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“U Are the Universe”: se l’IA nel cinema è fin troppo umana



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L’intelligenza artificiale nel cinema viene spesso antropomorfizzata, come in “U Are the Universe”. Le teorie di Luciano Floridi suggeriscono invece di considerare l’IA come agency senza intelligenza umana

Pubblicato il 12 mag 2025

Marco Ongaro

Cantautore, librettista, saggista



artificial-intelligence-IA cinema

Il film ucraino del 2024 U Are the Universe di Pavlo Ostrikov ha ricevuto quest’anno al Trieste Science+Fiction Festival il premio della giuria per la miglior opera prima, il premio del pubblico, quello assegnato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica e all’Extra Sci-Fi Festival di Verona il premio della giuria come miglior film.

L’intelligenza artificiale come compagna di viaggio nello spazio

Improntata a romanticismo di stampo slavo e tragicommedia, la pellicola annovera tra i pochissimi interpreti la figura di Maxim, un robot di bordo con un unico braccio meccanico la cui intelligenza è, come spesso accade, dedita alla salvaguardia della vita dell’unico viaggiatore su un cargo diretto a scaricare scorie nucleari sulla luna Callisto nell’orbita di Giove.

Andriy Melnyk è di fatto un camionista spaziale ucraino che guida il suo TIR galattico in un volo di routine. Per una procedura ritenuta svantaggiosa dalla compagnia per cui lavora, viene pure licenziato mentre è in viaggio, ma la notizia assume presto scarso rilievo nell’economia di un climax ben congegnato dall’abile sceneggiatore, che è il regista stesso. Importa poco la perdita del lavoro di fronte all’esplosione della Terra intera che viene a verificarsi di lì a poco per ragioni non meglio specificate. Ora il truck-driver è l’unico essere umano rimasto nella galassia, accompagnato dal Bot per nulla antropomorfo che si prende cura della sua dieta, del suo intrattenimento, del suo esercizio fisico, della sua sopravvivenza.

L’ultimo uomo e l’intelligenza artificiale di fronte alla fine

L’astronave viene inoltre danneggiata dalle schegge del mondo saltato in aria che in meno di ventiquattr’ore raggiungono Giove, prima che il camionista riesca a mettersi al riparo dietro la faccia oscura di Callisto. L’ultimo individuo di un universo antropocentrico viene a trovarsi così al cospetto di una fine abbastanza lenta e noiosa, scandita da conversazioni con la voce maschile dell’IA di bordo decisa a tenerlo in vita il più possibile ignorando il concetto terribilmente umano di solitudine.

Rappresentazioni dell’IA nel cinema di fantascienza

È a questo punto che il camionista capta un segnale da una stazione spaziale vicina a Saturno. È la bella voce di Catherine, donna francese unica sopravvissuta all’equipaggio della sua postazione orbitale. Il mito della ripopolazione dell’universo a opera dei nuovi Eva e Adamo prende immediatamente forma nella mente dello spettatore, molto prima che possa accarezzare l’immaginazione del ruvido trasportatore intergalattico di rifiuti radioattivi. L’Intelligenza Artificiale che lo intrattiene con freddure degne di un robot che fa dello spirito cita l’HAL 9000 di Odissea nello spazio, ormai impossibile da trascurare quale riferimento in qualsiasi opera che riguardi un uomo solo in un’astronave munita di super-computer di bordo, e fornisce una variazione sul tema della ribellione IA stavolta non motivandola con la sopravvivenza del Bot ma con quella dell’essere umano.

Il confine tra intelligenza artificiale e sentimenti umani

Quando Andriy, a rischio della vita, decide di congiungersi alla francesina abbandonata nell’orbita di Saturno, l’lA lo inganna nel tentativo di salvarlo, facendogli credere che la donna non fosse altro che l’IA della stazione spaziale preda di una crisi di solitudine. Il camionista ci metterà un po’ a rendersi conto che un’IA non può arrivare a tanto e, prima di disattivarlo, costringerà il Bot Maxim a confessare di aver mentito per dissuaderlo dall’intraprendere una missione romanticamente suicida.

Le differenze tra intelligenza artificiale e umana in letteratura

Senza svelare ciò che rimane della storia, quanto sopra basta a innescare qualche riflessione sulla tendenza squisitamente letteraria dei terrestri a concepire l’Intelligenza Artificiale come un’entità in tutto simile all’intelligenza umana, principalmente perché dotata di capacità di linguaggio e apprendimento. Siamo noi a pensarla simile, sebbene non possa esserlo se teniamo conto della complessità di ciò che si ritiene umanamente intelligente.

Intelligenza artificiale come agency senza intelligenza secondo Floridi

Particolarmente illuminante in tal senso è un articolo del filosofo Luciano Floridi, Yale University – Digital Ethics Center e Università di Bologna – Dipartimento di Studi Giuridici, pubblicato il 12 febbraio 2024, a proposito del dibattito sulla propensione a omologare e confondere differenti idee di intelligenza. «È ampiamente accettato» scrive Floridi «che molti animali siano intelligenti e c’è un senso non controverso, sebbene limitato e insignificante, in cui l’IA può essere considerata “intelligente”. Ad esempio, se l’intelligenza è definita come la capacità di eseguire calcoli o produrre testi coerenti, l’IA si qualifica in questo senso rudimentale. Questa prospettiva risale almeno a Hobbes, che equiparava il pensiero al calcolo (cioè, l’informatica). Tuttavia, il vero dibattito concettuale riguarda se l’IA possa essere classificata come intelligente in un senso più forte, equivalente all’intelligenza umana o addirittura superiore (cioè, intelligenza sovrumana)».

A tale proposito lo studioso postula l’idea di un’agency non intelligente in senso umano, intendendo probabilmente con agency uno dei sensi che il dizionario Cambridge ci dà, e cioè: “la capacità di agire o di scegliere quale azione intraprendere”. I termini del dilemma che Floridi cerca di sceverare vertono su «espandere la nostra attuale concezione di intelligenza per includerne le forme artificiali (la realizzabilità artificiale dell’intelligenza o tesi ARI), oppure espandere la nostra comprensione dell’azione per abbracciare più forme, incluse quelle artificiali che non richiedono cognizione, intelligenza, intenzione o stati mentali (la realizzabilità multipla dell’agency o tesi MRA)».

Suggerisce insomma di identificare le caratteristiche che definiscono l’IA come un nuovo tipo di agency, meglio intesa come una nuova forma di azione senza intelligenza. In tal modo si eviterebbero confusioni biologiche o antropomorfiche e si migliorerebbe la nostra comprensione delle caratteristiche distintive dell’Intelligenza Artificiale, offrendo una base più solida per affrontarne sfide e opportunità nello sviluppo futuro e il loro relativo impatto sociale.

La complessità dell’intelligenza umana contro la funzionalità dell’intelligenza artificiale

Per intenderci, un motore di ricerca è un agente artificiale che dal punto di vista dell’intelligenza umana è estremamente funzionale ma non certo ugualmente complesso. Ha rapidità e vasto campo di risposta agli stimoli ricevuti nell’interazione, ma non è in grado di decidere se gli piace di più un uovo sodo o uno alla coque. Risponde a criteri impostati e svolge la sua funzione molto più rapidamente e meglio di quanto farebbe un umano, ma lo si può definire per questo intelligente o addirittura superintelligente? O lo si può catalogare come una forma di agency/azione artificiale senza intelligenza? Per saperlo è necessario definire l’intelligenza umanamente intesa, quella naturale, costituita da innumerevoli fattori diversi, fondamentalmente lontana dall’idea di mera azione artificiale.

Il futuro della rappresentazione dell’intelligenza artificiale nel cinema

Tornando quindi al Bot di bordo del nostro camionista intergalattico ucraino, c’è fin troppa visionarietà sentimentale nella concezione di un compagno di viaggio che non è un vero compagno ma una serie di azioni programmate e scelte in base a un apprendimento prefigurato che gestisce e governa tutte le funzioni di un’astronave. Un’infinità di azioni selezionate e coordinate artificialmente cui l’uomo da solo non saprebbe far fronte, certo. Non per questo è lecito supporre che tale forma di Intelligenza possa spingersi non solo a salvaguardare la propria esistenza, com’era nel caso di HAL 9000, ma perfino a millantare la scelta umana, troppo umana, di fingersi un robot che si finge donna al fine di deludere un umano innamorato e farlo desistere dal suo progetto sentimentale autodistruttivo. Una agency che richiederebbe un pathos tutt’altro che artificiale, stimolante rielaborazione del topos del Robot ribelle che forse, come sembra suggerire Floridi, sarebbe ora di abbandonare per occuparci di questioni meno romantiche. Bello il film, meritevole di ulteriori premi, ma “fuor di fiction” sembra arrivato il momento di definire meglio l’idea di intelligenza umana, prima di attribuirne le caratteristiche a quella artificiale.

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