Uno studio americano, pubblicato sul Journal of Medical Internet Research, ha messo nero su bianco un sospetto che serpeggia da tempo nei corridoi dei nostri ospedali e nelle sale d’attesa (quelle vere, non quelle virtuali): finita l’emergenza pandemica, l’entusiasmo per la telemedicina si è sgonfiato.
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La crisi della fiducia nella telemedicina
Eravamo tutti pionieri digitali per necessità, ma ora che possiamo di nuovo scegliere, molti pazienti – quasi la metà, secondo i dati – preferiscono la stretta di mano (o quasi) alla videochiamata.
Lo studio di Jiajia Qu, “Factors Affecting Patients’ Use of Telehealth Services”, ha il pregio di non fermarsi alla superficie, ma di scavare nelle ragioni di questo calo. E le risposte, a ben guardare, sono una sonora bocciatura non tanto per la tecnologia in sé, quanto per come l’abbiamo implementata e pensata.
La fiducia è una costruzione relazionale
Questo articolo utilizza i dati secondari del ciclo 6 dell’Health Information National Trends Survey, un sondaggio a livello nazionale su un dataset rappresentativo raccolto dal National Cancer Institute. Questo set di dati ha utilizzato un disegno sperimentale in modalità mista, con dati raccolti tra marzo e novembre 2022. L’indagine ha incluso 2 condizioni sperimentali: concomitanti (web e sondaggi cartacei offerti contemporaneamente) e sequenziali (sondaggi web offerti per primi, seguiti da quelli cartacei). Un totale di 6252 gli intervistati che hanno partecipato, con un tasso di risposta delle famiglie del 28,1% (6252/22.471).
Il punto centrale, il cuore di tutta la questione, è una parola tanto semplice quanto fragile: fiducia. Lo studio ci dice che la fiducia è il motore principale dell’adozione della telemedicina. Niente di nuovo, si dirà. La medicina è un atto di fiducia. Ma è nel “come” questa fiducia si costruisce o si demolisce che troviamo gli spunti più interessanti e anche più imbarazzanti.
Il paradosso del paziente informato
La ricerca evidenzia una relazione a “U rovesciata” tra la fiducia del paziente e la sua capacità di cercare informazioni online. Tradotto dal gergo accademico: se il paziente non sa usare Internet, non si fida perché si sente perso. Ma se è troppo abile, diventa scettico, iper-critico, quasi arrogante. Si fida di più delle sue ricerche che del medico. La fiducia massima si ottiene a un livello intermedio di competenza.
Cosa ci dice questo? Che la telemedicina non è un dialogo tra un computer e un utente, ma tra un medico e una persona che oggi arriva all’appuntamento (virtuale o fisico) con un bagaglio di informazioni (spesso disordinate) mai visto prima. Ignorare questo fatto, trattare il paziente come un vaso da riempire, è il primo passo per distruggere la fiducia. Il medico oggi deve essere anche una guida, un validatore, un “filtro di qualità” nel caos informativo del web. E questo, uno schermo, non lo facilita.
Comunicazione e fiducia nel contesto digitale
Altro fattore chiave per la fiducia: la comunicazione centrata sul paziente. In parole povere: saper ascoltare, dare tempo, usare un linguaggio comprensibile, far sentire la persona accolta. Lo studio conferma che dove c’è buona comunicazione, c’è più fiducia e quindi più propensione alla telemedicina.
L’amara verità è che la tecnologia non è una bacchetta magica. Un medico che comunica male in ambulatorio, comunicherà ancora peggio attraverso uno schermo. Anzi, il digitale amplifica i difetti: la fretta diventa impazienza, la distrazione diventa disinteresse, la mancanza di empatia diventa gelo. Abbiamo speso milioni in piattaforme e software, ma quanto abbiamo investito per insegnare ai nostri professionisti a comunicare efficacemente attraverso questi nuovi strumenti? La risposta, temo, è sconfortante.
La barriera dell’analfabetismo digitale e sanitario
Lo studio parla di “barriere di alfabetizzazione sanitaria”. Chiamiamole col loro nome: la difficoltà di capire il linguaggio medico e di usare gli strumenti digitali. Se un paziente fatica a comprendere una diagnosi o una terapia, la sua fiducia crolla. Se a questo si aggiunge l’ansia di dover usare un’app che non capisce, il risultato è l’abbandono.
Abbiamo creato sistemi di telemedicina pensati da ingegneri per persone giovani e sane, dimenticandoci che i principali utilizzatori del sistema sanitario sono anziani, fragili, spesso con bassi livelli di istruzione. Pretendere che si trasformino in maghi del digitale è una forma di violenza istituzionale. La soluzione non è fare più corsi di informatica per ottantenni, ma progettare sistemi così semplici e intuitivi da essere a prova di nonno.
La falsa promessa dell’equità digitale
Qui tocchiamo un nervo scoperto. Ci è stato raccontato che la telemedicina avrebbe abbattuto le barriere per le fasce deboli. Lo studio, con onestà, mostra un quadro ambiguo. È vero, chi ha problemi di trasporto la usa di più. Ma questa è solo una parte della storia. Che ne è del digital divide? Della mancanza di una connessione stabile? Della mancanza di uno spazio privato in casa per parlare col medico senza essere ascoltati da tutta la famiglia?
La tecnologia, se non governata, non è un equalizzatore. Rischia di creare nuove disuguaglianze, ancora più subdole. Risolviamo il problema del bus per l’anziano di montagna, ma ne creiamo uno nuovo per la famiglia che vive in un monolocale in periferia.
Telemedicina: mezzo, non fine
Conclusioni: la telemedicina non è la cura, è uno fonendoscopio più lungo! Cosa ci lascia, quindi, questo studio? Una lezione durissima. Il problema non è la telemedicina, ma l’idea che la tecnologia possa sostituire i fondamenti della cura. L’errore è stato pensare alla telemedicina come a un fine, e non come a un mezzo. Abbiamo feticizzato lo strumento, dimenticandoci della relazione. Abbiamo investito in hardware e software, trascurando il “fattore umano”.
La sfida, ora, non è convincere i pazienti a usare di più la telemedicina. È ripensare i processi, formare i medici, progettare sistemi inclusivi e, soprattutto, ricostruire quella fiducia che nessuna fibra ottica può trasportare da sola. La telemedicina non è la cura, è solo uno fonendoscopio più lungo. Se dall’altra parte non c’è un medico che sa ascoltare, che sa comunicare, che sa generare fiducia, allora sentiremo solo il fruscio della linea. E il paziente, giustamente, tornerà a cercare un medico in carne e ossa.
Questo articolo è stato scritto con il supporto delle ’IA, Google Gemini Pro e Microsoft Copilot, utilizzate per sintesi traduzioni ed approfondimenti












