I laureati europei che si sono trasferiti negli anni Novanta in America hanno lasciato le università europee, per ottenere una retribuzione accademica più generosa, perfino rispetto alla Germania, e lavorare in dipartimenti universitari molto efficienti ed organizzati e aspirare a una carriera ricca di soddisfazione in ambienti aperti e intellettualmente stimolanti.
Ma ciò che apprezzavano maggiormente era l’atteggiamento open mind. In quei campus avevano la percezione di essere i benvenuti. E soprattutto di entrare a far parte di una comunità locale ma allo stesso tempo internazionale, diventando prima docenti in una università statunitense e poi ottenendo la naturalizzazione.
E’ su queste dinamiche che gli Stati Uniti sono diventati l’epicentro della scienza e innovazione mondiale. Fondamenta, a loro volta, della potenza economica americana: secondo vari studi ogni dollaro pubblico investito in scienza si è tradotto in cinque dollari di pil.
Internet poteva nascere solo lì. Idem l’intelligenza artificiale. E le relative big tech.
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La fuga di talenti dagli USA
Da aprile, però, tutto questo sta cambiando: è iniziata una pericolosa fuga di talenti per gli Usa. Molti accademici hanno dato le dimissioni scegliendo università anglosassoni. Ad innescare questa fuga di cervelli è stata la rielezione di Donald Trump a presidente.
“Penso che gli Stati Uniti perderanno sicuramente una parte dei loro ricercatori e avranno un fenomeno più ampio di fuga di cervelli nel mondo accademico”, commenta ad AgendaDigitale.eu Alec Ross, Distinguished Adjunct Professor, Bologna Business School: “La domanda è: in che misura? Tra i tanti errori dell’amministrazione Trump, questo è tra i più gravi”.
Secondo l’Economist, pochi finora si sono trasferiti all’estero, ma i dati suggeriscono che presto potrebbe iniziare un esodo dagli Usa.
Ma, secondo Carlo Alberto Carnevale Maffè, Associate Professor of Practice di Strategy and Entrepreneurship presso SDA Bocconi School of Management, “per l’Italia e l’Europa, questo scenario offre un’occasione storica per invertire il tradizionale ‘brain drain’ verso gli Stati Uniti”.
Fuga talenti Usa: i dati Nature
Springer Nature pubblica Nature, la più prestigiosa rivista scientifica del mondo. Gestisce anche un’agenzia di lavoro molto utilizzata dagli accademici.
Nei primi tre mesi dell’anno le richieste professionali da parte dei ricercatori americani per lavorare in altri Paesi sono aumentate del 32% rispetto allo stesso periodo del 2024.
“L’interferenza dell’amministrazione Trump con la libertà di insegnamento, caratterizzata da tagli draconiani alla ricerca scientifica, revoca di visti per ricercatori e attacchi mirati a istituzioni accademiche come Harvard, rappresenta un ‘errore gigantesco’ che rischia di innescare una fuga di talenti senza precedenti dagli Stati Uniti”, spiega Carlo Alberto Carnevale Maffè.
A marzo la stessa Nature ha condotto un sondaggio su oltre 1.200 ricercatori di istituzioni americane, di cui il 75% ha dichiarato di assaporare il pensiero di andarsene (anche se gli accademici scontenti erano probabilmente più propensi a rispondere al sondaggio rispetto a quelli soddisfatti).
E, proprio mentre i ricercatori americani guardano all’addio agli Usa, gli stranieri stanno diventando sempre più riluttanti a trasferirsi. I dati di Springer Nature suggeriscono le candidature a posti di ricerca americani sono diminuite di circa il 25% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
La potenza scientifica americana in numeri
Ecco alcuni numeri e indicatori chiave che rappresentano la potenza scientifica degli Stati Uniti:
1. Spesa in ricerca e sviluppo (R&S)
Oltre 800 miliardi di dollari annui in R&S (dati 2023, fonte: National Science Foundation).
Gli Stati Uniti rappresentano circa il 27% della spesa mondiale in R&S.
2. Premi Nobel
Circa 400 vincitori di Premi Nobel in discipline scientifiche (fisica, chimica, medicina), più di qualsiasi altro paese.
Circa il 40% di tutti i Nobel scientifici sono stati assegnati a ricercatori statunitensi o affiliati a istituzioni statunitensi.
3. Università d’élite
Tra le top 10 università mondiali, 7–8 sono americane (Harvard, MIT, Stanford, Caltech, ecc.).
Il MIT è spesso classificato come la prima università al mondo in ambito scientifico e tecnologico.
4. Pubblicazioni scientifiche
Gli USA sono tra i primi due paesi al mondo per numero di articoli scientifici pubblicati ogni anno (assieme alla Cina).
Oltre 400.000 pubblicazioni scientifiche l’anno (fonte: Scopus/Web of Science).
5. Brevetti
Circa il 20% dei brevetti globali è registrato da aziende o inventori statunitensi (dati WIPO e USPTO).
Le aziende americane dominano settori chiave come l’intelligenza artificiale, il biotech, i semiconduttori e l’aerospazio.
Ritorno sull’investimento in ricerca pubblica
Stime comuni indicano che ogni $1 investito in ricerca scientifica pubblica genera tra $3 e $8 in crescita economica nel lungo periodo.
– Una media prudente e spesso citata è $5 di ritorno in PIL per ogni dollaro pubblico investito.
National Institutes of Health (NIH): secondo uno studio del United for Medical Research, ogni $1 investito dal NIH genera oltre $2,60 solo in attività economica diretta, senza considerare gli effetti indiretti (brevetti, startup, lavoro qualificato).
U.S. National Bureau of Economic Research (NBER): ha stimato che la spesa pubblica in R&S ha un moltiplicatore di almeno 4x sul PIL, con effetti che si accumulano nel tempo.
Esempi sui ritorni
Internet, GPS, mRNA: tecnologie nate da investimenti pubblici (DARPA, NIH, NASA).
– Lo Human Genome Project, costato 3,8 miliardi di dollari pubblici, ha generato un impatto economico stimato di oltre 1.000 miliardi di dollari nei 15 anni successivi (rapporto Battelle, 2013).
Ogni $10 milioni investiti in università pubbliche di ricerca generano oltre 100 posti di lavoro diretti e indiretti, secondo l’American Economic Association.
La motosega di Trump (impugnata inizialmente da Elon Musk, che recentemente si è dimesso dal dipartimento del Doge) che sta falcidiando la scienza americana, le borse di studio, provocando la revoca di visti ai ricercatori e pianificando enormi tagli ai maggiori finanziatori della ricerca del Paese, ha avviato una “guerra alla scienza”.
Ma “una parte del segreto del successo degli Stati Uniti è sempre stata la presenza di accademici di livello mondiale. Trump ha creato le condizioni che mettono tutto questo a serio rischio”, mette in guardia il professor Alec Ross, che, durante l’amministrazione Obama, ha ricoperto il ruolo di consulente senior per l’innovazione del Segretario di Stato.
L’inasprimento dello scenario che si osserva, inoltre, intacca proprio le fondamenta del sistema accademico. Le ricerche di dottori di ricerca americani su FindAphd, ad aprile, sono calate del 40% rispetto all’anno precedente.
L’interesse degli studenti europei si è dimezzato. I dati di Studyportals mostrano un interesse più tiepido per i dottorati nazionali tra gli americani, e un’impennata d’interesse verso le borse di studio internazionali rispetto al 2024.
I tagli alla scienza aprono praterie ai concorrenti
L’America sta perdendo smalto. Il fascino che ha emanato fin dal Progetto Manhattan quando attrasse i migliori fisici europei e tedeschi, i fondatori della fisica quantisca, in fuga dal nazismo.
La ragione più semplice, per cui, da ombelico della ricerca scientifica, l’America sta perdendo attrattività, è il denaro, o la sua incombente mancanza. L’amministrazione di Trump ha tagliato migliaia di sovvenzioni per la ricerca da gennaio, quando si è insediato.
Solo Grant Watch calcola che almeno 2,5 miliardi di dollari sono stati revocati finora, lasciando i ricercatori senza stipendio e senza la possibilità di pagare le spese. Ma tagli più draconiani potrebbero essere in arrivo. Il bilancio della Casa Bianca per il 2026 punta a tagliare le spese per la scienza.
Il National Institutes of Health (Nih), il più grande finanziatore mondiale della ricerca biomedica, rischia una riduzione di budget che sfiora il 40%. La Fondazione nazionale della scienza potrebbe perdere fino al 52%.
Questi tagli richiedono l’approvazione da parte del Congresso. Ma se il bilancio riceverà semaforo verde, l’Economist calcola che più di 80.000 ricercatori potrebbero perdere i loro posti di lavoro. I finanziamenti americani per la scienza accademica si ridurrebbero, portando gli Usa a livelli inferiori a Cina o Unione Europea, dopo l’aggiustamento dei costi.
La guerra ad Harvard e alle Ivy League fa da sfondo all’esodo
I finanziamenti non sono l’unico problema. Molti scienziati, soprattutto i cittadini di altri Paesi, cominciano a sentirsi intimiditi. Nei primi quattro mesi dell’anno, almeno 1.800 studenti o neolaureati internazionali si sono visti revocare il visto senza spiegazioni, per poi vederselo ripristinare ad aprile.
Gli scienziati senior riferiscono di incontrare difficoltà ad ottenere i visti per i ricercatori in arrivo e hanno consigliato ai giovani colleghi d’oltreoceano di non tornare a casa, per evitare di essere trattenuti al loro al loro ritorno. Infatti è possibile vedersi negare il visto per post sui social media pro Gaza od altri temi considerati controversi dall’amministrazione Trump.
Altri studiosi sostengono che il governo si stia intromettendo nelle loro ricerche.
Il caso del ricercatore del Nih
Kevin Hall, un ricercatore del Nih, si è dimesso in aprile dopo due incidenti di questo tipo. In primo luogo, ha dichiarato che il Nih gli ha chiesto di modificare una sezione di un di un documento che parlava di “equità nella salute” (“equità” è una parola impopolare tra i sostenitori di Trump, la cui amministrazione, impegnata nella guerra alle politiche DEI, ha stilato una lista di vocaboli proibiti).
Successivamente il dottor Hall ha pubblicato uno studio che dimostra che i cibi ultra-processati non attivano nel cervello le stesse vie di dipendenza nel cervello come le droghe, contraddicendo le opinioni dei funzionari dell’amministrazione.. Il dottor Hall sostiene che il NIH abbia modificato le sue risposte a un giornalista, senza la sua approvazione, per sminuire le sue scoperte. (Il
Nih ha dichiarato all’Economist di non rispondere alle false accuse da parte di ex dipendenti, ma le denunce descrivono comunque un clima antiscientifico e ricattatorio, nella disegnazione dei fondi, instaurato dall’amministrazione Trump).
Le università straniere a caccia dei talenti in fuga dagli Usa
Alcuni altri Paesi intravedono in tutto questo un’opportunità per rafforzare le loro proprie capacità scientifiche, a partire dal Canada, dove le elezioni hanno visto trionfare il candidato inviso a Trump che invece vorrebbe annettersi il Paese nord americano che fa parte del Commonwealth. Diverse università canadesi, tra cui l’University Health Network di Toronto e l’Università Laval del Quebec, hanno annunciato finanziamenti per decine di milioni di dollari esplicitamente finalizzati a dirottare i ricercatori dall’America.
Il 5 maggio scorso Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ha tenuto un discorso a Parigi in cui, accanto al Presidente francese Macron, ha esortato gli scienziati a “scegliere l’Europa”, mettendo in evidenza nuovi fondi e la rete di sicurezza sociale dell’Eurozona.
L’Università di Helsinki sta bersagliando gli americani con annunci pubblicitari sui social media, promettendo loro “libertà di pensiero”. Come se fosse l’Olanda di Erasmo da Rotterdam e la Repubblica di Venezia dove si pubblicavano i libri proibiti dalla Chiesa.
Ma non ci sono solo le democrazie liberali a cercare di dirottare nei propri centri di ricerca la fuga di talenti dagli Usa, ma anche la Cina. Dittatura sì, ma con università in ascesa, non solo per i finanziamenti, ma anche per le ambizioni imperiali dell’autocrate Xi Jinping, non a caso ingegnere e la cui figlia ha studiato ad Harvard.
Le sirene cinesi
La Cina sarà probabilmente un altro beneficiario della fuga dei talenti dagli Usa. Secondo il South China Morning Post, il Paese sta raddoppiando gli sforzi per attirare gli scienziati di origine cinese dall’America offrendo stipendi elevati.
Tra il 2019 e il 2022, è raddoppiata la quota di ricercatori di intelligenza artificiale non nativi del Paese che hanno lasciato l’America per la Cina dopo il dottorato, passando dal 4% all’8%.
Tuttavia “la Cina non vincerà in un senso binario e rigido di vincitore e sconfitto, perché riuscirà a ri-attrarre soltanto i propri ricercatori. I ricercatori non cinesi, per una miriade di ragioni, non vorranno lavorare in Cina”, avverte Alec Ross: “Beneficeranno del fatto che molti dei loro scienziati saranno costretti a passare dalle istituzioni americane a quelle cinesi. Quindi sì, c’è un miglioramento per la Cina che avviene direttamente a scapito degli Stati Uniti, ma sarebbe una semplificazione eccessiva e non del tutto corretta definirli i vincitori della partita”.
I dati di Springer Nature suggeriscono che nel primo trimestre di quest’anno le richieste di lavoro in Cina da parte di scienziati con base in America sono balzate del 20% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Tuttavia, in questo contesto, l’Europa ha molto da dire e soprattutto è in grado di sfidare la concorrenza della Cina. “La libertà di insegnamento e ricerca è un valore cardine del sistema universitario europeo, codificato in documenti come la Magna Charta Universitatum, firmata a Bologna nel 1988, che sottolinea l’autonomia delle università e la libertà accademica come presupposti per il progresso scientifico e culturale”, evidenzia il professor Carnevale Maffè.
La fuga dei talenti dagli Usa: un’opportunità per l’Europa, se passa dal dire al fare
Dal 1901 gli Usa si sono aggiudicati il 55% dei Premi Nobel. Ma un terzo dei premi Nobel, con base in America, è nato fuori dagli Usa. Un numero enorme di brevetti parla lingue straniere. Secondo il think tank Paulson Institute, due terzi dei ricercatori migliori nell’AI proviene da oltreoceano.
“In teoria, l’Europa potrebbe attrarre una quantità molto significativa di talenti della ricerca dagli Stati Uniti, ma questo richiede più azione che retorica. E i decisori politici europei, negli ultimi trent’anni, sono stati molto più efficaci nei discorsi e nell’emanare regolamenti che nel creare nuovi programmi e generare investimenti“, sottolinea Alec Ross.
Una grande fuga di talenti frenerebbe la ricerca statunitense, facendo guadagnare altri Paesi e impoverendo gli Usa.
“Per l’Italia e l’Europa, questo scenario offre un’occasione storica per invertire il tradizionale ‘brain drain’ verso gli Stati Uniti, rafforzando il proprio
sistema scientifico e riaffermando il ruolo del continente come baluardo della libertà accademica. L’iniziativa ‘Choose Europe for Science’ è un passo nella giusta direzione, ma richiede un impegno coordinato per superare le barriere strutturali e attrarre i migliori talenti“, avverte Carlo Alberto Carnevale Maffè.
“Investire nella scienza non significa solo accogliere ricercatori, ma costruire un futuro in cui l’Europa possa competere con le potenze globali, promuovendo innovazione e progresso per l’umanità intera”, mette in guardia il professor Carnevale Maffè: “In questo contesto, l’iniziativa ‘Choose Europe for Science, lanciata da Ursula von der Leyen e Emmanuel Macron alla Sorbona di Parigi, rappresenta una importante risposta strategica. Con un investimento di 500 milioni di euro per il 2025-2027, l’Unione Europea si propone di attrarre ricercatori americani e internazionali, offrendo incentivi finanziari, contratti a lungo termine, meno burocrazia e una garanzia legale della libertà di ricerca”.
Fuga talenti Usa: prospettive future per l’Italia e l’Europa
“Per l’Italia, questa iniziativa offre l’opportunità di rafforzare il proprio sistema universitario, che, nonostante le croniche carenze di finanziamenti, vanta eccellenze riconosciute a livello internazionale in settori come la fisica, la medicina e l’intelligenza artificiale“, evidenzia Carlo Alberto Carnevale Maffè.
Ma per attrarre talenti in fuga non bastano gli investimenti, anche se i 500 milioni offerti dalla Ue impallidiscono di fronte ai 40 miliardi di dollari Usa. Bisogna anche affrontare sfide strutturali.
“L’iniziativa europea non si limita a un’opportunità economica, ma si configura come una difesa dei valori democratici e universali della scienza. Come sottolineato da von der Leyen, ‘la scienza è un investimento’ e la diversità è ‘il sangue vitale della scienza’”, continua Carlo Alberto Carnevale Maffè.
“L’Europa, con il suo impegno per la libertà accademica e la collaborazione internazionale, si propone come un ‘porto sicuro’ per i ricercatori, contrastando il clima di repressione negli Stati Uniti. Tuttavia, per cogliere pienamente questa opportunità, l’Europa, e l’Italia in particolare, devono affrontare alcune sfide strutturali: i salari dei ricercatori europei sono spesso inferiori rispetto a quelli americani, e la burocrazia può rappresentare un ostacolo per i nuovi arrivati.
Il successo dipenderà dalla capacità delle università di punta di creare reti competitive con i migliori ricercatori globali, se non si vuole ‘regalarli’ all’altro grande competitor nel mercato dei talenti: la Cina“, conclude il prof. Carnevale Maffè.
“Finora, il governo Macron è stato il più efficace nel posizionare la Francia come destinazione per i ricercatori. Se fossi un ministro, farei un’enorme campagna per riportare i ricercatori nel mio Paese. Solo per l’Italia si stima che ci siano circa 120 cittadini italiani di altissimo livello che lavorano come ricercatori in istituzioni americane. Questi 120 sono tra i migliori al mondo“, mette in evidenza Alec Ross: “E poi ce ne sono centinaia di altri al secondo livello. Il valore di riportarli in Italia sarebbe enorme, ma servono azioni concrete, passi tangibili e un impegno anche individuale, uno a uno, con questi ricercatori. Se ci sarà questo tipo di disciplina e concentrazione, allora sì, si potranno riportare in Italia. Altrimenti sarà un’altra occasione persa“.