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Ddl AI: la privacy tradita dall’intelligenza artificiale



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La nuova disciplina dell’intelligenza artificiale riduce la privacy a criterio amministrativo, ignorando il principio personalista costituzionale e creando un sistema privo di garanzie effettive per i diritti fondamentali

Pubblicato il 3 giu 2025

Francesca Niola

Research Fellow Legal manager @ Aisma srl



privacy e AI

La relazione tra privacy e intelligenza artificiale costituisce una delle sfide più complesse per il diritto costituzionale contemporaneo.

Il recente disegno di legge italiano del marzo 2025, recante princìpi in materia di ricerca, sperimentazione, sviluppo, adozione e applicazione di sistemi e di modelli di intelligenza artificiale, tenta di regolamentare l’uso dell’IA nella pubblica amministrazione, ma presenta criticità strutturali che compromettono la tutela effettiva dei diritti fondamentali nell’era digitale.

Le radici costituzionali della privacy e la loro crisi

La nozione di privacy, intesa come diritto fondamentale all’autodeterminazione informativa, richiede oggi una radicale rielaborazione teorica, incompatibile con la tradizionale esegesi ancorata alla dimensione statica della riservatezza.

Il suo nucleo originario, scolpito nella formulazione dell’articolo 15 della Costituzione, si radica nell’intangibilità delle comunicazioni personali, nell’inviolabilità dello spazio intersoggettivo protetto contro l’intrusione del potere pubblico. Tuttavia, quella previsione – concepita in un contesto analogico, modellata sul paradigma della corrispondenza postale e telefonica – esprime una logica custodiale che non esaurisce, né può esaurire, l’attuale perimetro delle istanze sottese alla tutela del dato personale.

La trasformazione della privacy in principio regolativo

L’evoluzione degli strumenti di raccolta, trattamento e ricombinazione delle informazioni, soprattutto in contesto digitale e automatizzato, ha inciso in profondità sulla morfologia costituzionale della privacy, imponendo un mutamento di piano: da diritto di interdizione si è tradotta in principio regolativo della circolazione informativa. La privacy non si esaurisce nella garanzia della segretezza individuale, né nella possibilità di impedire l’accesso al dato; assume, piuttosto, il valore di criterio ordinatore delle relazioni tra soggetto, informazione e potere, all’interno di un ecosistema normativo attraversato da algoritmi predittivi, architetture computazionali e dispositivi di sorveglianza diffusa.

La normativa del 2025 e la crisi di legittimazione algoritmica

Il disegno di legge approvato il 20 marzo 2025 introduce una disciplina formalmente organica, ma sistematicamente incoerente, perché costruita attorno a un dispositivo lessicale privo di fondazione costituzionale.

La struttura normativa non si limita a predisporre criteri funzionali di regolazione dell’intelligenza artificiale, ma predispone un ordine implicito dei rapporti tra diritto, tecnica e soggettività, senza interrogarsi sull’origine giuridica della legittimazione attribuita all’algoritmo.

Il legislatore non adotta una teoria della computazione conforme al principio personalista, ma presuppone una compatibilità generalizzata tra automazione e legalità. L’intero impianto si articola a partire da un concetto giuridicamente indeterminato, privo di una delimitazione normativa coerente con i parametri costituzionali: l’intelligenza artificiale riceve una definizione operativa incentrata sulla capacità di produrre output, senza che venga esplicitato alcun rapporto con il potere, con la fonte, o con la responsabilità.

Il legislatore sceglie di qualificare l’intelligenza artificiale come oggetto tecnico, ignorando la sua immediata attitudine a incidere sui rapporti giuridici. L’interferenza dell’algoritmo nei processi decisionali non viene trattata come fenomeno costituzionalmente rilevante, ma come fattore regolabile attraverso la ripetizione dei princìpi generali. La proporzionalità, la trasparenza e la riservatezza non vengono costruite come categorie sistemiche, ma trasformate in standard procedurali, vincolati alla forma dell’atto, e non al suo fondamento.

Assenza di controllo costituzionale e linguaggio giuridico residuale

L’articolo 3, in particolare, svolge una funzione apparente di equilibrio assiologico, ma elude ogni tentativo di definizione dell’ordine normativo dei princìpi richiamati. L’assenza di una superiorità assiologica dei diritti fondamentali rende la disposizione incapace di garantire un controllo costituzionalmente orientato sull’adozione degli strumenti algoritmici. Il linguaggio tecnico giuridico viene sostituito da un codice amministrativo descrittivo, in cui l’intelligenza artificiale assume il ruolo di interlocutore legittimo dell’azione pubblica, privo di titolarità, ma dotato di efficacia.

Il potere decisionale dell’algoritmo senza responsabilità

Il punto cruciale riguarda la mancata qualificazione costituzionale del potere decisionale algoritmico. Il disegno di legge non assume l’algoritmo come produttore di effetti giuridici, ma come supporto tecnico alla decisione umana. Tuttavia, questa assunzione resta priva di verifica normativa, poiché nessuna disposizione impone un vincolo strutturale di prevalenza del soggetto istituzionale sul modello computazionale. La sovrapposizione tra decisione e calcolo viene trattata come problema tecnico, non come questione giuridica. L’autonomia della volontà pubblica viene sovrapposta alla procedura informatica, in assenza di una differenziazione tra logica algoritmica e discrezionalità amministrativa. La razionalità computazionale entra nell’ordinamento come criterio interno di efficienza, senza incontrare un principio di legittimità costituzionale.

La depersonalizzazione del dato e il declino della riservatezza

Il dato, definito all’articolo 2 come qualsiasi rappresentazione digitalizzata di atti, fatti o informazioni, perde ogni carattere soggettivo, e viene assorbito in una categoria omogenea, priva di differenziazione.

Il legislatore non costruisce una tassonomia coerente tra dato identificativo, dato comportamentale e dato relazionale. L’intero sistema di tutele si adagia su una concezione informazionale spersonalizzata, in cui la riservatezza non delimita uno spazio di libertà, ma garantisce la sicurezza funzionale del sistema. L’identità costituzionale del soggetto, anziché generare un diritto alla non computazione, appare viene ridotta a flusso regolare entro l’infrastruttura decisionale.

Accesso all’informazione e crisi dell’autodeterminazione

L’accesso all’informazione viene costruito come adempimento formale, destinato a soddisfare un’esigenza di trasparenza procedurale. L’interessato riceve comunicazioni semplificate, prive di contenuti idonei a consentire un controllo effettivo sul processo decisionale.

L’informazione prevista dal legislatore non si fonda su un diritto alla comprensione critica, ma su un criterio di leggibilità del linguaggio. La struttura normativa presuppone un soggetto già in possesso degli strumenti cognitivi per interpretare la complessità computazionale, senza predisporre alcuna condizione materiale per il suo esercizio. L’autodeterminazione viene trattata come esito naturale dell’accesso all’informazione, senza che l’ordinamento disciplini il nesso tra la volontà individuale e la logica dell’algoritmo.

La privacy, in questo quadro, non produce un arresto del trattamento, né introduce una zona d’indisponibilità intorno al sé informazionale. Il dato personale assume una funzione di input legittimato dalla trasparenza, senza ricevere una qualificazione differenziale rispetto ad altre forme di informazione. La protezione si articola attraverso misure tecniche di sicurezza, senza fondarsi su un criterio costituzionale di indisponibilità della persona. Il dato non rinvia a un’identità giuridica indisgiungibile, ma si riduce a elemento computabile in un processo validato dall’efficienza.

Il legislatore adotta una concezione procedurale della legalità, in cui il rispetto delle condizioni formali del trattamento esaurisce il contenuto della garanzia. La riservatezza non limita la potenza dell’algoritmo, ma ne condiziona l’impiego alla conformità esteriore alle regole. Il diritto alla privacy assume una funzione ausiliaria rispetto alla logica dell’automazione, priva di un fondamento assiomatico che ne imponga l’applicazione come clausola prevalente. L’equilibrio tra l’efficienza tecnica e l’integrità della persona giuridica dipende dall’interpretazione amministrativa del principio di proporzionalità, senza una cornice normativa che stabilisca la superiorità sistemica della libertà personale.

Il principio di territorializzazione come garanzia democratica

La previsione contenuta nell’articolo 6 del disegno di legge approvato il 20 marzo 2025 introduce una condizione infrastrutturale per l’utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale da parte della pubblica amministrazione. La legittimità dell’impiego si fonda sulla presenza fisica dei server in territorio italiano o in Stati dotati di un ordinamento compatibile con gli standard richiesti. Tale disposizione introduce nel diritto positivo un principio di territorializzazione materiale dell’informazione. L’infrastruttura digitale riceve così una qualificazione costituzionale implicita, in quanto sede fisica del potere computazionale. Il dato non esiste come oggetto astratto, ma come relazione giuridicamente situata, dotata di estensione, contenuto e destinazione. La computazione non procede come processo separato dalla giurisdizione: origina, si sviluppa e si conclude entro lo spazio in cui il potere costituito esercita il proprio controllo.

Il dato personale, elaborato da un’infrastruttura localizzata entro il perimetro della Repubblica, risulta assoggettato al principio di responsabilità democratica. Ogni operazione computazionale presuppone una continuità tra informazione e legalità, poiché l’algoritmo, in quanto strumento decisionale, produce effetti giuridici. La sovranità, in questo assetto, assume una forma estesa, che include la custodia materiale della tecnologia. La protezione del dato non deriva da un diritto soggettivo individuale, ma da un vincolo pubblico sulla legittimazione dell’apparato. La privacy, interpretata come prerogativa costituzionale, garantisce la permanenza della persona nello spazio della decisione. Il dato resta ancorato alla volontà politica soltanto se l’elaborazione si realizza entro un sistema fisicamente accessibile al controllo istituzionale.

Server, sovranità e legittimità del processo decisionale

Infatti, il server, inteso come spazio fisico dell’elaborazione, assume rilievo costituzionale in quanto supporto necessario alla determinazione della volontà collettiva. Ogni regime informativo dislocato al di fuori della giurisdizione repubblicana priva il soggetto istituzionale della capacità di garantire la qualità giuridica della decisione. La privacy, attraverso la localizzazione dell’infrastruttura, preserva l’unità tra autorità, dato e responsabilità. Nessun processo decisionale può produrre effetti giuridicamente vincolanti senza un fondamento materiale sottoposto alla sovranità popolare. La Costituzione, nella sua struttura sostanziale, non separa la persona dalla macchina, ma integra il dato nella sfera della legalità attraverso la stabilità territoriale del potere.

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