il tecno-capitalismo, che dopo avere conquistato e colonizzato (globalizzato) l’intero pianeta e tutto lo spazio fisico possibile (manca l’Antartide, ma è solo questione di tempo, mentre è iniziata la conquista tecno-capitalista dello spazio), ha colonizzato la vita intera dell’uomo e sempre più la sua psico-sfera, tra spazio virtuale e spazio/tempo mentale/psichico (a questo serve il Big Data) – sempre per estrarne profitto privato.

Tutto questo produce molti profitti e quindi difficilmente si arriverà davvero a una de-globalizzazione, perché questa sarebbe in contraddizione con lo spirito del tecno-capitalismo e questo spirito è la gabbia d’acciaio (secondo Max Weber) e oggi digitale in cui siamo stato chiusi. A meno che non arrivi sulla scena politica (almeno) un nuovo Roosevelt capace (almeno) di regolamentare profondamente questo tecno-capitalismo globalizzante e ormai tendenzialmente totalitario. Ma al momento non vediamo niente di simile all’orizzonte (anche se la sindacalizzazione di Amazon anche in America lascia qualche – ma tenue – filo di speranza). Perché se l’oligarchia tecno-capitalista esercita sempre più la propria egemonia (nel senso di Gramsci) sul mondo e sugli uomini – e la politica sembra ancella dell’oligarchia – difficile immaginare una de-globalizzazione.

Bibliografia

Anders G., “L’uomo è antiquato”, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino

De Grazia V., “L’impero irresistibile”, Einaudi, Torino

Demichelis L., “Sociologia della tecnica e del capitalismo. Ambiente, uomini e macchine nel Tecnocene”, FrancoAngeli, Milano

Marx K. – Engels F., “Manifesto del partito comunista”, Editori Riuniti, Roma

Packard V., “I persuasori occulti”, Einaudi, Torino

Postman N., “Technopoly”, Bollati Boringhieri, Torino

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