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Dispositivi gps sottocutanei per i condannati, quanti dubbi etici e giuridici



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L’ipotesi di impiantare dispositivi GPS sottocutanei nei soggetti condannati, emersa nel corso di un incontro tra aziende tecnologiche e il Segretario alla Giustizia del Regno Unito, ha suscitato un acceso dibattito pubblico e istituzionale

Pubblicato il 16 set 2025

Marco Martorana

Avvocato, Studio legale Martorana

Zakaria Sichi

Avvocato, Studio legale Martorana



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L’ipotesi di impianti sottocutanei per monitorare i condannati, emersa nel Regno Unito nel 2025, apre scenari inquietanti per il diritto penale contemporaneo. Il tema merita un’analisi critica tra diritti fondamentali e nuove tecnologie, mentre le Big Tech già assaporano nuove prospettive di business.

Dispositivi gps sottocutanei per i condannati, il caso del Regno Unito

Nel luglio 2025, il quotidiano britannico The Guardian ha rivelato i contenuti di un incontro tra il Segretario alla Giustizia del Regno Unito e alcuni rappresentanti di aziende tecnologiche globali, durante il quale è stata formulata una proposta che ha suscitato reazioni nette, sia sul piano politico che giuridico: l’impianto di dispositivi GPS sottocutanei ai soggetti condannati penalmente, al fine di garantire un monitoraggio costante dei loro movimenti.

Seppure presentata come una misura potenzialmente utile per alleggerire la pressione sul sistema penitenziario e migliorare il monitoraggio dei condannati, l’idea porta con sé implicazioni profonde e complesse, che toccano il cuore dello Stato di diritto.
Al crocevia tra tecnologie emergenti, diritto penale, protezione dei dati personali e diritti fondamentali, questa proposta impone una riflessione non solo sulla sua legittimità giuridica, ma anche sulla sua compatibilità con i valori costituzionali e con l’ordinamento sovranazionale europeo. L’introduzione di tecnologie invasive a fini repressivi solleva interrogativi cruciali: fino a che punto è lecito incidere sulla corporeità del soggetto condannato? Quali sono i limiti costituzionali e convenzionali alla materializzazione tecnologica del controllo penale? E quali dinamiche economiche e industriali rischiano di alimentarsi attorno a una simile riconfigurazione della pena?

Un’idea controversa: sicurezza pubblica o sorveglianza invasiva?

L’ipotesi si inserisce in una più ampia riflessione sul ricorso alla tecnologia per sopperire alle carenze del sistema penitenziario britannico, segnato da sovraffollamento, scarsità di personale e inefficienze sistemiche.         
L’idea, presentata come potenzialmente innovativa, è stata subito tacciata di “distopica” da diverse organizzazioni per i diritti digitali. Ed effettivamente, dietro l’apparente neutralità tecnologica, si nasconde una trasformazione radicale del paradigma punitivo moderno: dall’esecuzione della pena come privazione temporanea della libertà, al controllo permanente del corpo, anche al di fuori del perimetro carcerario. Il diritto penale, storicamente centrato sul principio di proporzionalità e sulla rieducazione del condannato, rischia così di cedere il passo a un modello securitario, dominato dall’ideologia del rischio e della sorveglianza preventiva.

Dalla pena alla geosorveglianza

L’attuale sistema di esecuzione penale nel Regno Unito prevede già il ricorso a tecnologie di monitoraggio elettronico. I cosiddetti electronic tags – braccialetti e cavigliere GPS o radiofrequenza – sono impiegati per soggetti in libertà vigilata, detenuti a fine pena o individui sottoposti a provvedimenti di restrizione domiciliare. L’uso di tali dispositivi è disciplinato da normative specifiche, tra cui il Criminal Justice Act 2003 e successive modifiche, e sottoposto a requisiti di necessità e proporzionalità.         

L’ipotesi di passare a un tracciamento endocorporeo, tramite impianti sottopelle, non trova invece al momento alcuna copertura normativa. L’adozione di una misura simile richiederebbe una legge primaria, discussa e approvata in Parlamento, che definisca con estrema precisione condizioni, limiti e garanzie. Qualsiasi tentativo di introdurre dispositivi invasivi per via regolamentare o ministeriale si scontrerebbe con i principi fondamentali della rule of law e con le disposizioni della Human Rights Act 1998, che recepisce nel diritto interno le garanzie della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Il corpo come spazio di resistenza: profili convenzionali e diritti inviolabili

La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) impone limiti chiari all’ingerenza degli Stati, anche in ambito penale. Tre articoli, in particolare, risulterebbero violati da un sistema di tracciamento sottocutaneo obbligatorio. L’Art. 3 CEDU sul divieto di trattamenti inumani o degradanti richiama il tema per cui l’imposizione forzata di un dispositivo sottocutaneo, permanente e potenzialmente non reversibile, costituisce un’ingerenza materiale e psicologica nella corporeità della persona, potenzialmente idonea a violare la dignità umana. La Corte di Strasburgo ha già censurato misure coercitive meno intrusive, ribadendo la centralità dell’integrità fisica anche in ambito penitenziario. 

L’Art. 8 CEDU sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, invece, non può non far riflettere sul fatto che un tracciamento continuo e invisibile, operato da dispositivi endocorporei, si traduce in una sorveglianza permanente che mina il diritto all’autonomia e alla riservatezza. Per essere compatibile con la Convenzione, una simile misura dovrebbe essere prevista dalla legge, perseguire un fine legittimo e risultare strettamente necessaria in una società democratica. La proporzionalità, in questo contesto, appare fortemente dubbia. 

Infine, l’Art. 5 CEDU sul diritto alla libertà e alla sicurezza personale, costituisce il fondamento del rigetto verso una sorveglianza ventiquattr’ore su ventiquattro che limiti di fatto la possibilità di autodeterminarsi nello spazio, che può integrare una restrizione equiparabile alla detenzione, pur in assenza di reclusione fisica. Anche in fase post-condanna, permane l’esigenza di garantire che le limitazioni siano strettamente funzionali alla prevenzione di nuovi reati e non configurino una pena surrettizia.

Pena, dignità, proporzionalità: i principi fondamentali in gioco

Nel diritto penale contemporaneo – anche nei sistemi di common law – si afferma un principio di fondo: la pena deve essere proporzionata, temporanea e finalizzata, almeno in parte, alla rieducazione del condannato. Introdurre un dispositivo sottocutaneo a tempo indeterminato, come misura sanzionatoria o di prevenzione, rischia di trasformare la condanna in una marcatura indelebile, incompatibile con la funzione reintegrativa della pena. Il principio di proporzionalità impone di valutare l’idoneità, la necessità e la minore lesività di ogni misura restrittiva. Se strumenti meno invasivi – come braccialetti esterni, obblighi di presentazione, sorveglianza mobile – risultano sufficienti a garantire la sicurezza pubblica, allora l’impianto sottopelle diventa automaticamente sproporzionato.         

Non va poi trascurata la questione dell’autodeterminazione corporea, che costituisce un caposaldo sia nella giurisprudenza costituzionale che nel diritto internazionale dei diritti umani. Nessuna persona, neppure condannata, può essere privata del diritto a decidere se subire un intervento invasivo sul proprio corpo. L’eventuale assenso, inoltre, non può essere viziato dalla condizione di vulnerabilità che deriva dallo status detentivo o dalla prospettiva di evitare il carcere.

Rischi tecnologici e responsabilità pubblica

L’esternalizzazione della gestione tecnologica a soggetti privati – in questo caso le cosiddette “big tech” – introduce ulteriori criticità. I dati raccolti da dispositivi impiantati sono per loro natura ipersensibili: localizzazione continua, comportamenti, abitudini di vita. Il rischio che tali informazioni vengano utilizzate anche per finalità diverse da quelle penali – come marketing, profilazione o sicurezza nazionale – è concreto, specie in assenza di garanzie effettive di trasparenza, minimizzazione e controllo pubblico.          

Inoltre, il precedente dell’impiego di tecnologie predittive in ambito penale, come gli algoritmi di rischio recidiva, ha già mostrato il potenziale discriminatorio e l’opacità di molti sistemi di intelligenza artificiale, spesso tarati su dati storicamente viziati da bias etnici, sociali o geografici. L’impianto sottopelle non farebbe che consolidare un paradigma di controllo automatizzato e potenzialmente diseguale, in cui la persona diventa un oggetto tracciabile anziché un soggetto titolare di diritti.

Il panorama comparato: dove si traccia il limite?

A livello globale, nessun ordinamento democratico prevede – ad oggi – l’impianto obbligatorio di dispositivi di tracciamento endocorporei in ambito penale. Negli Stati Uniti, pur con un uso massiccio di tecnologie di sorveglianza, l’idea di impiantare chip sottopelle è rimasta confinata a dibattiti accademici o sperimentazioni volontarie in contesti privati. Le corti federali hanno più volte ribadito che il rispetto del Fourth Amendment implica il divieto di perquisizioni corporali invasive prive di consenso informato o giustificazione urgente.    

I Paesi nordici – notoriamente più avanzati sul piano della giustizia riparativa – adottano strumenti non invasivi e temporanei, e fondano l’esecuzione penale su un rapporto fiduciario tra Stato e condannato. La Cina, che fa ampio uso di tecnologie biometriche nella sicurezza pubblica, rappresenta un modello antitetico allo Stato di diritto: l’assenza di garanzie procedurali e la pervasività del controllo statale sono caratteristiche che i sistemi democratici non possono permettersi di replicare.

Rischi tecnologici, modelli di business e privatizzazione della pena

Oltre agli evidenti problemi di compatibilità con i diritti fondamentali, l’ipotesi di impiantare dispositivi GPS sottocutanei nei condannati pone interrogativi rilevanti anche sul piano economico e sistemico. L’esternalizzazione della gestione tecnologica a soggetti privati – in particolare alle grandi aziende del settore tech – introduce una commistione inedita tra diritto penale e mercato, destinata a trasformare strutturalmente il modo in cui si concepisce e si gestisce la pena.  

Se affidata a fornitori privati, la gestione dei chip sottopelle potrebbe inaugurare un vero e proprio mercato della sorveglianza corporea, in cui le tecnologie di tracciamento diventano un servizio erogato alle amministrazioni penitenziarie e giudiziarie in regime di appalto. Le imprese coinvolte otterrebbero contratti pubblici multimilionari per la fornitura, installazione, manutenzione e aggiornamento dei dispositivi, oltre che per la gestione delle piattaforme di monitoraggio e analisi dei dati. L’ecosistema risultante sarebbe quello di una “penal economy” digitalizzata, nella quale la sicurezza si appalta e il corpo del condannato diventa un’infrastruttura da gestire.      
In questo contesto, i soggetti privati non sarebbero meri fornitori di tecnologia, ma attori determinanti nella filiera dell’esecuzione penale, con poteri significativi nel trattamento di dati, nell’emissione di alert, nella segnalazione di anomalie. Il rischio è che si affermi un modello in cui la pena – lungi dal restare prerogativa esclusiva dello Stato – venga gestita secondo logiche aziendali di efficienza, profitto e scalabilità, in un’ottica profondamente post-statale.

Altro elemento critico è costituito dal valore economico dei dati raccolti dai dispositivi. Un impianto sottopelle genera flussi costanti di informazioni ad altissimo contenuto personale: geolocalizzazione, ritmo circadiano, eventuale rilevamento di parametri fisiologici. Tali dati, se incrociati con altre fonti, possono diventare oggetto di analisi predittive, vendite a terzi, o profilazioni a fini assicurativi e commerciali. 
Se le aziende che sviluppano tali tecnologie operano anche in altri settori (ad es. pubblicità digitale, IA, biometria), il rischio di riutilizzo secondario dei dati, o di una loro indebita monetizzazione, si amplifica. La gestione di individui condannati, anziché rimanere un costo per la collettività, può così trasformarsi in fonte di profitto, innescando un pericoloso conflitto di interessi tra obiettivi pubblici (rieducazione, reinserimento) e interessi privati (retention, tracciamento, capitalizzazione dei dati).
Il coinvolgimento delle big tech nella gestione della pena potrebbe produrre anche incentivi perversi: ad esempio, spingere verso un ampliamento della platea dei soggetti monitorabili (es. applicazione a imputati, soggetti in libertà vigilata o anche solo a rischio), o promuovere la proroga delle misure di sorveglianza per massimizzare i ricavi. In assenza di forti presidi regolatori e di trasparenza contrattuale, si rischia la creazione di una logica di mercato penale, in cui il contenimento del crimine diventa meno importante della perpetuazione di un modello profittevole.

In prospettiva, potrebbe anche emergere un sistema a pagamento: il condannato viene “invitato” a preferire il chip rispetto al carcere, ma in cambio di un corrispettivo o del pagamento dei costi di monitoraggio, scaricando sul soggetto penalizzato gli oneri economici della propria pena. Ciò aprirebbe scenari inaccettabili sotto il profilo della parità di trattamento e dell’uguaglianza formale e sostanziale.

Come resistere all’eccezione tecnologica

Il diritto penale contemporaneo è chiamato a confrontarsi con la sfida dell’innovazione tecnologica. Ma l’entusiasmo per l’efficienza non deve oscurare i principi irrinunciabili dello Stato di diritto. La proposta di impiantare chip sottopelle ai condannati – anche se ancora in fase embrionale – rappresenta una deriva che va contrastata sul piano normativo, costituzionale ed etico.   

Il compito del giurista è quello di porre limiti, tracciare confini, ribadire che la pena non può trasformarsi in sorveglianza perpetua, e che il corpo umano non può diventare un terminale dell’apparato securitario. In questa prospettiva, è urgente riaffermare che la giustizia, per essere giusta, deve restare umana, soprattutto laddove l’interesse economico – notoriamente di gran peso nelle decisioni anche politiche – rischia di aumentare la pressione sugli apparati decisionali.

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