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Sudan, una crisi anche umanitaria: le iniziative tech in aiuto della popolazione



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L’ennesima guerra sudanese arriva in un momento per il Paese caratterizzato da epidemie, crisi economica e conflitti, che hanno richiesto il supporto delle organizzazioni umanitarie. I motivi che hanno scatenato il conflitto, il ruolo della Wagner, le iniziative tech in aiuto della popolazione

Aggiornato il 2 giu 2023

Marco Santarelli

Chairman of the Research Committee IC2 Lab – Intelligence and Complexity Adjunct Professor Security by Design Expert in Network Analysis and Intelligence Chair Critical Infrastructures Conference



sudan

Gli accordi sull’organizzazione delle prossime elezioni in Sudan tra il generale Abdel-Fattah Burhan e il generale Mohammed Hamdan Dagalo, i due massimi leader militari del Paese, sono degenerati qualche settimana fa nell’ennesimo conflitto del paese africano.

Sono diverse le iniziative, anche in campo tecnologico, messe in piedi per sostenere la popolazione sudanese che si trova a vivere di nuovo un clima di guerra.

Una possibile guerra civile

A quattro anni dalla fine della dittatura di Omar Al Bashir, il Sudan, tra i paesi più instabili al mondo, anche per i suoi confini, composti da paesi come Sud Sudan, Egitto, Ciad, Etiopia, Eritrea, Libia e Repubblica centroafricana, è di nuovo piombato nel caos, “gli edifici sono in fiamme” e “le persone sono intrappolate nelle loro case”, tra bombardamenti, proiettili e fumo, come ha dichiarato Elsadig Elnour, direttore del Sudan Islamic Relief. I due leader militari più importanti, il generale Abdel-Fattah Burhan e il generale Mohammed Hamdan Dagalo, invece di percorrere la strada della democrazia, hanno scatenato un conflitto che rischia di sfociare in una vera e propria guerra civile. Alla base di questa lotta di potere, la rivalità tra l’esercito del Sudan, a capo del Paese con il generale Burhan, presidente de facto, dopo il colpo di stato del 2021 che colpì il governo temporaneo nato a seguito della caduta del dittatore Al Bashir, e le RSF, Rapid Support Forces, gruppo paramilitare di 100.000 soldati guidato da Dagalo, vicepresidente de facto, chiamato dai sudanesi Hemedti, ossia “piccolo Mohammed”. Questo nuovo clima di disordini e tensioni ha come motivo del contendere, che si aggiunge a quello già esistente da tempo del controllo delle miniere d’oro, il disaccordo su come incorporare i 100.000 paramilitari delle RSF nell’esercito nazionale.

Si contano già centinaia di morti e migliaia di feriti e i due schieramenti stanno utilizzando strumentazione militare pesante, come carri armati e aerei da combattimento.

Gli scontri del passato

Diversi sono stati gli scontri in terra sudanese che hanno causato grandi quantità di morti in passato. Parliamo di più di 2 milioni di uccisioni solo nella guerra tra secessionisti del sud e il governo di Khartoum del nord. Nel 2011 con un accordo di pace e un referendum, fu costituito il Sud Sudan.

Ricordiamo anche la condanna alla Corte penale internazionale, CPI, nei confronti delle forze filogovernative per il genocidio del Darfur del 2015, che uccise 300.000 persone e distrusse interi villaggi delle comunità Bantu nel 2003. La milizia Janjaweed, che poi ha dato vita alle RSF, era guidata da Hemedti all’epoca e fu accusata di stupri di gruppo, incendi di villaggi e uccisioni di massa durante la guerra in Darfur. Nel 2020 e nel 2021, poi ci fu la disputa con l’Etiopia per la regione di confine di al-Fashaga (Tigray).

I colpi di stato nel tempo sono stati numerosi a partire dall’indipendenza dal Regno Unito ottenuta nel 1956, ben 6 dal 1958 al 2021.

Una crisi anche umanitaria

L’ennesima guerra sudanese arriva in un momento per il Paese caratterizzato da epidemie, crisi economica e conflitti, che hanno richiesto il supporto delle organizzazioni umanitarie per un terzo della popolazione sudanese. Questa crisi quasi sicuramente si ripercuoterà anche in Europa. Secondo dati ONU, gli sfollamenti interni sono arrivati in meno di un mese a 700.000 e più di 100.000 persone sono fuggite nelle nazioni vicine, tra cui Egitto, Ciad, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana ed Etiopia, secondo quanto riportato da Olga Sarrado, portavoce dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Le Nazioni Unite temono un esodo di massa e stimano che “più di 800.000 persone” potrebbero fuggire dal Sudan. Molti di loro proveranno, non ricevendo asilo nei paesi limitrofi, a raggiungere anche l’Europa. Le vittime sono stimate da 500 a 700 e i feriti sono circa 2.500.

Intanto, si sta lavorando a livello internazionale per inviare in Sudan i primi aiuti umanitari. La Croce Rossa, infatti, sta preparando un carico di otto tonnellate di materiale medico. Tuttavia, la situazione generale potrebbe non farli arrivare a destinazione, a causa dell’enorme distanza tra la costa e gli ospedali e la loro impraticabilità. Il sindacato dei medici sudanesi ha annunciato che 60 degli 86 ospedali operativi nelle aree di crisi sono stati costretti a interrompere le attività e Medici senza Frontiere ha già denunciato il saccheggio di una sua struttura.

I vani tentativi di pace

Le varie ambasciate hanno subito evacuato i cittadini stranieri e tentato di arrivare a una negoziazione, ma senza esito. Sono state dichiarate cinque tregue finora da esercito e RSF, ma nessuna andata a buon fine.

Il 24 aprile scorso Antonio Gutierres, segretario generale dell’ONU, aveva parlato del rischio di un effetto domino e di una “catastrofica conflagrazione all’interno che potrebbe inghiottire l’intera regione e oltre”. Dagalo, qualche giorno dopo, in un’intervista alla BBC aveva dichiarato di non voler il male del Sudan: “Prima deve reggere il cessate il fuoco, poi potremo negoziare. Al Buhran è un traditore perché ha portato nel governo i fedeli del deposto ex-presidente Al Bashir. È guidato dai capi del Fronte islamico radicale. Sto guardando avanti, a un governo civile per il Sudan”.

Secondo il direttore del quotidiano Al Yarida, Mohammed Awad, si tratta di una guerra militare tra fazioni e non di una guerra civile e se Hemedti si ritirerà nel Darfur, questo conflitto si trasformerà in un’assurda guerra, dato che in Darfur e nella Repubblica centroafricana sono presenti anche i mercenari russi del Gruppo Wagner e tra Hemedti e la Russia i rapporti sono sempre più stretti. Hemedti, a quanto pare, era con Putin allo scoppio della guerra contro l’Ucraina per promuovere una possibile base militare di Mosca sul Mar Rosso.

Wagner è attivo anche nella Repubblica Centroafricana ed è stato accusato di aver violato i diritti umani uccidendo civili nei siti minerari. Ecco perché Hemedti è soprannominato dai media il “Prigozhin” sudanese, dal nome del leader del gruppo Wagner Evgenij Prigožin. Hemedti, in cambio del genocidio, aveva ottenuto da Al Bashir il controllo delle miniere d’oro e la conversione dei Janjaweed in RSF.

Alan Boswell, direttore del progetto del Crisis Group per il Corno d’Africa, sostiene che più questa guerra si prolungherà, maggiore sarà il rischio che intervengano anche attori esterni, rendendo il processo di riconciliazione politica più complicato di quanto non lo sia già ora.

Intanto, dallo scorso 6 maggio sono iniziati dei colloqui a Jeddah, in Arabia Saudita, con la mediazione araba e statunitense, per una tregua che favorisca i soccorsi umanitari. Per la prosecuzione dei lavori si è proposta la Turchia, che ha manifestato ad Al Burhan i timori per la situazione sudanese e la volontà, in contatto con l’Onu, di assistere la popolazione dal punto di vista umanitario.

La tecnologia a sostegno della popolazione

Lo sviluppatore Freed Adel, residente in Arabia Saudita, ha messo a disposizione il suo sito personale per le richieste e le offerte di assistenza e aiuto, in base alla posizione delle persone. L’idea è partita dalla necessità di raccogliere in un unico posto tutte le richieste che in maniera dispersiva stavano iniziando a diffondersi sui social media a seguito dello scoppio del conflitto e che riguardano principalmente le risorse essenziali, come medicinali e acqua potabile.

“Non possiamo offrire soldi o aiuti finanziari, stiamo solo cercando di facilitare la comunicazione tra le persone. Voglio connettere i cittadini tra loro”, ha dichiarato Makram Waleed, giovane medico di Khartoum che ha creato una community WhatsApp di 1.200 membri per favorire la raccolta e la soddisfazione di richieste di aiuto.

Dal Canada, invece, Ahmed Mujtaba, l’amministratore delegato di Doctorbase, sta usando la sua app sanitaria per aiutare la popolazione sudanese dal punto di vista medico. Dato che la maggior parte degli ospedali non è attiva o offre solo servizi limitati, a causa delle recenti tensioni, tramite Doctorbase medici di tutto il mondo possono offrire assistenza medica, comunicando con i pazienti già iscritti o trovandone di nuovi. L’app, inoltre, permette di prenotare appuntamenti online, di impostare dei promemoria e di utilizzare una messaggistica sicura. Ovviamente, la criticità del contesto attuale sudanese non consente all’app di poter risolvere ogni problematica, come lo stesso Mujtaba ha evidenziato: “Non posso rivelare i casi specifici, ma purtroppo negli ultimi giorni abbiamo assistito a problemi urgenti, che non possono essere curati con la telemedicina, ma devono andare in ospedale. Avvisiamo le persone il prima possibile, anche prima che inizino la visita, che questa soluzione non è pensata per i casi urgenti, ma purtroppo a causa della situazione i cittadini sono costretti a usare la nostra app”.

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