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Carbon Credit fasulli, diritti umani violati: il pasticcio Netflix e Meta



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La controversia tra le big tech e le comunità Maasai in Kenya riporta l’attenzione su un mercato in crisi, tra accuse di greenwashing, diseguaglianze locali e crediti che rischiano di perdere valore

Pubblicato il 21 mag 2025

Maurizio Carmignani

Founder & CEO – Management Consultant, Trainer & Startup Advisor



meta ai privacy

Netflix e Meta si trovano al centro di una vicenda che intreccia diritti delle popolazioni indigene, sostenibilità ambientale e credibilità del mercato globale dei crediti di carbonio.

Il caso del Kenia per i Carbon Credit Meta, Netflix

Tutto ruota attorno alla sospensione del Northern Kenya Rangelands Carbon Project (NKRCP), il più esteso progetto di compensazione delle emissioni al mondo basato sulla gestione dei pascoli. Avviato nel 2012, il progetto copre circa 4,7 milioni di acri nel nord del Kenya, un territorio abitato da comunità come i Maasai, i Borana e altri gruppi pastorali. L’obiettivo dichiarato è quello di incentivare il pascolo rotazionale per rigenerare i suoli e aumentare l’assorbimento di carbonio, in cambio della vendita di crediti certificati nel mercato volontario.

How Big Tech’s carbon offsets are threatening Kenyans

Una controversia legale ha bloccato l’intero meccanismo. Alcune comunità accusano la Northern Rangelands Trust, l’organizzazione responsabile del progetto, di aver imposto il programma senza un consenso libero e informato. Il tribunale keniota ha dato loro ragione, sollevando dubbi sulla validità di milioni di crediti già venduti. Tra gli acquirenti figurano colossi come Netflix e Meta, che utilizzano questi crediti per compensare le proprie emissioni derivanti da data center, attività operative e spostamenti aziendali.

Diritti traditi e pastori in rivolta


Secondo il tribunale keniota, almeno una delle principali conservancies coinvolte nel progetto è stata istituita senza un reale consenso da parte delle comunità, talvolta con pratiche di pressione e intimidazione. La sentenza, ora oggetto di appello, rischia di invalidare fino al 20% dei crediti già emessi e solleva dubbi sulla validità di quelli generati in altre zone. Gli attivisti Maasai denunciano una dinamica di espropriazione silenziosa: vaste porzioni di terre ancestrali potrebbero finire bloccate in schemi di compensazione o aree protette, compromettendo il modello millenario di pastorizia nomade. “Questa terra è la nostra eredità. Faremo di tutto per proteggerla”, ha dichiarato uno dei giovani leader del movimento di protesta.

Le grandi aziende e il rischio greenwashing


Netflix e Meta si difendono affermando che i crediti acquistati siano stati verificati da enti accreditati come Verra, il principale standard setter nel mercato volontario dei crediti di carbonio. Meta ha dichiarato di essere carbon neutral dal 2020, Netflix dal 2022. La vicenda in Kenya dimostra però come la semplice validazione tecnica non sia sufficiente a garantire l’integrità e l’equità di un progetto. Il caso apre infatti un dibattito più profondo: può un’azienda considerarsi veramente “carbon neutral” se i crediti acquistati provengono da progetti che non rispettano i diritti delle comunità locali? Fino a che punto si può ritenere che le compensazioni rappresentino una riduzione reale delle emissioni, anziché una partita contabile o reputazionale?

Il rischio di greenwashing, la pratica di costruire un’immagine ecologica ingannevole, è particolarmente alto quando si utilizzano crediti legati a progetti controversi o poco trasparenti. Anche nel caso in cui siano formalmente conformi agli standard esistenti, questi strumenti possono rivelarsi fragili dal punto di vista etico, sociale e ambientale. Per le aziende, ciò comporta non solo un rischio reputazionale, ma anche finanziario e regolatorio, in un contesto in cui cresce la pressione per rendicontazioni ESG più rigorose e verificabili. La domanda chiave diventa, è sufficiente “comprare” crediti, o serve un cambiamento sistemico nel modo in cui si integra la sostenibilità nei modelli di business? Le risposte a questa domanda determineranno il futuro della credibilità ambientale delle imprese nel prossimo decennio.

Carbon Credit: un mercato in crisi sistemica

La controversia in Kenya si inserisce in un contesto globale di forte turbolenza per il mercato volontario dei crediti di carbonio (VCM). Dopo aver raggiunto un picco di 1,9 miliardi di dollari nel 2022, il mercato si è contratto drasticamente fino a 723 milioni nel 2023. La crisi è attribuibile a una combinazione di fattori: inchieste giornalistiche che hanno smascherato progetti inefficienti o fraudolenti, revisione dei criteri da parte delle agenzie di rating, e una crescente diffidenza da parte di aziende e investitori.

Grandi operatori del settore come South Pole, un tempo considerato un leader globale, hanno dovuto ridimensionare le attività e licenziare personale. Uno dei casi più eclatanti ha riguardato il progetto Kariba REDD+ in Zimbabwe https://carbongreenafrica.net/kariba-redd-project/, accusato di aver emesso milioni di crediti senza riscontro in reali riduzioni delle emissioni. La conseguente sospensione da parte di Verra e la rottura con South Pole hanno segnato un precedente critico per tutto il comparto. A rendere ancora più instabile il quadro sono i crolli dei prezzi: i crediti REDD+ sono passati da oltre 16 dollari a meno di 8 dollari a tonnellata, molti, specie quelli criticati o con rating bassi, vengono svenduti anche sotto i 50 centesimi.

Alcuni analisti parlano apertamente di “asset incagliati”, strumenti privi di valore reale o di mercato. La fiducia, componente fondamentale in un mercato volontario, è oggi fortemente compromessa. Questa crisi sistemica non è solo finanziaria, è reputazionale, metodologica e strategica. La domanda nasce spontanea, i crediti di carbonio possono ancora rappresentare un pilastro della transizione climatica o sono diventati un meccanismo troppo fragile per sostenere un obiettivo così ambizioso?

Un potenziale da 250 miliardi, ma senza acquirenti: i problemi

Esiste un segmento del mercato del carbonio che viene spesso indicato come la prossima frontiera della decarbonizzazione, quello della carbon removal, ovvero l’insieme delle tecnologie e pratiche che puntano a rimuovere direttamente la CO₂ dall’atmosfera. Secondo le stime di MSCI Carbon Markets https://www.msci.com/our-solutions/climate-investing/carbon-markets, questo comparto potrebbe raggiungere un valore annuo di 250 miliardi di dollari. I numeri attuali mostrano però un disallineamento preoccupante, ad oggi, meno del 2% delle rimozioni necessarie entro il 2050 è stato acquistato o finanziato.

Solo 24,3 milioni di tonnellate di CO₂ sono state effettivamente rimosse con tecnologie ingegneristiche, appena lo 0,2% del fabbisogno globale. Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, le aziende sono restie a investire in tecnologie ancora sperimentali o non scalabili, come il direct air capture, una tecnologia che cattura l’anidride carbonica (CO2) direttamente dall’atmosfera, separandola dall’aria e consentendo il suo stoccaggio o utilizzo https://www.iea.org/energy-system/carbon-capture-utilisation-and-storage/direct-air-capture o la mineralizzazione dei suoli, un processo chiave in cui la materia organica si degrada, liberando nutrienti in forma disponibile per le piante.

Il timore di essere accusati di speculazione o greenwashing in caso di fallimento tecnico è molto alto. Inoltre, l’estrema eterogeneità dei crediti, in termini di durata della rimozione, affidabilità della misurazione e reversibilità del sequestro, crea un mercato in cui un credito può costare 80 dollari (da riforestazione) o 1.000 (da DAC), ma non sono percepiti come equivalenti. Questo rende impossibile costruire strumenti finanziari standardizzati o piattaforme liquide di scambio. Anche le dinamiche di mercato sono distorte, oggi il settore è dominato da pochi attori tecnologici.

Microsoft da sola rappresenta il 76% degli acquisti di crediti da rimozione ingegneristica. Altri grandi acquirenti come Stripe, Google e McKinsey agiscono in cordata tramite l’iniziativa Frontier, ma nel complesso la platea di compratori resta minuscola. In assenza di obblighi normativi, come quelli previsti nei mercati regolamentati europei, le imprese non hanno incentivi sufficienti per acquistare questi crediti. Le agenzie come SBTi invitano ancora a concentrare gli sforzi sulla riduzione diretta delle emissioni (Scope 1 e 2) piuttosto che sull’offsetting delle emissioni indirette (Scope 3), contribuendo così a mantenere il mercato della removal in uno stadio embrionale. Infine, esiste anche un problema assicurativo: cosa succede se una foresta riforestata va a fuoco? Se un impianto di cattura diretta fallisce tecnologicamente? Startup come Kita o Patch cercano di creare soluzioni di credit replacement e polizze di garanzia, ma il mercato è ancora fragile e sottodimensionato rispetto ai rischi. Come ha osservato Bee Hui Yeh, responsabile strategia di Patch, “spesso si pretende che questo mercato sia perfetto, ma è una pretesa irrealistica. Non possiamo demonizzare chi compra, dobbiamo piuttosto costruire strumenti più trasparenti, solidi e incentivanti”.

Verso una nuova governance del carbonio


Il caso Netflix-Meta non rappresenta soltanto una questione di reputazione aziendale, ma segna un punto di svolta nella percezione e nella gestione dei crediti di carbonio. L’attuale crisi mostra che non è più sostenibile affidarsi a un sistema volontario frammentato, scarsamente regolato e vulnerabile alle accuse di greenwashing. Servirebbe una fase nuova, fondata su regole chiare, accountability condivisa e criteri di qualità riconosciuti a livello globale. Uno scenario possibile è che emerga una convergenza tra i mercati volontari e quelli regolamentati, con meccanismi ibridi che impongano standard minimi anche per le aziende che operano fuori dall’ambito ETS. Un altro sviluppo potrebbe essere il consolidamento degli attori più solidi e trasparenti, a discapito di progetti opachi o deboli dal punto di vista tecnico e sociale. Allo stesso tempo, crescerà la pressione per rendere obbligatoria la disclosure delle strategie di offsetting, distinguendo chiaramente tra riduzioni reali e mere compensazioni.

In questo scenario di trasformazione, anche l’intelligenza artificiale può offrire un contributo rilevante. Dalla verifica automatizzata dei dati satellitari per monitorare l’effettivo assorbimento di carbonio nei progetti, all’analisi predittiva dei rischi climatici e alla gestione trasparente dei flussi finanziari legati ai crediti, l’AI può abilitare nuovi standard di tracciabilità, auditability e responsabilità. Inoltre, può aiutare le aziende a valutare scenari alternativi di decarbonizzazione, integrando dati operativi, supply chain e impatti indiretti in modo più realistico e tempestivo.

Le aziende più consapevoli, se vorranno mantenere la fiducia di clienti, investitori e autorità, dovranno adottare un approccio più integrato: non solo acquistare crediti, ma contribuire allo sviluppo di progetti di qualità, con metriche rigorose, benefici misurabili per il clima e coinvolgimento autentico delle comunità locali. Solo con una governance più solida, multilivello e fondata sulla trasparenza sarà possibile trasformare i crediti di carbonio da strumento difensivo a leva strategica per la transizione ecologica. Il tempo dei certificati facili è finito, ora è il momento delle scelte complesse.

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