sostenibilità

Le tecniche “cattura CO2” per ridurre le emissioni: tecnologie e prospettive

La cattura CO2 è tra le tecnologie disponibili per mitigare le emissioni di CO2 e rendere economicamente più sostenibile la transizione verso un sistema energetico completamente decarbonizzato. Il gruppo GECOS del Politecnico di Milano fa ricerca su sistemi di cattura CO2. I principali risultati ottenuti

Pubblicato il 21 Mar 2023

Emanuela Totaro

Segretario Generale di Fondazione Kainòn

Climate Tech: le tecnologie per decarbonizzare

Attualmente la maggior parte delle tecnologie energetiche per la produzione di energia elettrica e calore o per la propulsione di veicoli sono basate sul processo di combustione. Esempi comuni sono i motori a combustione interna utilizzati per la trazione automobilistica (come pure per mezzi pesanti e navi), le turbine a gas ed i cicli vapore utilizzati per la produzione di energia elettrica, le turbine a gas per la propulsione aeronautica e le caldaie per riscaldamento civile o per processi industriali. Oltre a potere produrre inquinanti quali ossidi di azoto, monossido di carbonio e particolato, il processo di combustione genera CO2 come risultato inevitabile dell’ossidazione degli atomi di carbonio contenuti nel combustibile (sia esso fossile, come il petrolio e suoi derivati o come il gas naturale, che biogenico come la biomassa legnosa o il biogas).

Cattura e stoccaggio di co2: come ridurre le emissioni di anidride carbonica dall'aria?

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La CO2 non è un inquinante direttamente nocivo per la salute umana (come invece lo sono il monossido di carbonio, gli ossidi di azoto ed il particolato) ma è un gas serra. Per cui maggiore è la concentrazione di CO2 nell’atmosfera e maggiore è l’effetto serra ed il potenziale impatto in termini di riscaldamento globale. Basti pensare che prima della rivoluzione industriale la concentrazione di CO2 nell’atmosfera era 260 ppm (parti per milione) mentre attualmente è superiore ai 400 ppm, in costante aumento.

Le strategie per ridurre le emissioni di CO2

Le possibili strategie per ridurre le emissioni di CO2 sono molteplici, ad esempio: il risparmio energetico, l’uso di fonti rinnovabili, l’utilizzo di biocarburanti, l’uso di energia nucleare, la cattura CO2, la riforestazione, etc. Come ben spiegato già in un famoso articolo scritto circa 20 anni fa da due professori della Princeton University (Robert Socolow and Steve Pacala), purtroppo nessuna di queste opzioni riesce da sola a risolvere il problema, date le dimensioni enormi delle emissioni di CO2 determinate dall’attività umana. È quindi necessario integrare le diverse strategie di decarbonizzazione tra loro, cercando di bilanciare nel modo migliore aspetti di fattibilità tecnica, impatto ambientale e sostenibilità economica.

La cattura della CO2

L’idea della cattura della CO2 è quella di utilizzare processi di separazione gas già noti nell’industria chimica (assorbimento, adsorbimento, cambio di fase/distillazione, membrane) per separare la CO2 dal flusso di prodotti di combustione. La CO2, una volta separata (o “catturata”), viene poi o sequestrata in siti di stoccaggio permanenti (Carbon capture and storage, CCS, con stoccaggio in siti quali i giacimenti esauriti di gas o altre formazioni geologiche profonde) oppure riutilizzata per fabbricare altri prodotti contenenti carbonio (Carbon capture and utilization, CCU) quali cemento, plastiche e biocombustibili; oppure può essere sottoposta in parte all’una ed in parte all’altra delle due operazioni (sequestro e utilizzo, CCUS). I siti di stoccaggio permanente della CO2 sono formazioni geologiche molto profonde, come ad esempio formazioni acquifere saline oppure giacimenti di gas o di petrolio esauriti. Ci sono già diversi siti di stoccaggio della CO2 che sono operativi e sotto monitoraggio da decenni. Questi siti sono in Norvegia, Canada, USA ed Australia e stanno sequestrando circa 8 MtCO2/anno. Secondo l’International Energy Agency, la capacità degli stoccaggi di CO2 è tra 8000 e 55000 GtCO2, largamente superiore alla quantità di 220 GtCO2 che dovrebbe essere catturata nel periodo 2020-2070 per raggiungere gli obiettivi di “net zero CO2” prefissati per il 2050 (Net Zero by 2050 – Analysis – IEA).

Il pioniere di questa tecnologia è stato l’impianto off-shore di Sleipner (nel mare del Nord) dove dal 1996 viene estratto gas naturale contenente circa il 9% di CO2. La maggior parte di questa CO2 deve essere rimossa per soddisfare le specifiche di qualità del gas naturale commercializzato. Per evitare l’imposta particolarmente onerosa gravante in Norvegia sulle emissioni di CO2 in atmosfera, all’impianto fu abbinato un processo di cattura e stoccaggio della CO2 rimossa nel processo di addolcimento del gas naturale. Da allora oltre 16 Mt CO2 sono state stoccate in un acquifero salino posto circa 1000 m al di sotto del fondale marino [doi: 10.1016/j.egypro.2017.03.1523].

Il progetto Sleipner si è rivelato un successo dal punto di vista tecnico (oltre che economico). Il monitoraggio geofisico del sito di stoccaggio ha permesso di approfondire la comprensione dei meccanismi di trasporto della CO2 (anche perché una parte dei dati rilevati nelle campagne sperimentali è stata resa disponibile alla comunità scientifica) dimostrando che essa resta confinata in sicurezza in prossimità dei punti di iniezione, dissolvendosi progressivamente in acqua. L‘esperienza maturata in questo progetto ha permesso un notevole sviluppo della tecnologia, ponendo le basi per la sua diffusione.

Se il combustibile utilizzato dall’impianto è fossile, la cattura ed il sequestro della CO2 consente di evitare una frazione apprezzabile di emissioni di CO2 (dettagli nel seguito). Se il combustibile è rinnovabile, come ad esempio le biomasse (legno) o il biogas, e si applica la cattura CO2 con sequestro, si ottiene un sistema cosiddetto ad emissioni negative che quindi ha l’effetto di ridurre la concentrazione di CO2 dall’atmosfera, non limitandosi a diminuire le emissioni ma ‘sottraendo’ carbonio e CO2 (perché le biomasse crescendo assorbono CO2 dall’atmosfera con il processo di fotosintesi).

Cattura della Co2 (CCS), quali speranze per salvare il pianeta

Le ricerche del gruppo Gecos

Il gruppo GECOS (Group of Energy COnversion Systems) del Politecnico di Milano fa ricerca su sistemi di cattura CO2 da oltre 25 anni. Il gruppo consiste di circa 20 professori e 40 ricercatori (post-doc e dottorandi) e, a livello internazionale, è uno dei principali gruppi di ricerca attivi sulla cattura CO2. Finora ha partecipato ad oltre 20 progetti di ricerca internazionali sulla cattura della CO2 (principalmente progetti Europei, ma anche con enti governativi italiani ed esteri, quali i governi americano e norvegese) sviluppando diversi brevetti e pubblicando oltre 200 articoli su riviste internazionali specializzate. Si noti che le attività di ricerca del gruppo GECOS non si limitano ai sistemi di cattura CO2 ma coprono anche tutte le altre tecnologie per i processi di “clean power generation” e conversione dell’energia quali le rinnovabili (es. solare a concentrazione e fotovoltaico, produzione di idrogeno verde e biofuels), le celle a combustibile, le microreti, la valorizzazione energetica dei rifiuti, etc., con una visione ‘olistica’ del mondo dell’energia.

Le attività sulla cattura CO2 si focalizzano sullo sviluppo ed ottimizzazione di sistemi di cattura CO2 per impianti di produzione di energia elettrica (sia da fonte fossile che fonte rinnovabile), impianti per la produzione di combustibili decarbonizzati (e.g., blue hydrogen) e per i processi dei grandi emettitori industriali (cementifici, acciaierie, etc).

I sistemi per la cattura CO2 si classificano in tre principali famiglie, tutte oggetto di studio e ricerca da parte dei ricercatori del gruppo GECOS:

  • Cattura CO2 post-combustione
  • Cattura CO2 pre-combustione
  • Ossi-combustione

Cattura CO2 post-combustione

Nei processi post-combustion capture, la cattura della CO2 avviene direttamente dai fumi, a valle del processo di combustione, cioè allo scarico della caldaia, turbina, motore (appena prima del camino). Le tecnologie più consolidate si basano su processi di assorbimento con solventi affini alla CO2, come le ammine in soluzione acquosa. Queste sostanze si legano alla CO2 e la possono poi rilasciare (in forma concentrata, pronta per essere sequestrata in sito geologico idoneo oppure riutilizzata), dopo essere stati riscaldati opportunamente, con un certo consumo di calore. Tali processi di assorbimento sono usati per la rimozione dalla CO2 dal gas naturale estratto dai giacimenti da diversi decenni e sono ben noti. Sono stati testati anche per la cattura CO2 da fumi di centrali termoelettriche (turbine a gas, cicli combinati, cicli vapore, caldaie industriali, etc) in impianti dimostrativi su grande scala. Una delle test facility più rilevanti a livello mondiale per questi fluidi è quella del Technology Center di Mongstad (Norvegia) dove vengono testati vari tipi di solventi per cattura post-combustione.

Test recenti (pubblicati ad Ottobre 2022) effettuati presso il centro di Mongstad confermano che le ammine riescono a raggiungere facilmente livelli di cattura del 90% con consumi specifici di calore richiesto per la rigenerazione del solvente (i.e., rimuovere la CO2 catturata dal solvente per poterlo riutilizzare in un processo continuo) in linea alle previsioni fatte su base teorica nella letteratura scientifica. In questo tipo di applicazione, a causa del consumo di calore richiesto per rigenerare il solvente, il rendimento della centrale elettrica inevitabilmente si riduce rispetto a soluzioni senza cattura della CO2. D’altra parte, separare un gas (nel caso in questione CO2) da una miscela di gas non può avvenire spontaneamente ma, per il secondo principio della termodinamica, richiede un consumo energetico aggiuntivo. Tale riduzione di rendimento è stata quantificata in ormai centinaia di studi effettuati da centri di ricerca (tra cui il gruppo GECOS del Politecnico di Milano), enti governativi ed aziende. Gli studi più affidabili sono quelli basati su test sperimentali che permettano di quantificare esattamente il consumo di calore richiesto per la rigenerazione del solvente (come ad esempio i test effettuati a Mongstad) e che utilizzano modelli validati delle centrali termoelettriche (turbina a gas, ciclo vapore, etc). Esempi sono gli studi effettuati dal gruppo GECOS[1].

Il costo dell’energia elettrica generata da una centrale termoelettrica (ciclo vapore o ciclo combinato) dotata di cattura post-combustione aumenta per due importanti fattori:

  • l’aumento del costo di investimento dovuto ai componenti aggiuntivi da installare (colonna di assorbimento, colonna di stripping/rigenerazione del solvente, pompe, scambiatori di calore e compressori vari)
  • la riduzione di rendimento dell’impianto (che quindi consuma più combustibile per generare la stessa quantità di energia elettrica).

Valori di costo di produzione dell’energia elettrica con sistemi di cattura CO2 sono riportati nella sezione sotto intitolata “Cattura CO2 e decarbonizzazione della rete elettrica”.

Esistono poi altre tecnologie studiate per la cattura CO2 dai fumi (sempre quindi post-combustion) che non ricorrono ai solventi basati su ammine: sono le membrane polimeriche, i materiali adsorbenti innovativi (e.g., metal organic framework), i solventi innovativi (e.g., aminoacidi), le celle a combustibile a carbonati fusi (MCFC, le quali hanno il vantaggio di funzionare rimuovendo la CO2 dai fumi e concentrandola mentre producono energia elettrica, ovvero di essere un separatore ‘attivo’ della CO2).

Il principale vantaggio dei sistemi di cattura post-combustion rispetto ai sistemi oxy-combustion e pre-combustion (spiegati nel seguito) è la possibilità di applicarli agli impianti già esistenti (es. centrali termoelettriche a gas naturale o a carbone, caldaie, oltre a processi industriali in genere che abbiano emissioni di CO2) senza la necessità di costruire un nuovo impianto.

CCUS 101 - How is CO2 captured and stored

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Ossi-combustione

Molto promettente è la cattura CO2 con sistemi ad ossi-combustione. L’idea è quella di usare dapprima un processo di separazione aria (gli stessi utilizzati oggi per produrre ossigeno per gli applicazioni medicali, chimiche e le acciaierie) per separare l’ossigeno dall’azoto, ed utilizzare quindi il flusso di ossigeno al posto dell’aria per il processo di combustione. In questo modo i prodotti di combustione non sono diluiti dall’azoto presente nell’aria e contengono quasi esclusivamente CO2 ed H2O: da questi fumi, il calore puòl essere utilizzato per produrre energia elettrica mediante un ciclo termodinamico, mentre la CO2 può essere separata per semplice raffreddamento e condensazione dell’acqua. In questi sistemi il principale consumo energetico aggiuntivo, rispetto ad un impianto privo di cattura, è l’energia elettrica richiesta dai compressori dell’unità di separazione dell’aria (detta Air Separation Unit).

Il principale vantaggio dei processi ad ossicombustione è l’assenza di un vero e proprio camino e di emissioni di inquinanti: i prodotti uscenti dall’ossicombustore (acqua e CO2) vengono convogliati ad una parte di impianto dove l’acqua viene condensata ed esce allo stato liquido, mentre la CO2 viene catturata per successivo sequestro (CCS) o riutilizzo (CCU). Il livello di cattura della CO2 raggiungibile è prossimo al 100%, valore difficilmente raggiungibile con la cattura post-combustion e pre-combustion. Altro vantaggio è l’assenza di solventi chimici: il processo di separazione aria è basato sulla compressione e liquefazione dell’ossigeno a temperature criogeniche, mentre la separazione finale della CO2 dai fumi avviene per semplice condensazione dell’acqua. Per questi motivi i cicli ad ossicombustione sono tra le tecnologie più promettenti nel campo della CCUS, sebbene richieda una riprogettazione di tutti i componenti principali dell’impianto.

Secondo uno studio effettuato dal gruppo GECOS in collaborazione con Wood-Amec Foster Wheeler per l’International Energy Agency (IEA) all’interno del “IEA Greenhouse Gas R&D Programme”, tra queste tecnologie ci sono cicli ad ossicombustione per power generation che presentano rendimenti e costi molto promettenti, come il ciclo “Allam” ed il ciclo “SCOC-CC”, con rendimenti elettrici netti prossimi al 55%[2].

Ad esempio, è già stato costruito dall’azienda americana Net Power un impianto dimostrativo di scala industriale (potenza elettrica di circa 25 MW) del ciclo “Allam”.

Inoltre, il gruppo GECOS ha ideato e brevettato in questo settore un nuovo ciclo ad ossicombustione, denominato ciclo “SOS-CO2”, che sfrutta l’integrazione con celle a combustibile di tipo SOFC (Solid Oxide Fuel Cell) per raggiungere rendimenti elettrici elevatissimi (> 70%, anche superiori a sistemi senza cattura CO2) pur mantenendo l’assenza di emissioni di inquinanti (no camino) e consentendo la cattura completa (prossima al 100%) della CO2.

Oltre che nei cicli per la produzione di energia elettrica, l’ossicombustione è molto promettente per la cattura di CO2 nei cementifici, grazie ai minori consumi energetici rispetto alle tecnologie concorrenti, come risulta dalla ricerca.

Cattura, sequestro e riuso della CO2: le sfide della decarbonizzazione

Cattura CO2 pre-combustione

La cattura della CO2 viene implementata a monte del processo di combustione (“pre-combustion CO2 capture”) essenzialmente convertendo il combustibile di partenza in idrogeno e CO2 tramite processi di reforming (per combustibili gassosi) o di gassificazione (per combustibili solidi), e poi catturando la CO2 prima che avvenga la combustione tramite processi di separazione gas (principalmente processi di assorbimento o adsorbimento). L’idrogeno così prodotto (denominato “blue hydrogen” se il combustibile utilizzato è fossile, in particolare se prodotto da gas naturale; denominato invece “green hydrogen” se il combustibile utilizzato è biogenico) può essere utilizzato per produrre energia elettrica in turbine a gas, cicli combinati o celle a combustibile ad alta efficienza, oppure utilizzato per la mobilità ad idrogeno, oppure per l’industria chimica (per la produzione di ammoniaca, fertilizzanti e combustibili decarbonizzati tramite i processi Fischer Tropsch, DME, metanolo, etc). Si noti che i processi di gassificazione e reforming congiunti a processi ausiliari di water gas shift e separazione della CO2 dal syngas che consentono di completare il processo sono utilizzati da oltre cinquanta anni in campo industriale per produrre idrogeno, ammoniaca e fertilizzanti. Operano centinaia di impianti al mondo di questo tipo e la quasi totalità rilascia in atmosfera la CO2 separata semplicemente a causa dell’assenza di siti di stoccaggio adiacenti l’impianto e dell’assenza di un’infrastruttura di trasporto della CO2.

Per la produzione di sola energia elettrica, la via pre-combustion è poco attraente perché il costo di investimento necessario per realizzare l’impianto è superiore alle altre soluzioni precedentemente esposte. Viceversa, la via pre-combustion tramite reforming del gas naturale o gassificazione delle biomasse o del carbone può essere economicamente molto competitiva per la poligenerazione di idrogeno (blue o green), combustibili decarbonizzati ed energia elettrica. A tal proposito, segnaliamo i recenti studi su:

Cattura CO2 e decarbonizzazione della rete elettrica

Il costo di generazione dell’energia elettrica (euro/MWh) di una centrale elettrica a combustibile dipende dal costo del combustibile utilizzato (che varia in base a tipologia, condizioni di mercato, scelte politiche, crisi internazionali, difficoltà di approvvigionamento, costi di trasporto, etc), dal rendimento elettrico netto, dal numero di ore di funzionamento annue, dal regime di carico di funzionamento, dal costo di investimento e costruzione dell’impianto e dai costi di esercizio e manutenzione. Questo indipendentemente dal fatto che la centrale sia dotata di cattura di CO2 o meno; tuttavia, le centrali con cattura avranno costi di investimento maggiori e costi di esercizio maggiori legati all’impiego delle diverse tecnologie descritte sopra. Ad esempio, se si considera un costo del gas naturale di 30 euro/MWh (valore considerato “elevato” in uno scenario “normale” di mercato in assenza di crisi di forniture, speculazioni, etc., come evidente dal profilo storico del prezzo del gas registrato dal 2017 al 2021 e disponibile al link https://www.mercatoelettrico.org/Newsletter/20210615Newsletter.pdf), il costo dell’energia elettrica generata da un ciclo combinato senza cattura di CO2 che funziona circa 8000 ore/anno a pieno carico (quindi una centrale di tipo “base load”) sarebbe circa 60 euro/MWh. Se si applicasse un sistema di cattura CO2 (post-combustion con ammine o oxy-combustion), il costo dell’energia elettrica prodotta aumenterebbe a circa 90-100 euro/MWh, come stimato nei seguenti articoli e report tecnico-scientifici:

Se il costo del combustibile fosse il doppio (60 euro/MWh, costo che potrebbe essere rappresentativo del gas naturale importato via nave come LNG e poi rigassificato), il costo dell’energia elettrica prodotta da impianti senza cattura sarebbe circa 110 euro/MWh mentre sarebbe circa 150 euro/MWh con cattura CO2, come si evince anche dal report NETL che traccia il COE in funzione del costo del gas naturale.

Se il ciclo la centrale termoelettrica (ciclo combinato) è destinato alla modulazione/bilanciamento della rete elettrica ed opera solo 2000 ore l’anno, il costo dell’energia elettrica prodotta aumenterebbe e sarebbe di circa 200 euro/MWh (con la cattura della CO2).

Come confronto, i sistemi a fonte rinnovabile economicamente più vantaggiosi (ossia con costo dell’energia elettrica prodotta minore; trascurando il settore idroelettrico che perlomeno in Italia ha già raggiunto la maturità e saturazione di quasi tutti i siti di installazione di grande scala disponibili) sono oggigiorno il solare fotovoltaico e l’eolico. Oggi, il costo dell’energia elettrica prodotta da impianti fotovoltaici di grande taglia (denominati “utility scale”, da decine di ettari e decine di MW elettrici di potenza di picco) situati in zone ad elevato irraggiamento è di circa 30-40 euro/MWh. Nel caso di impianti più piccoli il costo dell’energia elettrica prodotta sale da 75 euro/MWh (impianti da centinaia di kW elettrici) fino a 115 euro/MWh per impianti di taglia domestica (< 20 kW). Come confronto, impianti eolici off-shore “utility scale” (> 3 MWel, > 140 m di altezza) installati in zone con ventosità medio/alta hanno un costo dell’energia elettrica di circa 80 euro/MWh.

Impianti eolici on-shore “utility scale” installati in zone molto ventose hanno costi paragonabili al solare fotovoltaico utility scale. Tuttavia, non è corretto confrontare direttamente questi costi con quelli delle centrali termoelettriche (con o senza cattura). Infatti, è da notare che non è sufficiente installare pannelli fotovoltaici o turbine eoliche per sostituire una centrale termoelettrica poiché quest’ultima è un impianto “dispacciabile”, ossia che può funzionare ininterrottamente giorno-notte/estate-inverno e che riesce a modulare liberamente la potenza elettrica prodotta garantendo il bilanciamento della rete elettrica. Per cui, se si dovesse sostituire integralmente un ciclo combinato con un impianto a fonte solare di pari “dispacciabilità” (pari capacità di regolare la potenza erogata in ogni stagione ed ora del giorno), sarebbe necessario disporre anche un grande sistema di accumulo energetico, con un considerevole aggravio di costi, come spiegato nel seguito.

Secondo i costi attuali per impianti di taglia industriale, il costo di una batteria al litio è nel range 300-450 euro/kWh (doi: 10.1016/j.est.2021.102748). Si noti che, nonostante il loro successo nelle applicazioni sui veicoli, le tecnologie agli ioni di litio per lo stoccaggio di energia stazionaria su scala di rete non hanno ancora dimostrato piena fattibilità tecnico-economica: sebbene possano funzionare con densità di potenza inferiori rispetto alle applicazioni mobili, in quanto non sono vincolate dal volume o dal peso, devono viceversa dimostrare una maggiore durata della batteria in termini di ore operative e cicli d’uso (gli obiettivi sono ad es. di 15 anni di vita e 30.000 cicli), oltre a ridurre le perdite per autoscarica e nei cicli di utilizzo (a tale proposito, gli esiti di impianti sperimentali testati da Terna SpA sono arrivati a rendimenti netti non superiori all’80%, pur ottenendo in laboratorio efficienze superiori).

Da uno studio recentemente svolto in collaborazione con ENEA sullo sviluppo di impianti solari a concentrazione (finanziato dal Ministero della transizione ecologica), se la batteria viene dimensionata per seguire l’andamento della domanda elettrica nazionale, il costo dell’energia elettrica del sistema PV + batteria sale a 260 euro/MWh, pur non arrivando a consentire la piena autonomia, rimanendo comunque diversi periodi dell’anno (e.g., successione di giorni nuvolosi) nel quale la domanda non viene soddisfatta. Anche integrando pannelli PV con batterie ed impianti solari a concentrazione (CSP) con grandi accumuli termici a sali fusi, il costo dell’energia elettrica prodotta resta superiore ai 240 euro/MWh con diversi periodi dell’anno nei quali il sistema non riesce a soddisfare la domanda elettrica (lo studio mostra che circa il 20% della domanda elettrica annuale resta scoperta).

Si noti che la batteria è un sistema di accumulo di breve termine e che non riesce comunque a garantire la fornitura di energia in inverno, quando l’irraggiamento è minore e, specialmente al Nord, ci sono lunghi periodi (anche settimane) di tempo nuvoloso. La differenza tra l’energia elettrica erogata nei mesi centrali dell’estate rispetto ai corrispondenti invernali, per gli impianti fotovoltaici presenti in Italia, è infatti pari a circa 3 volte (dati GSE; la stessa situazione si ha in tutti i Paesi il cui posizionamento geografico ha latitudine media simile all’Italia). Per questo motivo sono necessari anche sistemi di accumulo stagionale, per accumulare l’eccesso di energia elettrica fotovoltaica prodotta durante l’estate. Tra questi, il sistema più studiato e “tecnologicamente pronto” è l’accumulo di idrogeno verde (generato dall’elettrolisi dell’acqua con l’eccesso di energia elettrica fotovoltaica). Tuttavia, secondo due studi recentemente condotti dal gruppo GECOS (disponibili ai link: https://doi.org/10.1016/j.ijhydene.2020.09.152 e https://asmedigitalcollection.asme.org/GT/proceedings-abstract/GT2022/86014/V004T07A008/1148781), la produzione di nuova energia elettrica a partire dall’idrogeno porta attualmente a costi finali ancora molto alti: il sistema composto da impianto PV + elettrolizzatore + stoccaggio di idrogeno verde + ciclo combinato o cella a combustibile (per riconvertire l’idrogeno verde in potenza elettrica quando vi è necessità) avrebbe un costo dell’energia elettrica prodotta superiore ai 400 euro/MWh (valore di molto superiore al costo dell’energia elettrica di un ciclo combinato alimentato a gas naturale che funziona solo 2000-3000 ore/anno per bilanciare la rete elettrica). Pertanto, tale tipo di soluzione sarà economicamente accessibile solo con una futura forte riduzione dei costi delle tecnologie coinvolte, contemporanea ad una generale riduzione del costo dell’energia elettrica rinnovabile, in particolare nelle ore di eccesso di produzione.

Premesso che la soluzione finale a cui ambire per la piena decarbonizzazione del nostro sistema energetico sarà basata solo su fonti rinnovabili (fatta eccezione per il nucleare), è opportuno considerare questi elementi economici e tecnici nella transizione energetica:

    • Le attuali centrali termoelettriche a gas naturale sono dispacciabili e forniscono servizi di bilanciamento per la rete elettrica (ossia se vi è una congestione in una zona, o il fotovoltaico prodotto è minore del previsto, o i consumi sono maggiori delle previsioni, o un impianto si guasta e si scollega, il ciclo combinato fornisce riserva di potenza istantanea e riesce a seguire delle veloci rampe di carico per ripristinare l’equilibrio). Andrebbero pertanto sostituite con un sistema “aggregato” di pannelli PV o turbine eoliche e sistemi di accumulo per ottenere lo stesso tipo di servizio.
    • il costo dei sistemi di accumulo di breve durata, quali le batterie, è ancora molto elevato.
    • per compensare periodi lunghi con basso irraggiamento solare (e.g., inverno) è necessario aumentare di molto le installazioni di rinnovabili, ottenendo un grande eccesso di energia estivo; questo spinge ad utilizzare anche sistemi di accumulo stagionale (elettrolizzatori + accumuli di idrogeno verde + sistemi di conversione da idrogeno ad energia elettrica), che consentono di esportare idrogeno per la decarbonizzazione di settori difficili, ma aumentano ulteriormente il costo dell’energia elettrica.
    • ci sono impianti cogenerativi, ossia che cogenerano energia elettrica e calore per impianti industriali (industria alimentare, carta, petrolchimica, etc) e/o per le reti di teleriscaldamento delle città, basati su sistemi a combustione (dai motori ai cicli combinati, alimentati generalmente a gas naturale). Tali impianti funzionano tutto l’anno perché devono garantire la fornitura di vapore e/o acqua calda (anche a temperature superiori ai 200 °C, nelle applicazioni industriali) durante tutte le ore del giorno e della notte. Per evitare l’uso di fonti fossili dovrebbero ove possibile passare a combustibili rinnovabili (es. biogas, tuttavia di disponibilità insufficiente), oppure dovrebbero essere sostituiti direttamente da sistemi a fonti rinnovabili (PV o eolico) integrati con pompe di calore ad alta temperatura (ancora in via di sviluppo, specialmente per temperature superiori ai 150 °C) e sistemi di accumulo energetico di breve e lungo termine. Sistemi energetici cogenerativi con cattura CO2 potrebbero essere economicamente competitivi già nel breve termine e potrebbero essere integrati con le fonti rinnovabili come sistema di back-up (ossia essere utilizzati quando non vi è sufficiente sole/vento).

In breve, le centrali termoelettriche con cattura CO2 sono da considerarsi una delle possibili soluzioni per accelerare nel breve termine la decarbonizzazione della rete elettrica e renderla economicamente più sostenibile. Nel frattempo è fondamentale continuare a sviluppare non solo sistemi energetici a fonti rinnovabili ma anche le tecnologie di accumulo energetico (in particolare gli accumuli stagionali e gli accumuli termici ad alta temperatura) al fine di aumentarne l’efficienza ed abbatterne i costi, poiché tali tecnologie saranno indispensabili per raggiungere gli obiettivi prefissati per il 2050 ed azzerare l’uso dei combustibili fossili.

Cattura CO2 nell’industria “hard to abate”

La cattura e stoccaggio di CO2 (carbon capture and storage – CCS) è fondamentale per ridurre le emissioni da alcuni settori industriali. I cementifici, responsabili di circa il 7% delle emissioni antropogeniche mondiali, generano la maggior parte della CO2 dalla decomposizione del carbonato di calcio (e non quindi dalla combustione di combustibili fossili). L’industria del cemento non può quindi essere massivamente decarbonizzata senza ricorrere a sistemi di cattura di CO2.

Un discorso simile può essere fatto per i termovalorizzatori, nei quali il servizio di smaltimento della frazione non riciclabile dei rifiuti genera CO2 la cui emissione può essere evitata sostanzialmente solo con la cattura di CO2. Altri settori industriali come la produzione dell’acciaio primario possono essere decarbonizzati ad esempio attraverso idrogeno verde, ma i volumi di idrogeno richiesti e gli stoccaggi per far fronte all’intermittenza di solare ed eolico pongono criticità tecnico-economiche significative. Anche in questo ambito, la cattura della CO2 è competitiva ed è già adottata da alcuni anni per es. in un impianto negli Emirati Arabi.

Impianti ad emissioni negative (rimozione CO2 dall’aria)

La cattura e stoccaggio della CO2 consente di ottenere sistemi ad emissioni negative, se la CO2 è prelevata direttamente dall’aria con sistemi di “direct air capture” (DAC) o indirettamente da biomassa con sistemi “bioenergy with CO2 capture and storage” (BECCS). Queste tecnologie diverranno preziose nel lungo periodo per compensare le fonti di emissioni distribuite difficilmente evitabili (ad esempio dal settore agricolo) o per compensare l’eccesso di emissioni prodotte durante la transizione energetica. Il primo impianto DAC di scala significativa è entrato in funzione recentemente in Islanda (https://climeworks.com/roadmap/orca).

Riutilizzo della CO2 (CCUS)

La conversione della CO2 in prodotti utili (CO2 utilization) è un’idea affascinante, ma con i seguenti due limiti principali: 1) il mercato di quasi tutti i prodotti a base carbonio che potrebbero sfruttare la CO2 catturata è enormemente più piccolo rispetto alla quantità di CO2 oggi emessa in atmosfera, per cui il potenziale contributo nella decarbonizzazione dell’economia globale di queste strategie è generalmente quantitativamente molto limitato (alcune parziali eccezioni sono processi che producono materiali solidi riutilizzabili nel settore delle costruzioni o della produzione di cemento, più rilevanti ma comunque globalmente limitati); 2) i mercati di dimensioni maggiori sono quelli della produzione di prodotti chimici (es. metanolo) o combustibili (e-fuels), ma la conversione della CO2 in questi prodotti richiede enormi quantità di idrogeno verde e quindi di elettricità rinnovabile. A titolo di esempio, la conversione di CO2 in metanolo richiede 3 moli di H2 per mole di CO2 (ovvero 0.136 kg di H2 per kg di CO2). Un emettitore stabile di CO2 da 800 kt/anno (ovvero 91 t/h, corrispondente all’emissione indicativa di un cementificio europeo) richiederebbe quindi l’apporto di 12.4 t/h di idrogeno. Per fornire questa quantità di idrogeno, un elettrolizzatore allo stato dell’arte con consumo specifico di 55 kWh/kgH2 assorbirebbe una potenza elettrica media pari a circa 680 MW, che richiederebbe una potenza fotovoltaica installata di quasi 5 GW (assumendo 1200 h equivalenti di funzionamento, corrispondente alla media degli impianti fotovoltaici italiani) più un idoneo sistema di accumulo stagionale per consentire il trasferimento dell’energia elettrica o dell’idrogeno tra l’estate e l’inverno. Tale capacità installata, corrisponde a circa il 20% dell’intera potenza fotovoltaica oggi installata in Italia, a indicare che un singolo impianto per un singolo cementificio avrebbe un impatto considerevole sul bilancio elettrico rinnovabile italiano odierno. Inoltre, è facile dimostrare che i benefici ambientali maggiori (ovvero, la massima quantità di CO2 evitata per kWh elettrico rinnovabile utilizzato) nell’utilizzo dell’energia rinnovabile si ottengono utilizzando l’energia elettrica rinnovabile in primis per decarbonizzare la rete elettrica, il settore dei trasporti e il riscaldamento civile e industriale. L’utilizzo dell’energia elettrica rinnovabile per produrre idrogeno con cui convertire CO2 in altri combustibili è ambientalmente molto meno preferibile (ovvero evita meno emissioni di CO2) rispetto agli utilizzi diretti dell’elettricità citati. Di conseguenza, fino a quando la rete elettrica non sarà sostanzialmente decarbonizzata e i settori dei trasporti e del riscaldamento civile e industriale non saranno ove possibile elettrificati (ovvero per i prossimi 15-20 anni), il consumo di elettricità per produrre idrogeno con il quale convertire CO2 in altri combustibili sarà meno preferibile rispetto agli utilizzi elencati. 3) gli e-fuels, una volta utilizzati in successivi processi di combustione riemetterebbero in atmosfera tutta la CO2 che è stata faticosamente catturata e legata a idrogeno nei processi precedenti. Pertanto, salvo il caso in cui la CO2 fosse di origine biologica e quindi ‘neutrale’, andrebbero riservati solo ad usi molto speciali, come i combustibili utilizzati per l’aviazione.

Conclusioni

La cattura CO2 è da considerare tra le tecnologie disponibili per mitigare le emissioni di CO2 e rendere economicamente più sostenibile la transizione verso un sistema energetico completamente decarbonizzato. Infatti, oggi, sistemi a fonte solare o eolica di pari “dispacciabilità” (capacità di produrre energia elettrica tutto l’anno e regolare la potenza erogata secondo le esigenze delle utenze) richiederebbero sistemi di accumulo molto costosi. La cattura CO2 è utile specialmente per i settori industriali “hard to abate” come i cementifici e le acciaierie. Infine, la cattura CO2 non è da considerarsi limitata all’utilizzo di combustibili fossili ma può essere applicata anche a rifiuti e biomasse, rendendo così possibile realizzare impianti ad emissioni negative di CO2, altamente desiderati per raggiungere obiettivi globali di emissioni nette prossime a zero. Infine, si noti che l’utilità della cattura CO2 è riconosciuta anche dall’International Energy Agency (IEA) che ha analizzato ed individuato la roadmap per raggiungere lo scenario “net zero CO2 by 2050” nel modo più sostenibile possibile. Nella roadmap pubblicata (il report è scaricabile dal link Net Zero by 2050 – Analysis – IEA), su scala mondiale, nel 2030 devono essere catturate 1.6 Gt CO2/anno che salgono a 7.6 GtCO2 nel 2050. Il 95% della CO2 catturata deve essere sequestrata mentre il restante 5% viene riutilizzato per produrre combustibili sintetici principalmente per l’aviazione. Sempre secondo la roadmap IEA, nel 2050 la cattura CO2 deve essere applicata ai processi industriali (cementifici in particolare), agli impianti di produzione di energia elettrica e per la cattura dall’aria (direct air capture).

Note

  1. Economic assessment of novel amine based CO2 capture technologies integrated in power plants based on European Benchmarking Task Force methodologyTechno-Economic Assessment of Novel vs. Standard 5m Piperazine CCS Absorption Processes for Conventional and High-efficiency NGCC Power Plants
  2. Oxy-turbine for Power Plant with CO2 Capture

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