L’emergenza pandemica e il massiccio ricorso allo smart working hanno indubbiamente trasformato radicalmente il mondo del lavoro in Italia. Ma Con la fine del regime emergenziale e il ritorno alla disciplina ordinaria, l’accesso al lavoro agile per i soggetti fragili è tornato a dipendere da logiche contrattuali. Tuttavia, nuovi orientamenti della Corte di Cassazione offrono prospettive differenti, mettendo al centro la disabilità come elemento fondante di un diritto alla flessibilità.
Indice degli argomenti
Smart working: dall’emergenza alla normalità
Lo smart working o lavoro Agile, infatti, fino al 2020 era una pratica limitata a pochi settori e a sperimentazioni marginali. A seguito dell’adozione delle normative per fronteggiare l’emergenza sanitaria, il lavoro da remoto è diventato in pochi mesi lo strumento centrale per garantire la continuità operativa di imprese e pubbliche amministrazioni.
In particolare, il D.L. 19 maggio 2020, n. 34, ha introdotto un regime semplificato per il lavoro agile, sospendendo l’obbligo dell’accordo individuale previsto dalla normativa ordinaria (Legge n. 81/2017) e consentendone l’adozione anche in assenza di specifici accordi tra datore di lavoro e dipendente.
In questa cornice straordinaria, lo smart working ha assunto anche una valenza sociale: è stato usato per tutelare lavoratori fragili, persone con disabilità, e genitori di figli under 14 o con disabilità. Con la fine dell’emergenza pandemica, tuttavia, questo regime eccezionale è stato progressivamente demolito, fino alla sua cessazione definitiva per il settore privato il 31 marzo 2024.
La fine del regime agevolato riporta in primo piano il problema dell’accesso allo smart working per le categorie più fragili. Per le persone con disabilità, infatti, il ritorno all’obbligo di accordo individuale può rappresentare innegabilmente un ostacolo. È in questo contesto che si inserisce la sentenza n. 605 del 10 gennaio 2025, adottata dalla Corte di Cassazione, che apre nuovi scenari: il lavoro agile come misura di accomodamento ragionevole, anche in assenza di accordo. Un principio che rafforza, quindi, l’inclusione lavorativa dei lavoratori fragili e con disabilità, e impone nuove riflessioni sull’equilibrio tra flessibilità organizzativa e diritti individuali.
Evoluzione normativa dello smart working
Lo smart working in Italia è stato formalmente introdotto con la Legge 22 maggio 2017, n. 81, che lo definisce come una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzata dall’assenza di vincoli orari o spaziali e organizzata per fasi, cicli e obiettivi. La legge sul lavoro agile, inoltre, stabilisce lo stesso può essere attivato solo previo accordo individuale tra datore e dipendente, nel quale devono essere disciplinati aspetti fondamentali come strumenti utilizzati, diritto alla disconnessione, forme di controllo, durata e recesso, garantendo parità di trattamento economico e normativo.
Questo modello, inizialmente adottato solo da una minoranza di imprese, è stato radicalmente superato in fase emergenziale con l’arrivo dell’epidemia da Covid-19. Il D.L. n. 34/2020 ha, infatti, sospeso l’obbligo dell’accordo individuale per consentire l’adozione del lavoro agile in maniera automatica e semplificata. Successivamente, questo regime speciale è stato esteso più volte e ha riguardato sia il settore pubblico sia quello privato, in particolare per categorie considerate vulnerabili: genitori di figli minori di 14 anni, genitori di figli con disabilità, e lavoratori definiti fragili per condizioni di salute che li esponevano a rischi di salute maggiori in caso di contagio.
Tale regime agevolato ha rappresentato un’eccezione temporanea al sistema ordinario. Con la fine dello stato di emergenza, e in assenza di riforme legislative definitive, si è progressivamente tornati al modello previsto dalla Legge 81/2017. Il c.d. Decreto Anticipi (Legge n. 191/2023) ha, infatti, esteso l’applicabilità del lavoro agile semplificato ai soli lavoratori del settore privato fino al 31 marzo 2024, escludendo i dipendenti pubblici già dal gennaio dello stesso anno. Dal 1° aprile 2024, anche per i lavoratori fragili e per i genitori rientranti nelle categorie protette sopra menzionate, l’accesso allo smart working è nuovamente subordinato alla sottoscrizione di un accordo individuale.
Questa transizione ha riportato in evidenza le criticità della normativa ordinaria, che non prevede automatismi per garantire il lavoro agile a chi ne ha necessità per motivi di salute o familiari. La rigidità del sistema espone a margini di discrezionalità del datore di lavoro e può trasformarsi in un ostacolo all’inclusione lavorativa, oltre a non garantire un trattamento equo e non discriminatorio. È su questo punto che si innesta il dibattito attuale, alimentato anche dagli sviluppi giurisprudenziali più recenti.
Smart working e disabilità: il quadro normativo
Il diritto al lavoro delle persone con disabilità è tutelato da un insieme articolato di fonti, che vanno dalla normativa nazionale fino ai trattati internazionali. In particolare, nel nostro Paese la Legge n. 104/1992 rappresenta il pilastro per il riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità, sancendo il principio di integrazione lavorativa come strumento di partecipazione sociale e autonomia personale. A livello internazionale, invece, la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità – ratificata dall’Italia nel 2009 – obbliga gli Stati a garantire “accomodamenti ragionevoli” per assicurare la piena uguaglianza delle persone nell’ambito lavorativo.
Accomodamento ragionevole e smart working per i disabili
Più nel dettaglio, per accomodamento ragionevole si intende qualsiasi modifica o adattamento necessario e appropriato dell’ambiente di lavoro o dell’organizzazione del lavoro, che non comporti un onere sproporzionato per il datore, ma permetta alla persona con disabilità di svolgere la propria attività in condizioni di equità. Questo principio è richiamato anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 26) e nella direttiva europea 2000/78/CE, che vieta ogni forma di discriminazione basata sulla disabilità nel contesto lavorativo, stabilendo un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizione di lavoro.
Nonostante questi riferimenti normativi, tuttavia, in Italia l’applicazione dell’accomodamento ragionevole è stata spesso frammentata. Lo smart working, per esempio, non è mai stato esplicitamente identificato come una misura di accomodamento nella normativa nazionale. Il suo riconoscimento come strumento di inclusione per lavoratori con disabilità è avvenuto più che altro in via indiretta, durante il periodo emergenziale, in cui la deroga all’accordo individuale ha consentito di superare alcune rigidità formali.
Con il ritorno al regime ordinario, il rischio è che l’accesso al lavoro agile per motivi legati alla disabilità torni ad essere soggetto alla mera discrezionalità del datore di lavoro, piuttosto che essere considerato un diritto del lavoratore. Ed è proprio su questo aspetto che si è pronunciata la Corte di Cassazione, stabilendo un principio che può cambiare il paradigma interpretativo.
La sentenza cassazione 605/2025 e i suoi effetti giuridici su smart working e disabilità
Con la sentenza n. 605 del 10 gennaio 2025, la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta in modo decisivo sul tema del lavoro agile per i lavoratori con disabilità, stabilendo che lo smart working può costituire una misura di accomodamento ragionevole anche in assenza di accordo individuale. Tale statuizione rappresenta un passaggio rilevante, in quanto per la prima volta viene riconosciuto in modo esplicito che il diritto alla flessibilità organizzativa può derivare direttamente dalla condizione del lavoratore e non solo dalla volontà o dalla necessità del datore di lavoro.
Il caso oggetto della pronuncia ha riguardato un lavoratore con disabilità, la cui richiesta di svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile era stata respinta dall’azienda, che si era appellata all’assenza di un accordo formale come previsto dalla legge. Il lavoratore si è quindi rivolto al Giudice, sostenendo che lo smart working fosse l’unico strumento utile a garantire la continuità della sua attività lavorativa, nel rispetto della sua condizione personale.
La Corte ha accolto questa impostazione, richiamando il principio degli accomodamenti ragionevoli sancito dalla Convenzione ONU, nonché dall’art. 5 della Direttiva europea n. 2000/78/CE riguardante il principio sulla parità del trattamento, e sottolineando che la disabilità non può costituire motivo di svantaggio nell’accesso o nella permanenza nel lavoro. In questo senso, il lavoro da remoto può rappresentare un mezzo idoneo a rimuovere gli ostacoli, e potrebbe non essere ammessa solo se il datore di lavoro riuscisse a provare che tale soluzione comporti oneri finanziari sproporzionati.
Con tale pronuncia, la Suprema Corte ha, inoltre, stabilito che, negare la modalità, in presenza di un lavoratore con disabilità disabile, nei casi in cui sia compatibile con le mansioni e non comporti un aggravio sproporzionato per l’organizzazione aziendale, costituisce una forma indiretta di discriminazione. Pertanto, in questi casi, il Giudice può ordinare l’attivazione dello smart working anche in mancanza di accordo tra le parti, superando in questo modo la rigidità imposta dalla Legge n. 81/2017.
Verso un riconoscimento strutturale del lavoro agile inclusivo
La sentenza n. 605/2025 adottata dalla Corte di Cassazione rappresenta senza dubbio un punto di svolta nel riconoscimento del lavoro agile come strumento di inclusione e tutela dei diritti delle persone con disabilità. Introduce, infatti, un principio che ha il potenziale di orientare le politiche future all’interno delle aziende. In quest’ottica, infatti, lo smart working non rappresenta più solo una concessione del datore di lavoro, ma può diventare un diritto del lavoratore in condizioni di fragilità.
La pronuncia si inserisce in un contesto normativo ancora sbilanciato, dove la flessibilità organizzativa non sempre si traduce in equità e parità di trattamento. Il ritorno al regime ordinario previsto dalla Legge n. 81/2017, con l’obbligo di accordo individuale, rischia di escludere proprio chi avrebbe più bisogno di soluzioni lavorative flessibili ed adattabili alla singola situazione personale del lavoratore. In questo scenario, il riconoscimento giurisprudenziale dello smart working come accomodamento ragionevole offre un correttivo concreto, richiamando datori di lavoro e pubbliche amministrazioni alle proprie responsabilità.
Tale provvedimento rappresenta certamente un passo in avanti, tuttavia mette alla luce la necessità di una riforma normativa che recepisca esplicitamente il principio affermato dalla Cassazione e lo traduca in regole chiare e vincolanti, capaci di garantire un trattamento equo e non discriminatorio per tutti i lavoratori. Il lavoro agile andrebbe, infatti, ripensato non come privilegio o soluzione emergenziale, ma come parte strutturale di un’organizzazione del lavoro più equa, flessibile e inclusiva.