tech e geopolitica

Algoritmi d’Arabia, come l’AI rivoluziona l’economia nel Golfo



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Arabia Saudita, Emirati arabi uniti, Qatar e gli altri Paesi del Golfo stanno puntando sull’AI investendo in tecnologia e formazione: vediamo la situazione e gli impatti a livello internazionale

Pubblicato il 11 ago 2025

Agostino La Bella

Dipartimento di Ingegneria dell’Impresa, Università di Roma “Tor Vergata”



linee guide fornitori GPAI AI ACT, procedimenti amministrativi AI; AI Golfo

Un tempo le terre del Golfo tremavano al rombo delle trivelle. Con il petrolio si alimentavano imperi, si finanziavano guerre, si decidevano confini. Il potere aveva l’odore acre del greggio, la consistenza ruvida dell’asfalto, il colore bruno delle rendite fossili. Ma oggi il potere sta cambiando forma, odore, geografia. Il nuovo potere non sgorga più dal sottosuolo: scintilla nei chip, sussurra nei codici, si muove nei silenzi del cloud. Così come il carbone lasciò il posto al petrolio, così il petrolio sta cedendo oggi il trono a una materia nuova: l’intelligenza, o almeno la sua imitazione.

Il mondo non è più diviso tra chi possiede risorse e chi le consuma, ma tra chi genera modelli e chi li subisce. Tra chi scrive il software della realtà e chi vi abita inconsapevole. E se nel Novecento i confini del potere si tracciavano con oleodotti e superpetroliere, oggi si disegnano attraverso centri dati, silicio, firmware e corpus linguistici. Il petrolio genera energia, alimenta l’industria chimica. L’intelligenza artificiale, ora, prevede, influenza, persuade, controlla, decide.

La rivoluzione AI nei Paesi del Golfo

Ed è nel cuore stesso di un antico impero del fuoco — l’Arabia, il Golfo, il deserto — che sta accadendo una metamorfosi silenziosa. Lì oggi si tracciano le nuove mappe del potere. La visione strategica non riguarda più l’occupazione di un’oasi, ma l’architettura cognitiva su cui costruire la propria sovranità digitale. Lì dove sorgevano le tende di comando della Legione Araba, oggi si progettano modelli linguistici multimodali in arabo, inglese, francese. Le stesse nazioni che un tempo erano destinatarie passive della modernità coloniale, che costruivano la propria forza su raffinerie e greggio, ora progettano attivamente la forma stessa della modernità futura, riposizionando il proprio destino attorno a data center, modelli di linguaggio e semiconduttori. Lo stanno facendo con lucidità strategica, visione geopolitica e, soprattutto, con una velocità che sorprende persino gli osservatori più esperti. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, Paesi che per decenni sono stati il cuore pulsante dell’economia del petrolio, oggi ambiscono a diventare il cuore pensante dell’economia dell’algoritmo costruendo un’intelligenza artificiale di Stato e investendo massicciamente nelle tecnologie collegate all’AI, trasformando le loro economie con l’obiettivo di posizionarsi come leader globali nel settore. Non più solo esportatori di energia, ma architetti del pensiero computazionale. Non più solo petrolmonarchie, ma dinastie cognitive. Con l’ambizione di non essere più alleati minori, ma nuovi centri di gravità dell’ordine mondiale.

L’AI in Arabia Saudita: Vision 2030

Guidata dal principe ereditario Mohammed bin Salman, l’Arabia Saudita ha lanciato “Vision 2030”, un ambizioso piano per diversificare l’economia e ridurre la dipendenza dal petrolio non limitandosi a replicare modelli occidentali ma elaborando un proprio framework cognitivo, radicato nella cultura, nella lingua e nelle esigenze locali. La posta in gioco non è solo tecnologica: è identitaria. A febbraio, durante la conferenza annuale LEAP 2025 a Riyadh, il governo ha annunciato 14,9 miliardi di dollari in investimenti mirati nel settore dell’intelligenza artificiale, con l’obiettivo di costruire un ecosistema nazionale che vada dalle infrastrutture cloud alle startup emergenti, passando per centri di ricerca, programmi formativi e piattaforme AI multilingua focalizzate sul mondo arabo. L’iniziativa si è concretizzata in nuovi progetti come Humain, la società di AI fondata il 12 maggio dal Public Investment Fund saudita, che mira a sviluppare infrastrutture AI avanzate, inclusi data center di nuova generazione e modelli linguistici arabi multimodali, posizionando l’Arabia Saudita come un attore chiave nel panorama dell’IA.

Ma l’ambizione di Riad non si esaurisce nei confini del Regno. L’8 aprile 2025 è stato firmato un memorandum d’intesa tra Arabia Saudita e Stati Uniti per un piano da 600 miliardi di dollari da realizzare nei prossimi 10 anni. Questo accordo mira alla co-creazione di super-infrastrutture cognitive: enormi data center alimentati da energia rinnovabile, decine di migliaia di chip “Blackwell” di ultima generazione forniti da Nvidia, cooperazione sullo sviluppo di modelli fondamentali multilingua e soprattutto partnership industriali con le big tech americane, tra cui Microsoft, OpenAI e Google DeepMind. Il piano è stato presentato come un’alleanza tecnologica globale che punta a bilanciare l’espansione cinese e a garantire un’egemonia cognitiva condivisa nel mondo arabo, africano e asiatico. Solo la partnership tra l’Arabia Saudita e Nvidia prevede la costruzione di 500 megawatt di fabbriche AI nei prossimi cinque anni.

AI negli Emirati arabi uniti e Qatar

Parallelamente, gli Emirati Arabi Uniti hanno stretto accordi con diverse nazioni per investimenti congiunti in settori strategici come l’intelligenza artificiale, i data center e le energie rinnovabili. Il fondo emiratino MGX partecipa, insieme a Open AI, Oracle e alla giapponese SoftBank, al progetto “Stargate” lanciato a gennaio dal Presidente Trump con la previsione di investire 500 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni in infrastrutture AI. A marzo, durante un incontro a Washington tra il presidente Trump e il consigliere per la sicurezza nazionale emiratino, Sheikh Tahnoun bin Zayed, è stato annunciato un piano decennale di investimenti da 1.400 miliardi di dollari negli Stati Uniti, focalizzato su settori strategici come intelligenza artificiale, semiconduttori, energia e manifattura. Questo massiccio piano di investimenti rappresenta una svolta nelle relazioni tra gli Emirati Arabi Uniti e gli Stati Uniti, consolidando la posizione di Abu Dhabi come partner strategico di Washington nel campo dell’innovazione tecnologica e dell’energia. Allo stesso tempo, rafforza l’influenza degli Emirati nel panorama globale dell’intelligenza artificiale, posizionandoli come attori chiave nella definizione delle future traiettorie tecnologiche.

A maggio, durante la visita del Presidente USA Donald Trump nella regione, i leader del Golfo hanno stretto altri accordi imponenti con le principali aziende tecnologiche americane. Il Qatar ha annunciato 1.200 miliardi in progetti che spaziano dall’aviazione al calcolo quantistico; ha firmato con Boeing un ordine storico da 96 miliardi di dollari e ha promosso una venture per lo sviluppo quantistico tra Quantinuum, l’azienda nata dalla fusione di Cambridge Quantum e Honeywell Quantum Solutions, e Al Rabban Capital, la holding che controlla l’80% dell’economia non-oil. Gli Emirati hanno aggiunto 200 miliardi di dollari al piano esistente, destinati in particolare alla costruzione del più grande campus di intelligenza artificiale al di fuori degli Stati Uniti. Questo progetto, noto come “Stargate UAE”, rappresenta un’iniziativa senza precedenti, e include la costruzione di un cluster AI da 200 megawatt ad Abu Dhabi, come parte di un’infrastruttura più ampia da cinque gigawatt che sarà la più grande del mondo al di fuori degli Stati Uniti. Il progetto, realizzato in collaborazione con OpenAI e Nvidia, mira a consolidare il ruolo degli EAU come polo tecnologico internazionale e come hub centrale nell’ecosistema globale dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie avanzate.

L’impatto sui mercati internazionali

A livello internazionale, queste operazioni hanno spostato il baricentro delle forniture tecnologiche: Trump ha revocato le restrizioni imposte dall’amministrazione Biden sull’esportazione di chip AI avanzati, permettendo al Golfo di importare centinaia di migliaia di processori top di gamma ogni anno. Solo gli Emirati hanno siglato un accordo per ricevere fino a 500.000 superchip Nvidia Blackwell l’anno tra il 2025 e il 2027, di cui l’80% utilizzate dalle big tech americane per realizzare data center locali e il 20% fornite direttamente a G42, un attore che non appare nei titoli dei giornali ma che muove silenziosamente i fili dell’intero sistema cognitivo nazionale. Non è una semplice azienda. È una visione in forma di impresa. Il suo nome, mutuato dalla risposta universale alla “domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto” nel romanzo Guida galattica per gli autostoppisti, è già una dichiarazione d’intenti: costruire intelligenza per dare forma al futuro.

Chi è e cosa fa G42

Fondata nel 2018, con sede ad Abu Dhabi, G42 è il braccio tecnologico dell’Emirato, strettamente legato alla leadership politica (in particolare allo Sceicco Tahnoun bin Zayed). Opera in settori strategici come supercalcolo, sanità digitale, genomica, sorveglianza predittiva, cloud sovrano e AI generativa. Ma più che i settori, conta la missione: costruire una sovranità cognitiva endogena, capace di sostenere l’autonomia tecnologica degli Emirati e, allo stesso tempo, offrire soluzioni al mondo. Nel campo dell’AI, G42 è ovunque: ha sviluppato i modelli Falcon, tra i più avanzati LLM open source disponibili, gestisce il cluster Condor Galaxy, realizzato in collaborazione con Cerebras Systems, sta costruendo il già menzionato campus Stargate, ha acquisito e rilanciato Botim, trasformandola nella prima super-app AI del Golfo, integrata con servizi pubblici e assistenti intelligenti.

Una parte importante della sfida è nella capacità di implementazione. Le aziende locali hanno bisogno di passare dai progetti pilota alla scala reale, e la formazione di talenti resta il principale collo di bottiglia. Come ha sottolineato Prabhakar Posam, CIO del gruppo Transworld di Dubai, “Il Golfo diventerà una superpotenza AI solo quando la spesa massiccia si tradurrà in autentica leadership tecnologica”. Emirati e Arabia Saudita lo hanno capito bene e, parallelamente agli investimenti in infrastrutture computazionali, stanno gettando le fondamenta di un vero e proprio sistema educativo e scientifico dedicato all’intelligenza artificiale.

Formazione AI negli Emirati: la MBZUAI

Nel cuore di Masdar City, la futuristica eco-città alle porte di Abu Dhabi, sorge oggi una delle istituzioni più visionarie del mondo arabo: la Mohamed bin Zayed University of Artificial Intelligence (MBZUAI). Fondata nel 2019 e attiva a pieno regime dal 2021, questa università è la prima al mondo interamente dedicata alla ricerca e alla formazione avanzata in AI. MBZUAI ha attirato in pochi anni centinaia di ricercatori, docenti e studenti da oltre 40 paesi, offrendo borse di studio complete, laboratori di deep learning, accesso a cluster di calcolo avanzato e partnership con giganti come IBM, Nvidia, Google DeepMind e OpenAI. La lingua ufficiale è l’inglese, ma è in corso lo sviluppo di modelli linguistici pan-arabi, che possano restituire centralità culturale alla regione attraverso l’AI.

MBZUAI non è un avamposto isolato: fa parte di una strategia più ampia degli Emirati per diventare una nazione esportatrice di intelligenza, non solo di capitale. L’università è collegata direttamente ai centri di supercalcolo di G42, al cluster Stargate in costruzione, e al primo ministero per l’intelligenza artificiale al mondo, il quale ha, tra l’altro, lanciato un programma per integrare l’alfabetizzazione all’AI fin dalla scuola materna, con l’obiettivo di promuovere i talenti tecnologici locali e ridurre la dipendenza dalle competenze straniere, e per offrire gratuitamente ChatGPT Plus a cittadini e residenti, abbattendo le barriere d’accesso alle tecnologie di ultima generazione e promuovendo l’adozione dell’AI nella società.

La ricerca alla King Abdullah University of Science and Technology

Parallelamente, anche l’Arabia Saudita ha moltiplicato i suoi sforzi nel settore della ricerca e dell’educazione. Il King Abdullah University of Science and Technology (KAUST) ospita uno dei più importanti hub di ricerca AI della regione, mentre nuove cattedre e programmi di dottorato sono stati creati presso le università di Riad, Dhahran e Medina. Il Regno ha anche promosso il lancio del Saudi Data and Artificial Intelligence Authority (SDAIA), un’autorità che collega ricerca, industria e governance cognitiva. Inoltre, nell’ambito del più ampio progetto NEOM, la megacity futuristica da 500 miliardi di dollari in costruzione come parte di “Vision 2030” e simbolo della “nuova Arabia”, la NEOM University sarà una piattaforma educativa d’élite dedicata all’intelligenza artificiale, alla robotica e ai sistemi cognitivi avanzati. La didattica sarà interamente in lingua inglese, ibridata con sistemi AI tutor personalizzati e sono previsti laboratori, collegati in real time con il NEOM Tech & Digital Company e i futuri NEOM Quantum Centers, che lavoreranno in collaborazione con OpenAI, Boston Dynamics e la Stanford Human-Centered AI Initiative (HAI). La struttura residenziale sarà completamente automatizzata, con campus integrato in rete 6G e ambienti real-time digital twin per simulazioni cognitive. Con la tagline ufficiale “Not an AI curriculum. A cognitive society in formation” l’AI College di NEOM rappresenta non solo un’iniziativa educativa, ma una dichiarazione politica: l’intelligenza artificiale come fondamento identitario della nuova città, della nuova economia e – forse – della nuova cittadinanza saudita.

Le iniziative di formazione digital

Oltre alle istituzioni “flagship” già menzionate, sia gli Emirati Arabi Uniti che l’Arabia Saudita hanno sviluppato ulteriori iniziative significative nel campo dell’intelligenza artificiale, con un focus particolare sull’educazione e la formazione. Fondato nel 2018 a Riyadh con l’obiettivo di formare una nuova generazione di esperti in tecnologie avanzate, il Prince Mohammed Bin Salman College for Cybersecurity, Artificial Intelligence and Advanced Technologies (MBS College) è la prima istituzione accademica saudita dedicata all’intelligenza artificiale e alla cybersecurity. Ha stabilito partnership con università e istituzioni di ricerca di alto profilo, tra cui Stanford University, Carnegie Mellon University e Booz Allen Hamilton. Sempre a Riyadh, l’Università Re Sa’ud ha sviluppato il progetto Riyadh Techno Valley, un parco scientifico e tecnologico che mira a promuovere la ricerca e l’innovazione nel Regno. Il parco ospita centri di ricerca focalizzati su intelligenza artificiale, nanotecnologie e biotecnologie, facilitando la collaborazione tra università, industria e governo. A Dubai, nel 2022, è stato inaugurato il Museo del Futuro una struttura espositiva dedicata alle innovazioni tecnologiche, con un focus particolare su robotica e intelligenza artificiale. Il museo funge da piattaforma per la presentazione di idee e progetti futuristici, stimolando la ricerca e lo sviluppo nel campo dell’AI.

Che cos’è la super app

L’AI non è solo una questione di potenza computazionale, ma anche di penetrazione quotidiana. Nel futuro che si delinea, l’interazione con lo Stato non passerà da un ministero, ma da una notifica push. E chi controlla quell’interfaccia, controlla l’esperienza quotidiana del potere. Per questo Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti stanno puntando su un nuovo strumento geopolitico: la super-app. Un ecosistema mobile integrato sul quale i cittadini possono fare tutto: pagare, chattare, firmare documenti, accedere a servizi pubblici e, sempre più spesso, interagire con agenti AI. Negli Emirati, Botim è già diventata molto più di una semplice app di messaggistica. Gestita da Astra Tech (gruppo G42), ha integrato pagamenti, consegne, documenti, viaggi, assistenza sanitaria e traduzione automatica. A maggio 2025, Botim ha annunciato un accordo con OpenAI per incorporare agenti GPT-4.5 dedicati all’assistenza personale e ai servizi civici, in arabo ed inglese. L’obiettivo? Trasformare lo smartphone in un “governo tascabile”.

In Arabia Saudita, il progetto è RedSea App: una piattaforma promossa dalla SDAIA (Saudi Data and AI Authority), che unisce servizi statali, banking islamico, domotica, mobilità e persino l’accesso alle iniziative culturali della Vision 2030. RedSea è pensata come interfaccia civica unificata, e ogni cittadino saudita sarà dotato di un wallet digitale basato su identità biometrica e intelligenza predittiva.

Dietro queste app non c’è solo usabilità. C’è governance algoritmica. Il design di una super-app implica decisioni profonde su privacy, sovranità dei dati, modelli linguistici preferiti, logiche di accesso ai servizi. Questa scelta, nel Golfo, si intreccia con la volontà di costruire un modello cognitivo autoctono: niente più dipendenza totale da piattaforme occidentali, ma ambienti digitali disegnati su misura per le esigenze, le lingue, i valori e i rituali sociali locali. L’AI, in questo contesto, non è solo un motore di automazione, ma un mediatore culturale. Non è un caso che Emirati e Arabia Saudita stiano esplorando la possibilità di dotare le super-app di modelli linguistici regionali: Falcon, Jais, Nour, Shaheen. Modelli addestrati su corpus arabi e misti, capaci di dialogare con i cittadini in modo naturale e contestuale. L’obiettivo è duplice: offrire un servizio più pertinente e, al tempo stesso, addestrare l’AI sui dati locali in un circuito chiuso e sovrano. In definitiva, le super-app del Golfo non sono semplici prodotti tecnologici: sono piattaforme identitarie, terminali attraverso cui si plasma la cittadinanza algoritmica e, naturalmente, si esercita il potere di influenza e di controllo.

Il modello del Golfo

Il nuovo modello di sviluppo scelto dai Paesi del Golfo è quindi quello dell’accumulazione di capitale computazionale, sfruttando la capacità di concentrare velocemente risorse, volontà politica e architettura decisionale, traducendo petrodollari in potenza di calcolo, centri dati, universi digitali integrati. L’obiettivo non è solo scalare, ma incorporare l’AI nella vita quotidiana, nelle istituzioni e nella cultura. Con pochi modelli linguistici proprietari, ma ad alta localizzazione semantica e una crescente infrastruttura tecnica, il Golfo promette velocità, coerenza e identità. Permane ovviamente, almeno nel medio termine, la dipendenza strategica da tecnologie straniere per chip, architetture e talenti, e una relativa fragilità sul fronte della ricerca fondamentale indipendente.

Gli Stati Uniti, che restano la superpotenza multipolare dell’AI, hanno deciso di sostenere il Golfo in questa transizione con la forza del loro pluralismo industriale, eccellenza universitaria, vastità computazionale e leadership nel campo dei modelli fondamentali, con l’obiettivo di bilanciare l’influenza cinese nella regione. Da anni, infatti, Cina e Paesi del Golfo hanno intensificato le relazioni tecnologiche: Huawei è presente nei data center emiratini, SenseTime fornisce sistemi di sorveglianza, Baidu ha cooperato con aziende saudite sull’analisi predittiva. Tuttavia, la Cina, pur forte di una rete di colossi tecnologici nazionali (Alibaba, Baidu, Huawei), di un sostegno statale capillare, di un ecosistema AI che integra hardware, modelli avanzati, training su infrastrutture domestiche ed efficaci strategie educative centralizzate, è in questo campo una potenza in espansione ma con una penetrazione internazionale ancora contenuta. Sconta infatti l’isolamento linguistico, le barriere normative e la censura che limitano l’efficacia globale dei suoi agenti AI.

Il ruolo degli Usa

Gli Stati Uniti vedono l’AI come una nuova forma di soft power e considerano strategico impedire che le infrastrutture cognitive della regione finiscano sotto controllo cinese. Consentire l’accesso a chip Nvidia, software OpenAI o architetture cloud AWS è un modo per mantenere l’orbita tecnologica americana nei punti chiave del Golfo. Il patto con il Golfo serve anche a difendere il primato americano nei teatri di influenza, soprattutto dopo i segnali ambigui della regione verso Mosca e Pechino. Di fatto gli USA vedono il futuro della loro influenza geopolitica non solo sul piano economico e militare, ma anche su quello informativo e cognitivo: propaganda AI-generated, sabotaggi algoritmici, manipolazione di reti neurali pubbliche. In un mondo che si muove verso la decarbonizzazione, le alleanze costruite sul petrolio sono destinate a indebolirsi.

L’AI rappresenta il nuovo collante strategico: una cooperazione strutturale che va oltre le forniture energetiche e apre nuove linee di interdipendenza educativa, infrastrutturale, militare. Avere partner affidabili nel cuore del Medio Oriente capaci di produrre AI localizzata, cooperare nell’intelligence computazionale, filtrare contenuti multilingua e sorvegliare flussi informativi è un asset militare tanto quanto radar e basi navali. Senza contare che ciò consente l’estensione del mercato per le big tech americane: di fronte a saturazione interna e crescente regolazione (antitrust, AI Act europeo, discussioni FTC) i Paesi del Golfo rappresentano un’oasi normativa permissiva e finanziariamente abbondante, dove le big tech possono sperimentare, scalare, monetizzare.

Accordi come quello tra OpenAI e G42, o tra Amazon Web Services e il governo di Dubai, creano corridoi di business esentasse, dove gli USA esportano AI come bene strategico, mantenendone però il codice, l’hosting o l’intelligenza centrale. Inoltre, per alimentare l’AI serve energia stabile, economica, e a basso impatto geopolitico. Il Golfo, con le sue riserve petrolifere e soprattutto solari, offre la possibilità di decentralizzare il calcolo. Le fabbriche AI che nasceranno in Arabia Saudita e negli EAU potranno essere alimentate da energie rinnovabili e gestite in cloud sovrano, ma collegate in back-end a provider americani. In pratica, Washington garantisce i cervelli, il Golfo fornisce i muscoli (energetici e immobiliari).

Cosa può fare l’Europa

Di fronte a questa impressionante accelerazione, l’Europa ha due opzioni.
La prima è l’atteggiamento passivo: osservare, regolamentare, rincorrere, e magari ammonire. La seconda, più ambiziosa, è partecipare da attore autonomo e mediatore di futuro, sfruttando ciò che né gli Stati Uniti né la Cina possono offrire: secoli di scambi, ricerca, diplomazia multilaterale; neutralità geopolitica relativa. Lontana dai modelli coloniali del passato e libera dalla logica egemonica delle superpotenze, l’Europa può proporsi come partner di fiducia per una AI sostenibile e culturalmente radicata. Ma valori e regolazione, da soli, non bastano. Nei Paesi del Golfo, dove si pensa in grande e si agisce in fretta, le buone intenzioni non hanno lo stesso peso dei prototipi funzionanti. Etica e governance risuonano solo se incarnate in prodotti scalabili, strumenti concreti, piattaforme performanti. Solo così diventeranno valori-ponte, e non valori-barriera.

Purtroppo, la retorica europea su etica e regolazione, per quanto rilevante e spesso lungimirante, non scalda i cuori né orienta le scelte strategiche nei Paesi del Golfo, che operano con logiche molto più pragmatiche, tecnocratiche e orientate al risultato. Per ragioni di lavoro seguo da vicino l’evoluzione tecnologica degli Emirati. Lì ho visto in azione un approccio molto diverso dal nostro: meno orientato al dibattito e più focalizzato sul fare, sulla prototipazione rapida, sulla centralizzazione strategica. Si percepisce chiaramente una fame di tecnologia, di risposte concrete, di strumenti che funzionano. Il dialogo con le istituzioni è diretto, tecnico, spesso sorprendentemente aperto. Ma ciò che colpisce è la capacità di trasformare in poche settimane un’idea in progetto, e un progetto in piattaforma operativa. D’altra parte, l’intelligenza artificiale — per sua natura — non aspetta. Si sviluppa in ambienti dove l’esecuzione rapida, la coordinazione fluida e la scalabilità immediata sono prerequisiti, non optional.

Ecco cosa (forse) l’Europa sbaglia nel suo approccio:

  • Parla di “valori”, mentre il Golfo cerca “capacità operative”: tool, modelli, cluster, vantaggi competitivi tangibili;
  • Offre linee guida, mentre i suoi interlocutori vogliono codice funzionante, chip a basso consumo, soluzioni pronte da scalare;
  • Mette al centro la compliance, mentre nel Golfo vige una cultura della leadership visionaria, top-down, progettuale, e fortemente simbolica.

Cosa potrebbe cambiare l’impatto dell’Europa?

  1. Non cercare di esportare principi, ma “prodotti coerenti con i principi” creando prototipi concreti e funzionanti.
  2. Rispettare l’immaginario di grandezza del Golfo. I Paesi del Golfo pensano in termini di “più grande al mondo”, “più veloce”, “più potente”. L’Europa deve trovare un modo per inserire le sue competenze dentro narrazioni ambiziose, non riduttive.
  3. Investire in talenti congiunti e percorsi accademici binazionali. Creare università miste, ad esempio PhD congiunti tra Parigi e Riyadh, Milano e Abu Dhabi. Utilizzare l’Erasmus per promuovere un “AI Campus Euro-Golfo”, creando classi dirigenti ibride.
  4. Fornire chip “ethically aligned” e open hardware. In un contesto dominato da chip statunitensi e cinesi, l’Europa potrebbe sostenere progetti di “open silicon chips”, a basso consumo, progettati in consorzi congiunti.
  5. Costruire zone digitali congiunte. L’Europa potrebbe proporre la creazione di “AI Corridors”, ad esempio un asse Lione-Dubai o Barcellona-Jeddah per testare modelli su larga scala con regole condivise, supervisioni incrociate, dati aperti e federati.
  6. Portare ingegneri, non solo diplomatici. Nei tavoli tecnici, il Golfo apprezza chi risolve problemi, scrive codice, costruisce demo. Serve una diplomazia tecnica, fatta anche di CTO, PhD e innovatori in grado di dialogare da pari con G42, SDAIA o NEOM Tech.

La necessità di accelerare

D’altra parte, l’Europa ospita alcuni tra i migliori centri di ricerca al mondo in fisica teorica, matematica, informatica formale, etica computazionale. L’Europa eccelle nel pensare l’innovazione, ma spesso fallisce nel tradurla in azione in tempo utile. Tra una scoperta nei laboratori di Zurigo o Grenoble e un modello AI competitivo sul mercato passano anni, non per mancanza di idee, ma per assenza di strumenti decisionali agili. Laddove Stati Uniti, Cina, il Golfo Persico o Israele decidono e implementano velocemente, riuscendo a mobilitare miliardi in pochi mesi, l’Europa apre tavoli, consulta stakeholder, stabilisce linee guida e impiega anni per definire quadri giuridici, fondi, governance condivisa. E, nel frattempo, il mondo è cambiato tre volte.

Non è tanto la Commissione in sé a essere lenta, quanto la disomogeneità degli Stati membri: ognuno con i propri interessi, standard, sensibilità culturali e livelli di maturità digitale. Il risultato è una burocrazia di compensazione, che per proteggere la legittimità finisce per schiacciare l’efficienza. In un mondo dove l’AI è la nuova materia prima strategica, serve una capacità esecutiva federata: qualcosa che somigli più a DARPA che a una Direzione Generale, più a uno European AI Council con poteri reali che a un comitato consultivo multilivello.

In troppi sono abituati a pensare che la lentezza europea sia una forma di saggezza regolativa. In parte lo è. Ma nel contesto attuale, in cui modelli linguistici si evolvono ogni tre mesi, nuovi chip vengono prodotti in cicli trimestrali e gli standard globali si impongono di fatto prima ancora che di diritto, la lentezza diventa vulnerabilità. Chi arriva secondo non impone i protocolli, non definisce le interfacce del futuro, non orienta il mercato. La sfida non è tra velocità e valori. La sfida è tra valori che agiscono e valori che restano inascoltati. E se difendere i nostri valori è importante, ciò ha senso solo se siamo in grado di farlo in partita, non a bordo campo. Serve quindi un cambio di paradigma culturale: accettare che in certi contesti l’azione immediata è l’unico modo per preservare i propri principi. L’Europa — con tutta la sua profondità storica e culturale — ha molto da offrire.  M se non cambia il ritmo delle sue decisioni, sarà probabilmente ancora ascoltata con rispetto, ma lasciata indietro. Anche se forse non saremo sconfitti sul piano morale, dovremo adattarci a standard scritti da altri: rimarremo un nobile archivio, ma non un motore del mondo che verrà.

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