le accuse

Programmatic advertising, così Google (e Facebook) manipolano il mercato degli annunci elettronici

Secondo nuove accuse, Google avrebbe usato il suo potere monopolistico per controllare i prezzi e impegnarsi in collusioni di mercato volte a truccare le aste pubblicitarie, arrivando persino a indurre Facebook ad accettare uno schema contrattuale che mina il cuore del processo competitivo. Vediamo nel dettaglio

Pubblicato il 08 Gen 2021

Barbara Calderini

Legal Specialist - Data Protection Officer

Negli USA, Google è chiamato a rispondere a una nuova accusa antitrust nell’ambito della pubblicità programmatica.

L’azione è stata promossa da una coalizione di Stati guidati dal procuratore generale del Texas, il conservatore Ken Paxton e rappresenta l’ennesima mossa compiuta nel complesso scacchiere giudiziario (tre cause di cui due promosse in due giorni, inclusa una presentata ad ottobre dal Dipartimento di giustizia DOJ), in cui Google è impegnato a difendersi – sebbene da diverse angolazioni e da distinte coalizioni di Stati e organi di governo – nelle diverse accuse di monopolio e pratiche di esclusione concorrenziale: dalla manipolazione della ricerca, alle collusioni per la vendita di tecnologia pubblicitaria.

E certo, se da una parte il recente procedimento si pone in linea con gli attacchi bipartisan – sia negli Stati Uniti che in Europa – scagliati a suon di azioni legali contro i poteri privati dei colossi del web (Amazon, Apple, Facebook e Google) dall’altra si pone anche sulla stessa scia dell’importante e parallelo procedimento, promosso dalla Federal Trade Commission, nei confronti di Facebook (al momento coinvolto ma non indagato nella causa del Texas contro Google) accusato di abuso di posizione dominante a scapito della concorrenza.

La (nuova) accusa contro Google

L’accusa ritiene Google responsabile, tra le altre cose, anche di un “accordo illegale”, risalente al 2018, che legherebbe il Golia della pubblicità e il gigante tecnologico suo rivale Facebook in un’intesa piuttosto discutibile che, da una parte avrebbe permesso a Google di poter preservare il proprio dominio nel settore del programmatic advertising, e dall’altra avrebbe garantito a Facebook, in cambio della promessa di non supportare alcun sistema pubblicitario concorrente, di beneficiare di condizioni speciali nel mercato degli annunci on line. Il riferimento è alla pratica nota come header bidding, un processo tecnologico impiegato nel programmatic che, sebbene automatizzato, consente spesso offerte su misura chiamate “markup” che si prestano a determinati tiri di vendita e accordi strategici discutibili.

Il nome del presunto accordo, emerso a grandi linee nelle delicate rivelazioni pubblicate su un articolo del Wall Street Journal a firma Ryan Tracy e John D. McKinnon (che avrebbe esaminato una versione non oscurata della causa), evoca atmosfere da “Star Wars”, a partire dal suo stesso nome: “Jedi Blue”.

A quanto emerge dalla versione del documento introduttivo del giudizio, sembrerebbe che le due big tech avessero concordato dettagliatamente, all’interno del patto tra loro, il numero di volte in cui Facebook sarebbe dovuto uscire primo nelle aste di offerte di intestazione (le richieste simultanee di annunci inviate dagli editori a più reti pubblicitarie per spuntare il prezzo migliore).

Un percorso quindi preferenziale, a vantaggio del social network, per l’“accesso speciale alle aste” nonché una spartizione preordinata a fissare i prezzi e dividere il mercato della pubblicità programmatica tra di loro.

La versione pubblicata della denuncia, tuttavia, è ancora diffusamente oscurata, impedendo la lettura e la comprensione di aspetti chiave a fondamento delle istruttorie avviate dai pubblici ministeri.

Tutti i fronti del contenzioso

È lo stesso Ken Paxton ad anticipare l’avvio del contenzioso giudiziario nei confronti di Google, con un video pubblicato su Twitter.

“Google ha ripetutamente utilizzato il suo potere monopolistico per controllare i prezzi e impegnarsi in collusioni di mercato finalizzate a truccare le aste in una tremenda violazione della giustizia”, dichiara convintamente Paxton nel video.

“Google è un monopolio da trilioni di dollari che abusa palesemente del suo potere di monopolio, arrivando persino a indurre i massimi dirigenti di Facebook ad accettare uno schema contrattuale che mina il cuore del processo competitivo”, continua.

L’intesa Jedi Blue

Il richiamo è al progetto “Jedi Blue” che vorrebbe Google e Facebook che, intanto, non è neppure menzionato come imputato nella causa, in una sorta di alleanza anticoncorrenziale.

Trattamenti preferenziali, asimmetrie informative a vantaggio esclusivo del social e violazioni delle normative in materia di protezione dei dati.

Il documento d’accusa esaminato dal WSJ contiene il riferimento ad un’e-mail di Dan Rose, vicepresidente per le partnership di Facebook, al CEO Mark Zuckerberg. Altri indizi lasciano intendere violazioni della privacy degli utenti piuttosto “eclatanti” relative all’accesso a “milioni di messaggi WhatsApp crittografati end-to-end di utenti americani, foto, video e file audio”. Sarebbe incluso anche uno screenshot dei termini del contratto tra Facebook e Google, che però risulta oscurato nella versione pubblicata dell’accusa.

La specifica fattispecie giuridica specifica rientra ad ogni modo nell’alveo dell’articolo 1 dello Sherman Act – che proibisce qualsiasi accordo che irragionevolmente limiti il libero commercio, concordando i prezzi di un determinato prodotto, o limitando la produzione a livelli prestabiliti, oppure ripartendosi mercati, o escludendo rapporti commerciali con terzi che non fanno parte dell’accordo illegale.

La versione dell’accusa esaminata dal WSJ affermerebbe che a partire dal quarto anno dell’accordo, Facebook si fosse impegnato a spendere un minimo di 500 milioni di dollari all’anno nelle aste pubblicitarie gestite da Google assicurandosi a sua volta la vincita di una percentuale fissa di queste.

L’accordo, secondo le rivelazioni del Journal sarebbe stato siglato con la firma del direttore operativo di Facebook Sheryl Sandberg, a settembre 2018 e avrebbe inteso eliminare il rischio che Facebook potesse competere, attraverso le iniziative di header bidding e il meccanismo denominato Facebook Audience Network, con gli strumenti pubblicitari online di Google (nel 2017 Facebook aveva sviluppato una sua Audience Network, che utilizzava, la tecnologia utilizzata nel programmatic, l’header bidding, fornita da sei fornitori – Amazon, AppNexus, Index Exchange, Media.net, Sonobi e Sortable – alternativa a DoubleClick e in grado di canalizzare le transazioni attraverso il proprio mercato facendo del social network un temibile rivale di Google), a fronte di un “trattamento riguardevole” nei confronti del social nel mercato degli scambi pubblicitari, incluso l’accesso ai dati del Golia della ricerca.

La tassa di monopolio e l’insider trading

“In questo monopolio pubblicitario all’interno di un mercato scambiato elettronicamente, Google gestisce in via esclusiva informazioni interne “per agire come lanciatore, ricevitore, battitore e arbitro. Tutto allo stesso tempo”, sostiene Ken Paxton.

Un’allegoria, quella del baseball, che rende bene l’idea.

E di tanto se ne ha riscontro nell’atto introduttivo della causa presentata alla Corte distrettuale degli Stati Uniti (Eastern District of Texas – Sherman Division) dai procuratori generali, tutti repubblicani, di Arkansas, Idaho, Indiana, Mississippi, Missouri, North Dakota, South Dakota, Utah e Kentucky, oltre al Texas, composto da ben 118 pagine: “Oltre a rappresentare sia gli acquirenti che i venditori di pubblicità display online, Google gestisce anche la più grande piattaforma di scambio AdX e dall’acquisizione di DoubleClick, Google ha iniziato rapidamente a utilizzare la sua nuova posizione per esercitare un effetto leva e così diventare l’attore dominante nella pubblicità online, danneggiando editori, concorrenti e consumatori nel processo”.

La posizione monopolistica di Google si tradurrebbe quindi, di fatto, in una tassa gravante direttamente sui consumatori statunitensi, costretti in tal modo a subire prezzi maggiori a fronte, peraltro, di un’inferiore qualità dei servizi.

I più attenti ricorderanno come già la News Corporation di Rupert Murdoch avesse, da tempo, inteso accendere i riflettori su quanto il dominio di Google consentisse all’azienda di esigere un taglio più alto di ogni vendita senza però contribuire ai costi di creazione dei relativi contenuti, gravanti invece sugli editori e dunque sui consumatori finali.

Stando alle accuse, Google avrebbe anche “compiuto atti falsi e ingannevoli vendendo, acquistando e mettendo all’asta annunci display online, riducendo così la monetizzazione dei contenuti per gli editori e aumentando il costo della pubblicità”.

Ma non è tutto perché all’interno del variopinto quadro di accuse a carico del colosso dell’advertising trovano posto anche le accuse di insider trading evidenziate dal pesante conflitto di interessi che si accompagna al duplice ruolo dello stesso: quello di intermediario nella vendita di spazi pubblicitari appartenenti a siti web di terze parti da un lato, e sui siti propri, Google Ricerca e YouTube, dall’altro.

Dal 2015, per dirne una, gli inserzionisti che desiderano acquistare annunci YouTube devono utilizzare necessariamente DV360 o Google Ads e non altri strumenti di acquisto rivali. I dati di ritorno parlano.

Fonte: “Why Google Dominates Advertising Markets Competition Policy Should Lean on the Principles of Financial Market Regulation” di cui è autrice Dina Srinivasan

Un potere di mercato quello esercitato da Google che – a detta dei procuratori, a partire dall’acquisizione, nel 2007 di DoubleClick, la piattaforma di compravendita degli spazi pubblicitari (Google pagò 3,1 miliardi di dollari per il colosso della pubblicità online fino ad allora di proprietà del fondo di private equity Hellman & Friedman) – si è sviluppato attraverso una serie tanto cospicua quanto “piuttosto spudorata” di violazioni delle leggi antitrust e tutela dei consumatori.

“Il modus operandi di Google è monopolizzare e travisare” scrivono i procuratori.

Come funziona il mercato “non regolamentato” degli annunci online

Potremo dire che si comporta come una “borsa merci”, un mercato dei commercio elettronico brillantemente descritto da Dina Srinivasan, Fellow del Thurman Arnold Project a Yale, già autrice di ” The Antitrust Case Against Facebook “, in cui si rincorrono sotto la supervisione e direzione di Google, miliardi di transazioni, quotazioni in tempo reale, scambi di annunci, analisi, andamenti e dati aggiornati. Editori che vendono spazio pubblicitario e inserzionisti che lo acquistano. Tutto in un processo automatizzato chiamato “offerta in tempo reale” al momento però privo di adeguata regolamentazione.

“Circa l’86% dello spazio pubblicitario display online negli Stati Uniti viene acquistato e venduto in tempo reale su sedi di negoziazione elettroniche, che il settore chiama “scambi pubblicitari”. Con gli intermediari che instradano gli ordini di acquisto e vendita, la struttura del mercato pubblicitario è simile alla struttura dei mercati finanziari negoziati elettronicamente. Nella pubblicità, una singola azienda, Alphabet (“Google”), gestisce contemporaneamente la principale sede di negoziazione, nonché i principali intermediari ai quali acquirenti e venditori si rivolgono. Allo stesso tempo, Google stessa è uno dei maggiori venditori di spazi pubblicitari a livello globale. In tal modo Google riesce a dominare i mercati pubblicitari impegnandosi in comportamenti vietati dai legislatori in altri mercati del commercio elettronico: l’exchange di Google condivide informazioni di trading a velocità superiori con gli intermediari di proprietà di Google; “sempre Google orienta gli ordini di acquisto e vendita alla sua borsa e ai suoi siti web (motore di ricerca e YouTube) e abusa del suo accesso alle informazioni privilegiate” scrive Dina Srinivasan nel suo articolo “Why Google Dominates Advertising Markets” che intende suggerire anche una proposta di adeguamento normativo per il settore auspicando l’ applicare dei principi normativi alla base degli scambi finanziari alla pubblicità digitale: “Nel mercato delle azioni negoziate elettronicamente, richiediamo alle borse di fornire agli operatori un accesso equo ai dati e velocità, identifichiamo e gestiamo i conflitti di interesse degli intermediari e abbiamo bisogno di informazioni sulle negoziazioni per aiutare a sorvegliare il mercato”.

Un meccanismo, dunque, per certi aspetti paragonabile alle dinamiche dei mercati finanziari, in cui Google, attraverso la propria “Rete Display” e il programma basato su connessioni da server a server denominato Open Bidding (precedentemente noto come Exchange Bidding), consente di invitare piattaforme di scambio di terze parti a competere in tempo reale per poi sfruttare la tecnologia di DoubleClick for Publishers e Ad Exchange (AdX) nell’allocazione dinamica dei contenuti e nelle offerte di intestazione (asta di annunci in tempo reale). Gli inserzionisti in tal modo possono raggiungere gli utenti su centinaia di migliaia di siti web e app in tutte le categorie di publisher: dai siti più grandi e famosi a siti e segmenti di nicchia.

Ne consegue una sorta di clusterizzazione in cui un vasto pubblico “chirurgicamente profilato” viene orientato e interessato in corrispondenza di contenuti correlati su migliaia di siti.

La quantità e la qualità delle ad impression (numero totale di visualizzazioni di un annuncio pubblicitario servite da un ad server a un utente in un dato intervallo temporale) che compongono le singole campagne di display advertising determinano il successo dell’offerta editoriale di spazi pubblicitari che un editore (publisher) mette a disposizione degli inserzionisti pubblicitari (advertiser).

Il Wall Street Journal ne ha reso un’interessante ed efficace ricostruzione grafica la cui visione è consigliata a chi volesse approfondire.

Il meccanismo della pubblicità programmatica diretto da Google è complesso e altamente specialistico tuttavia la logica di fondo, alla base della catena dei profitti tra editori online e inserzionisti, è piuttosto semplice da capire: quasi ogni annuncio online a cui siamo oggi sottoposti deriva dal fatto che un certo inserzionista ha utilizzato Google per acquistarlo, l’editor o il sito web a loro volta si sono rivolti sempre a Google per mettere in vendita lo spazio e, lo scambio di annunci gestito da Google, l’asta, li ha abbinati insieme.

Google in pratica gestisce sia l’exchange tra acquirente e venditore sia, a sua volta, compete con gli editori sulla propria piattaforma, YouTube in primis. E’, allo stesso tempo, artefice e arbitro dell’appetibilità degli spazi pubblicitari quanto della fruibilità degli stessi. Tanto nella più assoluta incuranza del contesto normativo attuale.

Fonte Immagine

Dall’infografica emergono facilmente i due elementi di maggior valore incidenti nelle dinamiche dello scambio di annunci:

  • la velocità di presentazione delle offerte in tempo reale. Un vantaggio che Google conosce bene visto che nella sua guida suggerisce chiaramente che il rischio di latenza viene ridotto facendo uso della sua infrastruttura “poiché Google Ads e Display & Video 360 vengono eseguiti su server negli stessi data center di Ad Exchange, possono rispondere più rapidamente alle richieste di offerta di Ad Exchange rispetto ad altre richieste di scambio”.
  • l’accesso alle informazioni e la riduzione dell’asimmetria informativa che genera punti ciechi e “perdita di aliquote”. Anche questo aspetto è stato ben compreso da Google che infatti consente alle proprie piattaforme di scambio e di acquisto di annunci di vedere direttamente l’ID utente raccolto tramite DoubleClick. Diversamente, per tutti gli altri inserzionisti, funziona il sistema della sincornizzazione dei cookie: gli intermediari non Google, per identificare gli utenti associati allo specifico spazio pubblicitario in vendita su Exchange di Google, si servono dei cookie, assegnano agli utenti un nuovo set di ID proprietari e quindi sincronizzano i loro ID con gli hash di Google. Un procedimento intrinsecamente meno performante della prima opzione dalla quale deriva la perdita di interesse degli inserzionisti che infatti fanno offerte inferiori o per niente.

Le repliche di Google alle accuse e la reciproca assistenza concordata con Facebook

Non è escluso che il Texas possa incaricare Ken Starr, l’ex consulente indipendente protagonista dell’indagine che ha portato all’impeachment del presidente Bill Clinton, per seguire il percosso giudiziario aperto dal procuratore del Texas.

Google, nel frattempo ha già reso pubblica una prima risposta: la portavoce Julie McAlister, ha rilasciato dichiarazioni al New York Times: “Le affermazioni del Procuratore Generale Paxton sulle tecnologie pubblicitarie sono infondate, nonostante ciò, lo stesso Procuratore ha proceduto con le accuse, ignorando i fatti. Abbiamo investito in servizi di ad tech all’avanguardia che aiutano le aziende e creano benefici per i consumatori. I prezzi degli annunci digitali sono diminuiti nell’ultimo decennio e, con loro, anche le tariffe ad tech stanno calando. Le tariffe ad tech di Google sono inferiori alla media nel settore. Questi sono i tratti distintivi di un settore altamente competitivo. Ci difenderemo con determinazione in tribunale dalle accuse infondate mosse dal Procuratore Generale”.

E anche il Wall Street Journal ha già fatto sapere che sempre nell’ambito del piano, denominato “Jedi Blue”, Google e Facebook (al momento non coinvolto direttamente nelle accuse in oggetto ma già impegnato in altri procedimenti antitrust tra cui quello del procuratore generale dello Stato di New York Letitia James unitamente ad gruppo bipartisan di 46 procuratori generali statali) avrebbero già stabilito di “assistersi a vicenda e di collaborare nel contenzioso antitrust che li dovesse vedere entrambi sotto accusa” da parte degli stati americani e della Federal Trade Commission. Entrambi i colossi del mercato online sembravano essere infatti, sin dall’inizio, perfettamente consapevoli delle potenziali criticità, in chiave antitrust, del “programma di fidelizzazione”.

Per il momento invece Facebook non ha risposto alle richieste di commento.

Conclusioni

L’azione sostenuta dall’asse repubblicano di Paxton punta al cuore dell’attività del gigante della ricerca che, secondo eMarketer, al momento controlla quasi un terzo di tutta la spesa pubblicitaria digitale negli Stati Uniti: gli annunci digitali (linfa vitale anche per gli investimenti di Alphabet Inc), il programmatic advertising.

Quasi 162 miliardi di dollari nel 2019, la maggior parte dei quali dalla pubblicità.

Fonte Immagine

Sempre stando ai dati della società di ricerca eMarketer, le due società insieme, Facebook e Google, rappresentavano nel 2019 circa il 54% della pubblicità digitale negli Stati Uniti, con la quota di Google a circa il 31% e quella di Facebook al 23%.

Nei primi mesi del 2020 Google aveva già totalizzato quasi 101 miliardi di dollari, pari all’86% delle sue entrate totali.

Tuttavia, competitor già noti, in testa Amazon e Facebook (malgrado l’accordo Jedi Blue), secondo gli autorevoli aggiornamenti di eMarketer, stanno conquistando ad un ritmo piuttosto sostenuto quote significative del mercato dell’advertising. Google per la prima volta dal 2008, nel 2020 chiuderà un bilancio finanziario annuale in rosso per quanto riguarda l’adv. Le entrate pubblicitarie si riducono e la contrazione dei ricavi pari a circa il 5,3 per cento rispetto allo scorso anno, si attesta a quota 39,58 miliardi di dollari (contro i 41,80 di fine 2019).

Azioni legali a parte, è chiaro che ci saranno contromosse da parte di Google. Forse proprio nuovi accordi Jedi o anche affinamento delle strategie di insider trading.

E certo l’ecosistema dei poteri privati legato al data business, dove la gestione dell’accesso alle informazioni, rimane ancora oggi “affidata” alle big companies ha già dato prova ovunque di quanto ciò possa limitare l’autentica capacità di autodeterminazione (diritto tra i diritti umani) e le libertà fondamentali di ogni società democratica e dei suoi componenti.

“Chi controlla le domande dà forma alle risposte e chi controlla le risposte dà forma alla realtà”.

Vale in ottica globale.

Tra le varie azioni legali in corso (o in vista) negli Usa come in UE e gli aggiornamenti dei quadri regolatori, non ultimo il pacchetto Digital Services Act in UE, riusciremo ad ottenere un’economia dei dati lecita, corretta e trasparente, sana e robusta?

Intanto una cosa è certa: il successo che certe scelte, di natura giudiziaria o anche regolamentare, saranno in grado di determinare rispetto alle evoluzioni sociali in corso e alla dimensione orizzontale dei poteri privati forti, dipenderà in primis dalle persone che le hanno determinate.

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Pnrr, il Dipartimento per la Trasformazione digitale si riorganizza
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Competenze digitali e servizi automatizzati pilastri del piano Inps
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Water management in Italia: verso una transizione “smart” e “circular” 
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Smart City: quale contributo alla transizione ecologica
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