L’intelligenza artificiale è diventata il capro espiatorio perfetto per spiegare ogni tensione del mercato occupazionale. Ma se guardiamo da vicino il mondo dei programmatori, dei call center e dei colletti bianchi, emerge un quadro più sfumato: non un crollo improvviso del lavoro cognitivo, bensì una ricomposizione selettiva di ruoli, competenze e traiettorie professionali.
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È davvero l’AI a provocare la contrazione del lavoro cognitivo?
Il dato certo, da cui partiamo, è che l’AI è ormai parte del lavoro quotidiano di milioni di persone. Eppure, il mercato del lavoro manda segnali contraddittori. Da una parte le aziende annunciano investimenti crescenti nell’AI; dall’altra tagliano, rallentano le assunzioni, riducono i ruoli di ingresso.
La domanda che domina il dibattito pubblico è semplice: è davvero l’AI a provocare la contrazione del lavoro cognitivo? O stiamo attribuendo alla tecnologia ciò che è invece frutto di dinamiche economiche più ampie? Alcune analisi recenti offrono una base utile per orientarsi, in particolare quelle che mettono a fuoco sia le categorie professionali più esposte sia le dinamiche macro che stanno raffreddando il lavoro cognitivo. Ma il quadro diventa più chiaro solo integrando questi elementi con ricerche accademiche, survey aziendali e casi concreti.
Intelligenza artificiale e lavoro: le prime professioni esposte
I primi effetti tangibili dell’AI non riguardano l’occupazione in generale, ma alcuni ruoli specifici, in particolare sviluppatori software e operatori dei call center.
Due categorie all’apparenza distanti, ma accomunate da condizioni che rendono più immediata l’integrazione di strumenti di intelligenza artificiale nei loro flussi di lavoro. In entrambi i casi, molte attività sono caratterizzate da un’elevata ripetitività e da una verifica immediata del risultato: un blocco di codice funziona o non funziona; una richiesta del cliente viene risolta o resta inevasa.
Sono inoltre ruoli che richiedono una conoscenza limitata del contesto aziendale più ampio, ciò facilita la sostituibilità o l’affiancamento algoritmico, perché il modello non deve comprendere l’intera complessità organizzativa per essere efficace.
Un ulteriore elemento decisivo è la disponibilità di grandi quantità di dati di addestramento, repository di codice, forum tecnici, trascrizioni di conversazioni, log dei sistemi di assistenza. Questi materiali costituiscono un terreno fertile per strumenti di generative AI e per modelli specializzati, accelerandone la maturazione.
Per queste ragioni, programmatori e addetti al customer care rappresentano oggi un laboratorio anticipato di ciò che potrebbe accadere in altre professioni cognitive. Non un’anticipazione apocalittica, ma un segnale concreto dei punti in cui l’AI trova terreno più rapido per incidere sui processi e, di conseguenza, sui ruoli professionali.
Programmazione come laboratorio anticipato
Nel caso degli sviluppatori, la presenza di codice altamente standardizzato, piattaforme collaborative e ambienti di test automatici rende più semplice l’inserimento di strumenti di AI nei workflow. Gli LLM possono proporre soluzioni, generare funzioni, fare refactoring, mentre i sistemi di test restituiscono un feedback immediato sulla qualità del risultato.
Il lavoro del programmatore diventa così un mix di supervisione, integrazione e debug del codice suggerito dall’AI, con una riduzione relativa delle attività più ripetitive e un maggiore peso alla capacità di leggere il contesto, capire i vincoli di sistema e gestire l’architettura complessiva.
Call center e customer care tra automazione e affiancamento algoritmico
Nel customer care, l’abbondanza di trascrizioni, log e script rende naturale l’addestramento di modelli specializzati su domande frequenti e procedure standard. L’AI può intervenire in modalità self service, sostituendo del tutto l’operatore nei casi semplici, oppure come supporto in tempo reale, suggerendo risposte e azioni successive.
In questo scenario, gli operatori umani vengono spinti verso i casi complessi, conflittuali o emotivamente delicati, dove la comprensione fine del contesto e la gestione della relazione restano decisive. Anche qui il lavoro cambia forma: meno routine, più gestione di situazioni ad alta intensità cognitiva e relazionale.
L’economia oltre l’intelligenza artificiale nel lavoro cognitivo
Ma la contrazione dei colletti bianchi non dipende (solo) dall’AI: pesa l’economia.
Sembra però che il rallentamento del lavoro cognitivo nel 2024–2025 sia spiegato in larga parte da fattori economici, non tecnologici. L’AI influenza i processi, ma non è (ancora) la causa principale dei tagli.
Negli Stati Uniti le aziende hanno annunciato quasi un milione di licenziamenti nel 2025. Molti osservatori li hanno attribuiti all’AI, ma i dati raccontano una storia diversa:
- il biennio 2021–2022 è stato caratterizzato da over hiring massiccio, soprattutto nella tecnologia e nei servizi professionali
- il tasso di assunzioni sta semplicemente rientrando ai livelli pre pandemia
- in ogni ciclo economico, la disoccupazione dei giovani laureati cresce 1,5–2 volte più rapidamente
- l’AI funge spesso da cornice narrativa che rende socialmente accettabile una ristrutturazione già necessaria
In questo punto però si inserisce un elemento fondamentale, il ruolo della narrativa tecnologica nelle grandi imprese. Gli annunci di Amazon, Meta, UPS, Target, GM, Walmart e Salesforce mostrano che molte aziende stanno ricalibrando i costi dopo anni di espansione, più che reagendo a un impatto diretto dell’AI.
L’intelligenza artificiale viene usata come doppia leva:
- operativa, per automatizzare processi e ridurre attività ripetitive
- retorica, per presentare i tagli come modernizzazione inevitabile
Andy Jassy (Amazon) ha dichiarato che la crescente integrazione della GenAI «cambierà il modo in cui lavoriamo» e consentirà di ridurre la forza lavoro corporate. Walmart prevede di crescere senza aumentare il personale. Goldman Sachs elimina ruoli ritenuti «sostituibili dall’AI».
Come osserva il professor David Autor (MIT) «È molto più facile dire che si licenzia per efficienza da AI che ammettere problemi di redditività o un rallentamento dell’economia».
Il risultato è un quadro molto diverso da quello di un’“ondata di automazione”: le imprese stanno seguendo un ciclo classico di razionalizzazione dei costi, con l’AI usata come catalizzatore narrativo e operativo. L’impatto sull’occupazione, dunque, è reale ma mediato e spesso sovrainterpretato.
Intelligenza artificiale e lavoro nelle imprese: tra adozione e risultati
Nel 2025 l’AI generativa non è più un esperimento: è entrata stabilmente nei processi aziendali. Le dinamiche osservate all’interno delle organizzazioni mostrano però un quadro più sfumato di quanto suggerito dalla narrazione dominante.
I dati della ricerca Wharton–GBK evidenziano un’adozione diffusa ai livelli apicali, l’82% dei leader usa strumenti di AI generativa almeno una volta a settimana e quasi la metà quotidianamente. Il 72% misura formalmente il ritorno degli investimenti e tre dirigenti su quattro dichiarano risultati positivi.
È un salto di scala che indica come l’AI sia ormai percepita come una leva strategica.
Cosa vedono i vertici: ROI, efficienza, scalabilità
Per i vertici aziendali, la generative AI rappresenta una promessa di efficienza e scalabilità: riduzione dei tempi, razionalizzazione dei processi, possibilità di fare di più con meno risorse. Da qui la spinta a inserire l’AI in funzioni chiave come finanza, HR, IT, marketing, con metriche di ROI sempre più esplicite.
L’AI permea molti flussi di lavoro: analisi dati, stesura testi, sintesi di riunioni, automazione in finanza, HR e IT. Ma la percezione di questa trasformazione cambia in modo significativo scendendo lungo la gerarchia organizzativa.
Cosa vivono i lavoratori: più pressione, non meno lavoro
A una lettura ottimistica se ne contrappone un’altra, più prudente. Lo studio del MIT Project NANDA (The GenAI Divide) rileva che oltre l’80% delle aziende ha testato strumenti di AI generativa e quasi il 40% li ha implementati, ma solo il 5% registra un impatto misurabile sulla produttività. La distanza tra sperimentazione e valore concreto resta significativa.
Per molti lavoratori cognitivi, soprattutto nel middle management, l’AI rappresenta oggi un incremento della pressione operativa più che un alleggerimento. Le survey qualitative della ricerca Wharton–GBK mostrano che una parte rilevante dei dipendenti percepisce un aumento delle ore lavorate e della complessità delle attività da gestire.
Come osserva Stefano Puntoni, coautore della ricerca, «per chi deve implementare, l’AI oggi è più lavoro, non meno».
Mentre i vertici aziendali leggono nell’AI un orizzonte di efficienza e scalabilità, chi gestisce i processi quotidiani sperimenta un’accelerazione dei ritmi e una maggiore intensità cognitiva.
L’AI, insomma, non libera tempo, lo ridefinisce. Nel farlo contribuisce a modificare la grammatica stessa del lavoro cognitivo, introducendo nuove asimmetrie tra chi guida la trasformazione, chi la implementa e chi si affaccia ora al mercato del lavoro.
Micro shock dell’AI sul lavoro cognitivo
La letteratura più recente mostra un quadro sorprendentemente coerente, l’AI non ha ancora prodotto una trasformazione occupazionale di tipo macro, ma sta già generando micro shock localizzati che incidono in modo diverso su fasce specifiche del lavoro cognitivo.
Al di sotto della stabilità dei dati aggregati, il mercato del lavoro si sta riallineando attorno a nuove logiche di costo, competenza e seniority.
Gli effetti micro: giovani e ceto medio cognitivo sotto pressione
Le prime evidenze indicano che l’AI impatta soprattutto i lavoratori nelle fasi iniziali della carriera e la fascia intermedia del lavoro cognitivo.
Nei settori più esposti all’automazione algoritmica, come sviluppo software, analisi, customer operation e funzioni amministrative, i giovani laureati incontrano maggiori difficoltà di ingresso rispetto ai colleghi più esperti.
In alcune professioni tecniche la distanza tra junior e senior si sta ampliando sensibilmente. Questo fenomeno ha una radice comune: quando l’AI permette di automatizzare una parte del lavoro ripetitivo, le imprese tendono a valorizzare chi possiede esperienza contestuale, capacità di supervisione e competenze trasversali.
Il risultato è un mercato che premia i profili più maturi, indispensabili per integrare e controllare i sistemi, e quelli molto economici, sacrificando il tradizionale corridoio di crescita del middle skilled cognitivo.
Studi recenti segnalano una riduzione delle assunzioni junior nelle aziende che adottano realmente l’AI nei processi, non un taglio generalizzato, ma un rallentamento selettivo dei percorsi di ingresso.
Di fatto è la prima manifestazione tangibile di una polarizzazione cognitiva che ridisegna gerarchie, progressioni e opportunità.
Gli effetti macro: nessuna frattura nei dati occupazionali
Sul piano aggregato, però, l’impatto è sorprendentemente moderato. Analisi estese sul periodo post 2022 mostrano che la composizione del mercato del lavoro non ha subito rotture strutturali, i settori continuano a crescere o rallentare secondo traiettorie precedenti all’esplosione della generative AI.
Anche le variazioni della disoccupazione risultano contenute e non correlate in modo netto al livello di esposizione all’AI.
Questo suggerisce che l’adozione tecnologica non sta ancora producendo un effetto di sostituzione su larga scala. Le imprese, nel complesso, stanno integrando l’AI attraverso un processo graduale, modulato dai costi organizzativi, dalla qualità dei dati, dalla maturità dei modelli e dalla disponibilità di competenze interne.
Una transizione irregolare del lavoro cognitivo
La combinazione di questi due livelli, micro e macro, delinea un mercato del lavoro in transizione lenta ma profonda.
Non assistiamo a un’ondata di automatizzazione generalizzata, bensì a un insieme di riallineamenti mirati:
- la fascia intermedia dei lavori cognitivi tende ad assottigliarsi
- le carriere diventano meno lineari e più discontinue
- la complementarità con l’AI diventa un criterio centrale di selezione
- gli ingressi nel mercato del lavoro si fanno più selettivi e competitivi
È in questo spazio intermedio, tra continuità macro e frizioni micro, che si sta ridefinendo la struttura del lavoro cognitivo contemporaneo.
Una mutazione silenziosa, che procede per piccoli passi ma cambia in profondità la distribuzione del valore e delle opportunità.
La nuova precarietà cognitiva nell’era dell’AI
Dietro numeri e grafici ci sono persone, biografie interrotte, traiettorie che si inceppano. Qui gli effetti dell’AI diventano più visibili, nel modo in cui il lavoro cognitivo perde alcune delle sue certezze storiche.
La fascia più esposta è quella dei 20–35enni, la generazione con i livelli formali di istruzione più alti di sempre, ma paradossalmente anche quella che fatica di più a trovare un varco stabile nel lavoro cognitivo.
La capacità di collaborare efficacemente con sistemi AI pesa ormai più dei titoli, più dei master, più delle certificazioni.
Questo produce una sensazione diffusa di scollamento, si ha l’impressione di aver studiato per un mondo che non esiste più.
Si moltiplicano i racconti di lavoratori che, dopo mesi di candidature, non riescono a rientrare nel circuito professionale. Altri accettano ruoli sottodimensionati rispetto alle competenze.
Molti avvertono una forma nuova di ansia da irrilevanza, non la paura di essere sostituiti da una macchina, ma di essere messi ai margini da processi riorganizzati attorno ad essa.
Sul piano macro, cresce la disoccupazione di lunga durata, quasi due milioni di americani risultano senza impiego da più di 27 settimane. Ma il dato, da solo, non racconta tutto.
A cambiare è la percezione soggettiva del lavoro, la stabilità diventa eccezione, la linearità di carriera un privilegio, il tempo un bene sempre più compresso.
Siamo davanti non solo a una transizione tecnologica, ma a una trasformazione culturale.
L’AI non sostituisce l’umano, lo costringe a riposizionarsi continuamente, ridefinendo ciò che consideriamo competenza, valore, identità professionale.
Tre scenari per intelligenza artificiale e lavoro nel 2026–2028
L’intelligenza artificiale non è ancora un motore di distruzione del lavoro, ma è già un potente motore di ricomposizione. L’evidenza empirica conferma che il suo impatto è selettivo, non sistemico; profondo, ma non uniforme; trasformativo, ma non esplosivo.
Per interpretare ciò che potrebbe accadere nel prossimo triennio, un periodo cruciale in cui l’adozione aziendale dell’AI accelererà e gli investimenti in automazione diventeranno più maturi, proponiamo tre scenari plausibili, non predittivi.
Scenario 1 — Accelerazione ordinata (il più probabile)
L’AI continua a diffondersi nei processi aziendali, ma senza effetti di rottura sul mercato del lavoro.
Le imprese:
- riducono gradualmente i ruoli junior e le attività ripetitive
- introducono modelli di supervisione aumentata (AI + human-in-the-loop)
- riallocano parte del personale verso compiti di controllo qualità, coordinamento, integrazione dei sistemi
Gli indicatori macro restano stabili, ma cambia la struttura: aumenta la produttività in alcuni comparti; diminuiscono le opportunità di ingresso; cresce il valore della seniority.
Il lavoro cognitivo diventa più selettivo e l’ascesa professionale più lenta.
Scenario 2 — Polarizzazione accelerata
Se i modelli diventassero più affidabili, veloci e meno costosi, le imprese potrebbero avviare una seconda ondata di automazione cognitiva.
In questo scenario:
- si amplia il divario tra top performer e middle management
- i ruoli di analisi, reporting, content creation e customer service vengono fortemente ridimensionati
- gli investimenti si spostano verso piattaforme autonome e agenti multimodali
Il risultato è un mercato del lavoro più simile a quello post-automazione manifatturiera: pochi lavori ad alta specializzazione, molti a bassa qualificazione e una fascia media assottigliata.
È lo scenario della classe media cognitiva compressa.
Scenario 3 — Ricalibrazione del lavoro (con reazione normativa e organizzativa)
Un terzo percorso, meno discusso, prevede una risposta coordinata di governi e imprese.
In questo caso, tra 2026 e 2028 possiamo vedere:
- incentivi a programmi di re-skilling su larga scala
- regole su trasparenza, valutazione del rischio e accountability dell’AI
- modelli aziendali che puntano alla complementarità (AI per ampliare, non per sostituire)
- nuove figure ibride (AI coordinator, prompt strategist, knowledge integrator)
In questo scenario il lavoro cognitivo non si riduce, ma si trasforma in modo cooperativo. La tecnologia diventa leva per ampliare capacità e non solo per tagliare costi.
Intelligenza artificiale lavoro: quale traiettoria per il futuro
Tutti e tre gli scenari condividono un punto: il lavoro del futuro non sarà definito dall’AI in sé, ma da come le società la integreranno.
La tecnologia pone le premesse; istituzioni, aziende e persone ne determinano gli esiti.
Il triennio 2026–2028 sarà decisivo per capire se l’AI diventerà un acceleratore di polarizzazione o una leva di rinnovamento organizzativo e professionale.
In entrambi i casi, il compito centrale non è difendere i posti, ma governare la transizione, assicurando che il lavoro resti un luogo di valore, autonomia e dignità.













