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Didattica AI per alunni neurodivergenti: oltre l’inclusione formale



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L’intelligenza artificiale può offrire supporto personalizzato agli alunni neurodivergenti, rendendo accessibile la complessità dell’apprendimento senza standardizzare le differenze

Pubblicato il 9 lug 2025

Daniele Verdesca

Presidente associazione Olimpyus



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C’è un mondo che cambia. E con esso cambiano anche i gesti del formare, i tempi dell’apprendere, le geografie della conoscenza. Siamo entrati in un’epoca in cui l’Intelligenza Artificiale si affaccia nei territori della didattica non più come un’astrazione futuribile, ma come presenza concreta, quotidiana; che interpella i formatori, i docenti, gli educatori. Non è solo questione di strumenti nuovi.

È una trasformazione che tocca le grammatiche stesse dell’educazione. La relazione educativa si ritrova oggi ad attraversare una soglia. E ogni soglia è un luogo complesso: è ponte ma anche frattura, è promessa e rischio, è possibilità e spaesamento. Formare con l’IA non significa sostituire l’umano con l’automazione, ma al contrario interrogarsi su come abitare questa soglia.

In che modo la tecnologia può potenziare – senza invadere – la relazione formativa? Come può aiutare i formatori a leggere meglio i bisogni, ad ascoltare in profondità, a modulare i contenuti secondo i ritmi e le fragilità dei singoli?

Didattica AI per alunni neurodivergenti come tecnica di relazione educativa

La neurodivergenza — autismo, dislessia, disturbo dell’attenzione, iperattività, sindrome non verbale — non è una diagnosi, ma un modo di essere nel mondo. È una forma di percezione, di apprendimento, di relazione con il tempo e con lo spazio che eccede la norma pedagogica dominante. E, come in ogni eccesso, o è accolto o viene espulso. Per anni, il sistema educativo ha tentato di adattare l’alunno alla macchina scolastica curricolare: con i suoi orari, le sue cattedre, le sue valutazioni lineari.

Oggi, in un’epoca in cui la complessità sociale non può più essere contenuta nei moduli ministeriali, la domanda che ci interpella è: possiamo riscrivere la didattica a partire dalle alterità? È qui che l’Intelligenza Artificiale generativa, se letta non come “tecnologia altra”, ma come “tecnica di relazione”, può aprire una nuova frontiera. Lontano dalle suggestioni dell’automazione e del controllo, l’IA può diventare una grammatica di ascolto personalizzata, un’interfaccia sensibile tra la singolarità neurodivergente e il sapere condiviso. Una “intelligenza collettiva” della comunità educante e delle sue Next Generation.

L’IA non semplifica, rende accessibile

Non si tratta di sfruttare i grandi modelli linguistici alla base della IA per “semplificare” il mondo, “facilitare” la strada dell’apprendimento. La sfida non è ridurre la complessità, ma costruire ponti per accedervi.

Per un alunno con disturbo dell’attenzione, l’IA può diventare una guida che scandisce il tempo in micro-task, una voce che restituisce struttura all’apprendimento. Per un ragazzo nello spettro autistico, può rappresentare un’interfaccia dialogica prevedibile, non giudicante, capace di tradurre le sfumature emotive in segnali comprensibili.

Per chi vive la dislessia, può fungere da lettore vocale, da scrittore predittivo, da mediatore tra il pensiero e la parola scritta. E tutto questo può avvenire non solo durante l’orario curricolare, ma anche e soprattutto al di fuori di esso. Un tempo extrascolastico in cui lo “Stato” e la “Scuola” molte volte sembrano arrendersi – economicamente e socialmente – abbandonando le nuove generazioni di cittadini alle cure familiari (a quali genitori?), alle relazioni dei gruppi di amici (o di baby gang?) o all’isolamento collettivo dei social network (o dell’autismo virtuale?). Ed è per questo che il processo di adattamento al non-luogo dell’alterità tramite l’IA non può avvenire in modo neutro. L’algoritmo bayesiano, infatti, se non viene ripensato pedagogicamente, rischia di reiterare la norma, di standardizzare anche la diversità. Ed è per questo che, soprattutto nella didattica extracurricolare, ancor più se “AI-powered”, viene richiesto a tutta la comunità educante uno sforzo di “intelligenza collettiva”, ossia una metodologia relazionale, fondata sull’alleanza tra docenti, tecnologie e soggettività divergenti. Non un loro conflitto; non un loro distanziamento reciproco.

Didattica AI per alunni neurodivergenti come ascolto e progettazione situata

La vera rivoluzione, perciò, non è nel tool, ma nel modo in cui la comunità educante decide di abitare il non-luogo dell’alterità digitale. In una classe attrezzata con intelligenze artificiali per gli ambiti extracurricolari, il docente non abdica al suo ruolo, ma lo trasforma: da “trasmettitore” a “Mastro concertatore” delle attenzioni alle diversità. L’AI, in questo senso, diviene uno “strumento sartoriale”, che permette di disegnare percorsi educativi su misura, restituendo centralità all’alunno e fluidità al processo.

Immaginiamo una piattaforma digitale educativa o un chatbot in grado di analizzare le preferenze cognitive di ciascun alunno — visive, uditive, semantiche e sinestetiche — e suggerire in tempo reale risorse adeguate, più efficaci rispetto il modello standard.

Immaginiamo un ambiente di apprendimento che traduce un contenuto testuale in un video animato per chi fatica a leggere, o che sottotitola automaticamente un dialogo per chi ha difficoltà nell’elaborazione uditiva.

Immaginiamo ancora un assistente IA che suggerisca strategie metacognitive, stimoli l’autoregolazione, riconosca i segnali precoci di sovraccarico sensoriale. O, come accade nel caso dei neurodivergenti, attivi una domanda in caso di “fermo cognitivo”, senza attendere il “loop di assenza di azione” come avviene oggi in tutti i modelli di chatbot in commercio[1].

Modelli flessibili nella didattica AI per alunni neurodivergenti

Tutto ciò è ora possibile. Ma solo se ci dotiamo di una metodologia pedagogica capace di integrare la macchina nella relazione educativa, senza sostituirla. Una metodologia che si fondi su tre principi:

  1. l’ascolto profondo (deep awareness);
  2. la progettazione situata;
  3. l’etica dell’inclusione.

L’ascolto profondo significa riconoscere che ogni alunno è portatore di un proprio capitale semantico-sociale, e che ogni capitale ha il suo linguaggio, e per relazionarsi e apprendere in una “comunità di molti” ha bisogno di traduttori. L’AI può farsi traduttore, ma solo se correttamente istruita a leggere non i dati, ma i segnali del vivente.

La progettazione situata rifiuta l’idea di una didattica universale. Ogni classe è un microcosmo, ogni corpo un laboratorio. L’uso dell’AI deve essere modulato sulla base dei bisogni reali, non delle mode digitali. Un software non è “inclusivo” perché è nuovo, ma perché sa parlare alle differenze. A tutte le differenze. In tutti i contesti diversi da cui la differenza prende forma.

Etica e potenzialità nella didattica AI per alunni neurodivergenti

L’etica della diversità, infine. La scuola digitale non può diventare il nuovo non-luogo della selezione dell’alterità. L’AI non deve essere il nuovo filtro che separi i “bravi” dai “lenti”, ma il collante che permetta a tutti i linguaggi della diversità di accedere alla complessità del sapere.

Perché le macchine non dormono, non mangiano, non si stressano. Possono “vestire” anche migliaia di utenti nello stesso tempo (potenza di calcolo), lasciando però a ognuno la sua diversità linguistica. Dove l’umano non può arrivare la tecnologia può: lo hanno fatto gli aratri, la scrittura, i telai, le locomotive, gli aerei, le lavastoviglie. Oggi il compito lo ha l’intelligenza artificiale.

Verso una scuola post-normativa

L’A ci obbliga a disimparare. Ci chiede di abbandonare la scuola della performance, della lezione frontale, della valutazione sommativa. E ci spinge verso una scuola post-normativa, in cui l’intelligenza è molteplice, il tempo è modulare, l’errore è occasione. Una scuola dove il curricolo non è dettato dal programma ministeriale, ma tracciato da traiettorie di senso. Dove i BES, i DSA, e i Neurodivergenti non sono più etichette burocratiche, ma bussole di navigazione, per esplorare nuove forme del sapere. E in questo paesaggio in trasformazione, la didattica AI-powered per alunni neurodivergenti, in ambito extracurricolare in particolare, è la cartina di tornasole della capacità del sistema educativo di evolversi. Di avere una sua “intelligenza collettiva”. Perché è sulla frontiera della diversità che si misura la qualità di una civiltà. Tutto ciò è una utopia? Un sognare collettivo di un futuro che, come per Godot, mai giunge? Non è così. Come associazione Olimpyus siamo già impegnati a realizzare sperimentazioni didattiche sul campo con percorsi didattici curricolari ed extracurricolari “AI powered”. Per far divenire i neurodivergenti programmatori, ad esempio. Per rendere accessibili materie più complesse per i ragazzi autistici come, sempre ad esempio, la filosofia. Non è quindi il tempo dell’attesa, ma dell’agire.

Una nuova grammatica per la didattica AI per alunni neurodivergenti

Viviamo un tempo in cui la tecnologia non è più esterna al sociale. È incorporata, disseminata, ecosistema. Non possiamo più pensare l’educazione come un atto umano isolato, né la tecnologia come un artefatto neutro. L’IA è già dentro la scuola. Ma il modo in cui ci entrerà pienamente — come strumento di controllo o come alleata dell’inclusione — dipende da noi. Occorre un’alleanza tra pedagogisti, tecnologi, neuropsichiatri, docenti, famiglie e — soprattutto — gli stessi alunni. Un’alleanza per creare una nuova grammatica della didattica, in cui la tecnologia non sia un fine ma una “mediazione consapevole” tra l’alterità e la conoscenza. Perché, in fondo, ciò che oggi chiamiamo intelligenza artificiale non è altro che lo specchio dei nostri desideri. E se desideriamo davvero una scuola inclusiva delle diversità, allora dobbiamo usare quell’intelligenza — artificiale, aumentata o relazionale che sia — per fare spazio. Spazio ai talenti della diversità, alla fragilità della stessa esistenza, alla molteplicità dei modi di apprendere e di evolvere. Un’intelligenza collettiva della comunità educante, dove il messaggio da lanciare alle nuove generazioni, affamate di digitale social, è semplice: “Non ti semplifichiamo il mondo. Vi accederAI”. Crediamo che sia questo il vero patto educativo del nostro tempo dei tempi.


[1] Spesso, nei dialoghi tra neurodivergenti e chatbot generativi, poiché questi ultimi non sono semanticamente agentivi, attendono la domanda dell’utente. Ma nel caso in cui l’utente neurodivergente si blocchi e non inserisca alcuna domanda, anche per tempi lunghissimi, nulla accade. Ognuno attende l’altro. In un loop infinito della reciproca non comprensione.

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