La dematerializzazione è uno dei fenomeni più conosciuti della transizione digitale. Lo spostamento del valore, economico e giuridico, dai beni fisici a oggetti e servizi immateriali è uno dei frutti più evidenti del primato dato ormai alle informazioni, vero e proprio oro nero di questo tempo.
O meglio azzurro, come il cielo in cui aleggiano le nuvole, il cloud, elemento che per eccellenza caratterizza la impalpabilità dei dati.
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La dematerializzazione tra tecnologia e corporeità
La dematerializzazione ha una variante antropologica meno conosciuta ma non per questo minore, in ordine alla comprensione dell’esperienza umana nell’era digitale. Si potrebbe parlare di rarefazione della carne, di progressiva impalpabilità dei corpi.
La psicologa americana Jean Marie Twenge ha scritto un famoso saggio sull’impatto dello smartphone nella vita degli adolescenti americani (Iperconnessi, 2017). Le molte pagine e tabelle consegnano un panorama sorprendente.
L’impatto dello smartphone sui comportamenti giovanili
Gli adolescenti nell’era dello smartphone escono meno il sabato sera perché preferiscono giocare con la playstation in modalità multiplayer con i loro amici seduti ognuno sul divano di casa propria; prendono più tardi la patente di guida (quando serve un passaggio i genitori sono disponibili) e cercano meno un lavoretto che offra loro una qualche iniziale autonomia economica (anche qui la famiglia foraggia sufficientemente).
Frutti di questa riduzione di rapporti fisici, e quindi legati a una mobilità dispendiosa, sono la diminuzione degli omicidi e ferimenti per rissa (si incontrano meno) tra adolescenti e l’aumento dei suicidi per solitudine e depressione.
Pare bevano anche meno. Il dato però che più colpisce è la significativa riduzione della vita sessuale: i ragazzi fanno meno sesso. Generazione particolarmente virtuosa? No, si accontentano del porno online o prediligono il sexting. I dati italiani e europei confermano questa tendenza come dimostra, ad esempio, l’indagine HBSC 2021-2022 dove si evidenzia come i quindicenni sessualmente attivi in Europa sono passati dal 25% del 2018 al 20% del 2022.
La mediazione tecnologica nelle relazioni intime
La mediazione tecnologica sembra rendere tutto più semplice: la pratica sessuale priva di ogni riferimento affettivo e personale che caratterizza la pornografia permette un più facile consumo, che non impegna e non impone alcun coinvolgimento. I corpi sono continuamente esibiti, fotografati, mostrati. Molto meno toccati e toccanti. I corpi (le persone) sono sempre più complicati: lo hanno imparato le generazioni di quindicenni precedenti a quelle digitali quando sperimentavano l’ardua avventura dei primi approcci.
Corpi e dati nell’era della digitalizzazione
L’esempio potente offerto dall’intimità digitale schiude una riflessione più ampia. Con ragione la filosofa americana Judith Butler scriveva nel 1993 il suo famoso volume: Bodies that matter! Nell’era digitale il tema decisivo e impegnativo è quello dei corpi, della carne, con il suo realismo insuperabile tanto potente quanto fragile e sensibile.
Lo è anzitutto nella sua comprensione al tempo del primato dei dati sulle cose. Si dovrà convenire che, malgrado il nostro generoso e continuo disseminare ovunque tracce digitali, siamo irriducibili ai nostri dati e non possiamo essere risolti nella profilazione, per quando raffinata, che viene fatta di noi. I corpi ricordano che siamo più dei nostri dati. Al contempo, però, dobbiamo ammettere che l’accesso alla totalità della nostra esistenza non può avvenire che in forma culturalmente mediata, grazie cioè a parole, immagini, simboli, narrazioni. Sorprendente luogo contemporaneo di sintesi di questa tensione sono i tatuaggi oggi tanto di moda: la carne come pagina su cui scrivere e disegnare.
Il bilanciamento tra fisicità e rappresentazione culturale
Il complesso bilanciamento tra custodia della concretezza della carne e forme culturali con cui ciò è possibile, particolarmente complesso nell’era digitale, impone un duplice superamento. Da un lato non possiamo ridurre la fisicità dei corpi a una sola rappresentazione culturale, malgrado il digitale sembri spingere, o almeno offrire una clamorosa chance in questo senso, spesso valutata come apertura insperata di libertà che non deve più fare i conti con i limiti della corporeità, come fa invece e problematicamente la Butler. Gli avatar sono l’esempio più facile: per un verso nel mondo digitale ognuno sceglie come rappresentarsi, anche in forma completamente sganciata da una realtà che non si vuole mostrare o accettare; al contempo l’affidabilità di un profilo social è verificata anzitutto per la presenza di una foto “reale” del personaggio.
La storicità del corpo umano e l’integrazione tecnologica
Dall’altro non è possibile custodire la fisicità dei corpi invocando in modo sostanzialmente ingenuo la natura, quasi che essa esista, e comunque risulti a noi disponibile, in forma assoluta, prima, sganciata da ogni quadro storico culturale. L’uso confuso (ideologico?) di termini quali naturale, artificiale, sintetico, reale, virtuale, ne è una prova evidente, talvolta anche in ambito accademico. Ogni corpo, e le sue rappresentazioni, sono sempre collocati in un tempo, in un luogo, in un linguaggio. Questa storicità è esattamente ciò che li rende umani.
Nella custodia di questa tensione complessa andrà collocata e affrontata anche la questione urgente dell’integrazione sempre più potente di sistemi tecnologici e corpi biologici. Le chimere antiche e i cyborg attuali sono gli spazi in cui continuare a riflettere su cosa significhi essere umani. Con lo stupore grato per ogni peacemaker impiantato nel petto di un malato di cuore che ritrova possibilità di vita prima insperate; con l’obbiettivo timore che qualcuna delle immagini di cervelli da cui escono connettori e chip (naturalmente in fondo azzurro), tanto care alla fantascienza, non diventi una triste realtà.











