In un sistema di common law come quello statunitense, ove prevale la formazione giudiziaria del diritto, alcuni recenti casi sottoposti al sindacato della Corte Suprema potrebbero rappresentare un vero e proprio spartiacque nella ridefinizione dell’approccio regolatorio dell’ambiente digitale, erodendo il tradizionale potere delle piattaforme social rispetto al consueto modus operandi su come oggi prolifera la circolazione del flusso comunicativo online.
Contenuti dannosi sui social, gli Usa pronti a cambiare la legge che protegge le piattaforme
Potrebbe persino mutare il volto di Internet rispetto all’attuale architettura definita secondo i principi della Sezione 230 del “Communications Decency Act” del 1996.
La Sezione 230 del “Communications Decency Act”
Delineando una visione libertaria di Internet coerente con l’originario processo evolutivo di tale infrastruttura, la Sezione 230 configura uno specifico scudo legale riservato agli intermediari telematici, nell’ottica di promuove lo sviluppo tecnologico e incoraggiare la progettazione di servizi innovativi in condizioni di libero mercato, con l’intento di rimuovere tutti i possibili disincentivi di blocco, freno e filtro che limitano l’accesso alle relative risorse digitali.
In particolare, la Sezione 230 del Communications Decency Act garantisce la libertà di espressione e di innovazione su Internet, affinché i prestatori telematici (identificabili secondo una nozione ricostruita in senso ampio e generale, persino comprensiva dei social network e dei blogger) che ospitano contenuti pubblicati dagli utenti terzi siano legislativamente protetti per evitare di incorrere in responsabilità al di fuori delle ristrette fattispecie specificamente previste in via eccezionale.
Sul piano pratico, una simile cornice normativa non solo ha consentito di assicurare, tra l’altro, ai gestori delle piattaforme sociali la possibilità di fruire di ampi spazi di immunità grazie al riconoscimento di un generale esonero da responsabilità nei casi, ad esempio, di possibili contenuti dannosi e/o lesivi condivisi per il loro tramite dagli utenti, ma ha, altresì, consolidato un enorme e indiscusso arbitrio in capo alle aziende tecnologiche per decidere quali informazioni mantenere online e cosa invece rimuovere: in altre parole, emerge una sorta di insindacabile “ius vitae necisque” applicato allo spazio virtuale.
Il fronte bipartisan contro lo strapotere delle big tech
Da tempo, però, comincia a crescere il fronte politico “bipartisan” favorevole a ridurre il potere delle Big-Tech, ipotizzandosi persino la revisione della regolamentazione vigente (a partire proprio dalla messa in discussione della Sezione 230 del Communications Decency Act) sebbene, almeno allo stato attuale, il dibattito non sembra andare oltre le mere dichiarazioni politiche senza, però, poi concretizzare le relative enunciazioni in atti normativi ufficiali in grado di superare tutte le fasi dell’iter procedurale in vista della formale approvazione finale così da realizzare gli obiettivi sulla carta perseguiti, verosimilmente a causa delle svariate pressioni di lobbismo che si registrano in costante aumento negli ultimi anni, al punto da condizionare la produzione legislativa dei possibili interventi destinati a riformare il settore tecnologico.
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Mentre, quindi, sul versante istituzionale si assiste ad un prolungato stallo in attesa di sbloccare l’impasse esistente a fronte dell’attuale inerzia riscontrata, una rilevante novità potrebbe nel frattempo provenire dal panorama giurisprudenziale, ove la Corte Suprema sarebbe pronta a usare il pugno duro contro i colossi del web, recependo gli orientamenti più severi e restrittivi formulati in materia, come riporta anche un recente articolo di approfondimento a cura del “The New York Times”.
I casi al vaglio della Corte Suprema
Entrando nel merito del contenzioso legale, la relativa casistica verte sull’ambito di operatività dell’ordinario regime di responsabilità previsto per i contenuti dannosi immessi online anche al fine di stabilire se i gestori dei social media, come strumenti di comunicazione divenuti sempre più pervasivi nel dibattito globale, siano tenuti ad esercitare un maggiore controllo, anche di tipo preventivo, per impedire la diffusione viralizzata di notizie “tossiche” in grado di inquinare il pluralismo informativo a discapito dell’opinione pubblica, tenuto conto, al contempo, del valore cogente e precettivo del “Primo Emendamento” che riconosce e garantisce la libertà di parola come diritto fondamentale, assurgendo a emblema fondante il modello di democrazia degli USA.
La Corte Suprema è chiamata, quindi, ad effettuare un complesso e delicato bilanciamento tra interessi contrapposti, cercando di non comprimere, oltre ciò che risulti ragionevolmente necessario, la rilevanza costituzionale della libertà di parola, declinabile anche nella forma del discorso online.
Alla luce di tale scenario, potrebbe, dunque, realizzarsi un improvviso “revirement” interpretativo rispetto alla tradizionale tesi sostenuta in passato dai giudici, che hanno da sempre applicato in chiave tendenzialmente estensiva lo “scudo” di immunità previsto dalla Sezione 230 del “Communications Decency Act”, respingendo gran parte delle azioni legali promosse contro i gestori delle piattaforme sociali per contestare presunti addebiti di responsabilità collegati al flusso comunicativo online (a differenza del più gravoso trattamento riservato ai classici editori di giornali e riviste, esposti a frequenti ricorsi, in quanto citati in giudizio con più facilità per i contenuti ivi pubblicati ove ritenuti dannosi).
In particolare, i casi “Gonzales contro Google” e “Twitter contro Taamneh” stanno alimentando un crescente interesse giuridico e mediatico per gli ipotetici risvolti processuali percepibili come eventuale terremoto giudiziario se il responso finale della Corte Suprema dovesse optare per escludere l’immunità della Sezione 230 nei casi di utilizzo di algoritmi che consigliano, suggeriscono, raccomandano e amplificano la pubblicazione di contenuti immessi dagli utenti, integrando gli estremi di una sorta di favoreggiamento alla pubblicazione di informazioni illecite, in concorso con le condotte censurate, mediante la configurazione di un modello di responsabilità indiretta riferibile così anche ai gestori delle piattaforme sociali.
Se la Corte Suprema dovesse davvero decretare una diversa interpretazione della Sezione 230 in senso più sfavorevole per gli intermediari telematici, una ricostruzione di tale tenore sarebbe astrattamente in grado di inibire, ad esempio, l’uso degli algoritmi di raccomandazione normalmente progettati per fornire agli utenti raccolte personalizzate di contenuti compatibili con le proprie scelte, con il risultato di rendere la stragrande maggioranza dei siti web responsabili della fornitura dei risultati di ricerca associati a risorse potenzialmente dannose e/o vietate.
Il Texas verso una nuova normativa “ostile” alle big tech
Mentre il giudizio prosegue il suo corso, nell’ambito della legislazione di alcuni Stati nazionali del Governo federale USA, una nuova normativa “ostile” introdotta nel Texas sembra invero facilitare l’esperibilità di azioni legali contro i colossi del web.
In particolare, la legge del Texas (“Texas House Bill 20” cd. “HB20”, considerata legittima anche da una Corte d’Appello federale), nell’ottica di promuovere la libertà di espressione online e combattere la censura digitale, consente agli utenti di citare in giudizio le piattaforme telematiche qualora abbiano rimosso e/o bloccato post pubblicati che esprimono un “punto di vista” come opinione politica personale, a meno che i predetti contenuti non siano considerati illegali ai sensi e per gli effetti della legislazione federale vigente, o rientrino comunque in altre categorie vietate.
Conclusioni
Alla luce dell’attuale metamorfosi della Rete rispetto alle sue origini embrionali, sembra oltremodo anacronistico mantenere in vigore l’integrale disciplina introdotta dalla Sezione 230, risalente alla metà degli anni ’90 quando ancora la nascente Internet stava cominciando ad assumere i tratti planetari di uno spazio globale sempre più interconnesso, che poi è stato progressivamente occupato, sia pure con intuizione e lungimiranza, dai colossi del web, il cui primato potrebbe oggi rendere, tuttavia, necessario un differente approccio di regolamentazione funzionale a responsabilizzare il ruolo delle “Big-Tech” sempre più centrale nell’ambiente digitale.
Fino a che punto, però, i legislatori e i giudici avranno la forza di realizzare un simile intervento in grado di ridimensionare il potere delle aziende tecnologiche?