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Kamala Harris o JD Vance: le loro politiche digitali al confronto



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Le posizioni di Kamala Harris e JD Vance sulle politiche antitrust e le questioni tecnologiche. Harris, probabile candidata democratica alla presidenza, mostra un approccio più moderato rispetto a Vance, scelto da Trump come candidato vicepresidente. L’impatto di queste posizioni sulle big tech, le startup, le criptovalute e l’elettorato

Pubblicato il 26 lug 2024

Umberto Bertelè

professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano



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Kamala Harris could potentially be more moderate than JD Vance on antitrust matters”, Kamala Harris potrebbe potenzialmente essere più moderata di JD Vance sulle questioni antitrust, è il titolo che accompagna l’immagine del Financial Times (fig.1) che mette assieme due personaggi apparsi quasi inaspettatamente alla ribalta nel giro di pochi giorni.

JD Vance scelto a sorpresa da Trump come candidato vicepresidente, nel momento in cui si sentiva sicuro della vittoria su Biden, e Kamala Harris estremamente veloce nell’impadronirsi della scena dopo l’abbandono di Joe Biden e quasi certa candidata democratica alla presidenza.

Fonte immagine: JD Vance and Kamala Harris scramble US dealmakers’ election strategies

Le posizioni di JD Vance in tema di politiche antitrust

L’immagine domina un articolo del 25 luglio che nel sottotitolo – “Bipartisan realignment of antitrust stance shakes up corporate expectations of Republicans and Democrats” (Il riallineamento bipartisan della posizione dell’antitrust scuote le aspettative aziendali di repubblicani e democratici, ndr) – evidenzia la sorpresa del mondo bancario-finanziario di trovarsi davanti a uno scenario inedito, in cui il tradizionale atteggiamento “business-friendly” dei repubblicani appare sostituito (nelle parole di Vance non contraddette da Trump durante la convention repubblicana) da una sorta di populismo anticapitalista, che hanno fatto definire da alcuni JD Vance come “the rightwing alter ego of Bernie Sanders (l’esponente più famoso dell’estrema sinistra democratica)”.

Un JD Vance che pochi mesi fa, in un incontro organizzato da “Bloomberg technology”, aveva espresso il suo apprezzamento per Lina Khan, la più acerrima nemica delle Big Tech posta nel 2021 da Biden a capo della Federal Trade Commission per venire incontro alle richieste della sinistra estrema democratica del duo Warren-Sanders, come “one of the few people in the Biden administration that I think is doing a pretty good job” (una delle poche persone nell’amministrazione Biden che, a mio avviso, sta facendo un buon lavoro, ndr).

Un JD Vance che potrebbe passare “da capitan futuro a palla al piede” per Trump – è l’opinione di Massimo Gaggi sul Corriere – trovandosi Kamala Harris come avversaria da fronteggiare: una Harris di cui peraltro si sta cercando di capire i programmi futuri scrutando il suo passato, in assenza di scelte esplicite che ella probabilmente comunicherà solo nel momento della sua designazione formale a candidata (significativa a questo proposito la vignetta di The Economist riportata in Fig. 2).

Immagine che contiene vestiti, testo, persona, calzatureDescrizione generata automaticamente Fonte immagine: What identity politics will Kamala Harris practise? – The lessons of Barack Obama, Donald Trump, J.D. Vance and Hillary Clinton

L’approccio di Harris e Vance ai temi tech: regolamentazione IA e startup

Le posizioni in tema di politiche antitrust, in relazione soprattutto alle Big Tech, rappresentano una componente di grande rilievo – ma non certo l’unica – dei programmi presidenziali in competizione fra loro nei riguardi del mondo tech.

Un tema oggetto di forte dibattito, di cui Kamala Harris si è occupata nella veste (su totale delega di Biden) di “AI czar”, è quello della regolamentazione più o meno stretta dell’Intelligenza Artificiale: dove essa ha tenuto un atteggiamento in linea con la tradizione statunitense, che – a differenza di quella UE – privilegia le potenzialità di innovazione rispetto alla fissazione a priori di regole rigide che possano penalizzarla.

Un altro tema, per certi versi speculare rispetto a quello delle Big Tech, riguarda i trattamenti di favore o meno nei riguardi delle tech startup (e delle startup in generale), e conseguentemente alle loro spalle delle imprese operanti nel VC-Venture Capital: un mondo molto amato da JD Vance, che ha operato per 5 anni nel comparto prima di intraprendere la sua carriera politica (lanciato in essa dal famoso Peter Thiel, cofondatore di PayPal e Palantir e primo investitore esterno in Facebook) e che ha visto – dopo la sua designazione nel ticket presidenziale – diversi grandi operatori di VC, a partire da Marc Andreessen (cofondatore di Andreessen Horovitz), abbandonare la tradizionale fede democratica per passare nel campo repubblicano.

Vi è poi tutto il mondo delle criptovalute e della blockchain, che era stato visto molto negativamente dalla prima presidenza Trump, che ora gode il favore di Trump stesso e di JD Vance (nel suo caso anche in funzione della molteplicità di startup che potrebbero nascere a fronte di un atteggiamento più favorevole).

L’influenza delle posizioni tech sull’elettorato

Una domanda più che legittima, io credo, riguarda l’impatto reale che le posizioni – più o meno in contrasto fra loro – che verranno assunte sulle diverse tematiche tech potranno avere sulle scelte dell’elettorato, in assoluto e rispetto ad altre tematiche. Rispetto alle tematiche ambientali, ad esempio, dove la contrapposizione è fortissima fra un Trump che vuole di nuovo abbandonare gli accordi di Parigi e gli impegni presi in sede internazionale e una Kamala Harris considerata più “ambientalista” di Biden.

Rispetto alle due tematiche scelte come fondamentali da Trump nel suo attacco a Biden: l’immigrazione, dove Kamala Harris sarà più esposta alle critiche per i modesti risultati ottenuti come delegata di Biden, e il costo della vita, del cui aumento Trump accusa le politiche poste in atto da Biden: che non è riuscito durante la campagna elettorale a farsi riconoscere i meriti di una crescita economica consistente superiore alle attese (+ 2,8% nel secondo semestre), che fa dire a The New York Times – con una enfasi che probabilmente riflette anche la storica vicinanza ai democratici – che “2025 Could Be a Great Time to Be President, Economically Speaking – Trends already underway make for a sunny outlook over the next few years. The question is who will get to take credit” (Il 2025 potrebbe essere un ottimo momento per essere presidente, dal punto di vista economico – Le tendenze già in atto lasciano presagire prospettive soleggiate per i prossimi anni. La domanda è chi si prenderà il merito”, ndr).

Finanziamenti e supporto delle tech companies alle campagne elettorali

Io credo, ed è forse non molto originale dirlo, che l’impatto diretto sul voto delle posizioni assunte dalle due parti sulle tematiche tech sarà molto modesto, in termini assoluti e in relazione ad altre tematiche quali quelle citate. Credo viceversa che non sarà trascurabile l’impatto indiretto: sui finanziamenti che verranno erogati ai due candidati e sull’aiuto che le imprese tech e quelle finanziarie a esse più interessate potranno dare ai candidati stessi, attraverso i media (dai giornali ai social) che controllano o su cui comunque hanno una influenza significativa.

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