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Greenwashing: ecco quando la finta sostenibilità diventa illecito penale



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Il greenwashing non è più solo marketing ingannevole, ma può integrare veri e propri reati, dal falso in bilancio alla frode in commercio. L’Europa e l’Italia ridisegnano la responsabilità d’impresa sulla verità delle dichiarazioni ambientali

Pubblicato il 17 dic 2025

Giuseppe d’Ippolito

docente di Diritto dell’Ambiente



greenwashing (1) transizione ecologica delle imprese italiane

Negli ultimi anni il dibattito sul greenwashing ha assunto una rilevanza che va ben oltre il confine della comunicazione commerciale. Quella che inizialmente poteva apparire come una semplice distorsione semanticala tendenza delle imprese a enfatizzare in modo ingannevole le proprie performance ambientali – si è progressivamente rivelata una questione giuridica di primo piano.

Il linguaggio della sostenibilità, ormai divenuto parte integrante della strategia economica e reputazionale delle imprese, è oggi sottoposto a un vaglio sempre più severo da parte del legislatore europeo e nazionale, che ne riconosce la potenziale rilevanza penale.

Greenwashing reato e inquinamento simbolico: una nuova questione giuridica

Il greenwashing rappresenta infatti un punto di contatto tra diversi rami dell’ordinamento: dal diritto dei consumatori a quello societario, dal diritto ambientale a quello penale dell’impresa. Esso esprime un fenomeno che non è più riducibile alla sola sfera della comunicazione ingannevole, ma che tocca la veridicità dei dati contenuti nei bilanci di sostenibilità, nei rapporti ESG, nelle dichiarazioni non finanziarie e nelle etichettature dei prodotti.

Laddove l’elemento della falsità diventa strumentale all’ottenimento di vantaggi economici o alla manipolazione del mercato, la condotta non può più essere confinata nell’ambito delle pratiche scorrette: entra nel dominio della menzogna penalmente rilevante.

L’Unione europea ha assunto un ruolo decisivo in questo processo di ridefinizione. Con l’adozione della Direttiva (UE) 2024/825, relativa alla comunicazione delle affermazioni ambientali (green claims), il legislatore europeo ha introdotto un principio cardine: ogni dichiarazione ambientale deve essere fondata su prove scientifiche verificabili e deve consentire ai consumatori di effettuare scelte consapevoli.

La falsità o la vaghezza delle informazioni ambientali diventa così non solo fonte di sanzione amministrativa, ma anche potenziale presupposto di responsabilità penale e societaria, qualora si traduca in un danno per il mercato o per l’interesse pubblico alla correttezza informativa. L’attenzione verso la verità ambientale è oggi una delle frontiere più significative della transizione giuridica europea.

Il diritto non si limita più a punire chi inquina, ma comincia a occuparsi anche di chi mente sull’inquinamento, di chi utilizza il linguaggio ecologico come schermo di legittimazione. In questo senso, il greenwashing diventa una forma nuova di “inquinamento simbolico”: non danneggia l’ambiente in sé, ma compromette la possibilità collettiva di difenderlo, perché altera la percezione sociale del rischio e la fiducia nelle politiche di sostenibilità.

Dal marketing alla responsabilità penale: quando il greenwashing diventa reato

L’evoluzione della consapevolezza ambientale è un fenomeno che ha radici storiche profonde e che ha subito una accelerazione significativa negli ultimi decenni. Questa consapevolezza si è sviluppata in risposta a una serie di crisi ambientali, scientifiche e sociali che hanno portato a una crescente attenzione nei confronti della sostenibilità e della necessità di proteggere l’ambiente.

Il concetto di “consumatore green” ha acquisito una crescente rilevanza negli ultimi anni, a causa di una maggiore consapevolezza globale riguardo ai problemi ambientali e ai cambiamenti climatici. Negli ultimi anni mi sono trovato spesso a riflettere su quanto la parola “green” sia diventata un rifugio semantico.

Nel mio recente libro, “Il diritto del Greenwashing” (Pacini Giuridica), ho cercato di raccontare come la sostenibilità, da promessa di cambiamento, si sia trasformata in linguaggio di marketing. Ma oggi la questione va oltre l’etica e la comunicazione: riguarda la responsabilità penale.

Siamo abituati a pensare al greenwashing come a una pratica scorretta, da sanzionare in sede amministrativa o civile. Tuttavia, nel nuovo contesto europeo, il confine tra menzogna ambientale e falso giuridico si assottiglia ogni giorno di più.

La Direttiva (UE) 2024/825 sui green claims impone agli operatori economici di fornire prove verificabili, chiare e comparabili delle proprie affermazioni ambientali.

Mentire, d’ora in avanti, non significherà più solo ingannare il consumatore: potrà voler dire ingannare il mercato, le autorità di controllo e, in certi casi, lo Stato.

In questo quadro, l’approvazione, in sede preliminare, dello schema di decreto legislativo di attuazione della Direttiva (UE) 2024/825, trasmesso alle Camere il 5 novembre 2025, rischia di assumere un valore più formale che sostanziale. Pur introducendo alcune precisazioni ulteriori rispetto alla disciplina europea – in particolare sull’obbligo di documentare ogni claim con evidenze tracciabili e sull’estensione delle competenze sanzionatorie delle autorità nazionali – il governo italiano continua a non intervenire sul vero punto debole dell’impianto: l’assenza di un sistema di controlli capillare e realmente operativo. Senza un rafforzamento delle verifiche e delle responsabilità a livello amministrativo e penale, anche le tutele aggiuntive rischiano di rimanere sulla carta, mentre il greenwashing continua a operare come strategia commerciale impunita. Ma siamo ancora lontani dall’adozione del decreto definitivo: il testo dovrà tornare in Consiglio dei Ministri per la deliberazione finale, essere emanato dal Presidente della Repubblica e pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Di conseguenza, anche le pur apprezzabili integrazioni nazionali in materia di trasparenza ambientale restano, allo stato, prive di efficacia normativa. Senza un’accelerazione dell’iter e senza un reale potenziamento dei controlli, il rischio è che la riforma resti confinata a un esercizio di tecnica legislativa, lasciando immutato il terreno su cui il greenwashing continua a proliferare.

Dal diritto civile al diritto penale: le figure di reato legate al greenwashing

La rilevanza penale delle false comunicazioni ambientali è così diventata un tema sempre più centrale nel diritto penale dell’economia e dell’ambiente. Riguarda le condotte di chi dichiara, attesta, comunica o pubblicizza dati non veritieri o fuorvianti relativi all’impatto ambientale di attività produttive, prodotti o processi aziendali, con lo scopo di trarne un vantaggio economico, competitivo o reputazionale.

L’evoluzione è evidente. Sul piano civilistico, il greenwashing integra una forma di concorrenza sleale e di pubblicità ingannevole. Ma quando la falsità diventa strumento di profitto o copertura di condotte illecite, il diritto penale entra in scena. Dico subito che, attualmente, non esiste una specifica fattispecie penale autonoma per le false comunicazioni ambientali, ma alcune condotte possono rientrare in reati già previsti dal codice penale o da leggi speciali.

Le figure già esistenti lo dimostrano:

Falsità nelle comunicazioni sociali e dichiarazioni non finanziarie

  • Falso nelle comunicazioni sociali (art. 2621 c.c.), quando i report di sostenibilità o le DNF (Dichiarazioni Non Finanziarie) rappresentano in modo mendace l’impatto ambientale dell’impresa. In questo caso la dimensione ambientale diventa parte integrante della veridicità complessiva dell’informazione societaria e può trasformare il greenwashing in reato societario.

Falsità documentali e comunicazioni ambientali verso la pubblica amministrazione

  • Falsità ideologica in atto pubblico (art. 479 c.p.), nel caso in cui un pubblico ufficiale attesti il falso in un atto pubblico con contenuti ambientali (es. autorizzazioni, verbali), e falsità materiale commessa da privato (art. 482 c.p.), se un privato redige o altera un documento che ha valore giuridico e contiene dati ambientali falsi (es. certificazioni ambientali).
  • Comunicazioni ambientali false (D.Lgs. 152/2006), quando l’impresa mente in fase di AIA, VIA, autorizzazioni, CAM (articolo 57, comma 2, D.Lgs. 36/2023). In questi casi la menzogna ambientale incide direttamente sul corretto esercizio del potere autorizzatorio e sulla tutela effettiva dell’ambiente.
  • Reati ambientali (D.Lgs. 152/2006 e L. 68/2015): alcune false dichiarazioni possono costituire circostanze aggravanti o elementi strumentali per altri reati ambientali, come il disastro ambientale colposo o doloso, l’inquinamento ambientale o la gestione illecita dei rifiuti.

Frode verde, segni mendaci e truffa aggravata

  • Frode in commercio (art. 515 c.p.), quando i prodotti vengono spacciati, ad esempio, per “ecologici” o “carbon neutral” senza che lo siano. In tal caso il greenwashing si traduce in inganno sul prodotto, con rilevanza penale diretta.
  • Vendita di prodotti industriali con segni mendaci (art. 517 c.p.), che punisce chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto.
  • Truffa (art. 640 c.p.), quando la menzogna verde serve a ottenere vantaggi economici, come contributi pubblici o premi ambientali, in forma aggravata (art. 640-bis c.p.), quando serve al conseguimento di fondi pubblici (es. PNRR, incentivi green).

Anche la giurisprudenza di merito e di legittimità italiana, così come quella europea, è allineata, e da tempo, in questo senso. Si vedano, ad esempio:

  • Corte di Giustizia UE, causa C-388/20, sulla trasparenza e la pubblicità ambientale, e causa C-632/16, sulle informazioni ambientali fuorvianti come pratica sleale.
  • Tribunale di Gorizia, ord. 2021, sui green claims fuorvianti come pratica scorretta.
  • Tribunale di Lucca, sent. 2022, sulla responsabilità per claim ambientale usato senza certificazione.
  • Cass. pen., Sez. III, 5 aprile 2019, n. 15011, sul falso ideologico in autorizzazioni amministrative (art. 480–479 c.p.), principi utilizzati anche nei procedimenti su nulla osta/permessi con profili ambientali o paesaggistici.
  • Cass. pen., Sez. III, 28 novembre 2019, n. 48401, sui reati ambientali in tema di A.I.A. e sugli obblighi di controllo/comunicazione e responsabilità per omissioni o dati non veritieri.
  • Cass., Sez. Unite, 27 maggio 2016, n. 22474, che conferma la rilevanza penale del falso “valutativo” nelle false comunicazioni sociali; principio spesso richiamato quando i claim ESG entrano in documenti societari.

La novità, però, non sta tanto nella tipologia dei reati, quanto nel cambio di paradigma: il greenwashing non è più un errore di comunicazione, ma una strategia fraudolenta che mina la fiducia del mercato nella transizione ecologica.

Greenwashing e responsabilità d’impresa nel modello 231: il rischio di reato per gli enti

In quest’ottica, il greenwashing diventa anche questione di governance aziendale. Il D.Lgs. 231/2001 impone agli enti di dotarsi di modelli organizzativi idonei a prevenire i reati commessi nel loro interesse. Un bilancio o un report ESG falsato non è solo un problema reputazionale: può attivare la responsabilità penale dell’ente, con conseguenze economiche e interdittive gravi.

L’impresa che comunica la propria sostenibilità deve quindi garantire tracciabilità, verificabilità e veridicità delle informazioni ambientali, non per moda ma per obbligo di legge. In questo scenario il greenwashing reato diventa una prospettiva concreta, soprattutto se la falsità è strutturale e incide sui processi decisionali degli stakeholder.

L’Unione europea e la costruzione della verità ambientale

L’Unione europea ha avviato una vera e propria moralizzazione del linguaggio ambientale. Con la Direttiva (UE) 2024/825 e con il Green Deal, Bruxelles ha riconosciuto che la sostenibilità non può reggersi su parole vuote. Ogni claim ambientale diventa un impegno verificabile, e quindi potenzialmente sanzionabile penalmente se falso o manipolato.

Non si tratta solo di punire chi mente, ma di tutelare chi dice la verità. In un mercato in cui il valore “green” determina il successo commerciale, la falsità ambientale rappresenta una distorsione concorrenziale e una minaccia sistemica. Per questo, il diritto penale, tradizionalmente ultimo baluardo, comincia a essere visto come strumento di tutela della verità ecologica, anche nella prospettiva del reato di greenwashing.

Green claims, sospensioni e rischi di vuoto normativo

Dicevo che il greenwashing non è più soltanto un problema di linguaggio o di etica della comunicazione ma è diventato una questione di diritto sostanziale, che investe la responsabilità dell’impresa e la credibilità stessa del mercato sostenibile. Da tempo sostengo nei miei corsi che la menzogna ambientale rappresenti una nuova forma di falsità sociale, capace di produrre danni economici, reputazionali e ambientali. Mentire sulla sostenibilità significa falsificare la fiducia, che è il primo bene comune di un’economia verde.

L’Unione europea aveva riconosciuto con lucidità questa dimensione, avviando nel marzo 2023 un percorso normativo ambizioso con la proposta di Direttiva sui Green Claims, volta a garantire che ogni affermazione ambientale esplicita fosse basata su prove scientifiche verificabili, su metodologie comuni di calcolo e su meccanismi di verifica indipendente.

Si trattava di un testo che, più di ogni altro, aveva il potenziale di colmare una lacuna sistemica: la mancanza di regole vincolanti sulla veridicità delle dichiarazioni ambientali diffuse dalle imprese. Per la prima volta, la Commissione europea proponeva di tradurre in norma giuridica un principio tanto semplice quanto rivoluzionario: non è sostenibile ciò che non è dimostrabile.

Una norma che avrebbe imposto alle imprese di certificare le proprie affermazioni ambientali con dati misurabili e tracciabili, limitando l’uso di espressioni vaghe o fuorvianti come “a impatto zero”, “100% verde” o “carbon neutral”, ecc., salvo che tali indicazioni fossero pienamente verificabili.

Tuttavia, la sospesa approvazione definitiva della direttiva, dovuta a contrasti politici tra Stati membri e al timore, da parte di alcuni governi, di un eccessivo onere regolatorio per le imprese, rappresenta un passo indietro grave.

L’Unione europea, che aveva mostrato di comprendere l’urgenza di disciplinare la verità ambientale, ha finito per congelare proprio lo strumento più efficace per tutelarla. Questa sospensione è un segnale contraddittorio, soprattutto in un momento in cui la fiducia dei cittadini nella transizione ecologica dipende dalla trasparenza delle istituzioni e dal coraggio delle scelte politiche.

Comprendo la necessità di bilanciare gli interessi economici e produttivi, ma ritengo che rinviare una norma come quella sui green claims equivalga, in sostanza, a rinunciare – spero temporaneamente – al principio di responsabilità ambientale. Ogni giorno di vuoto normativo favorisce chi usa la sostenibilità come retorica e penalizza chi, invece, investe realmente nella transizione verde.

Verso il 2026: prospettive europee sul reato di greenwashing

Nonostante questa delusione, però, non si può negare che il processo europeo abbia avuto effetti positivi rilevanti. La proposta del 2023 ha stimolato un dibattito pubblico e accademico senza precedenti sulla natura giuridica delle dichiarazioni ambientali.

Ha spinto gli Stati membri, tra cui l’Italia, a considerare l’adozione di discipline nazionali di trasparenza ambientale e ha influenzato l’orientamento interpretativo delle autorità garanti e dei giudici. Ha inoltre consolidato la consapevolezza che il greenwashing, già ora con la legislazione vigente, non può solo considerarsi come un illecito civile o amministrativo, ma può configurare ipotesi di reato: come dicevo, dal falso in comunicazioni sociali alla frode in commercio, fino alla responsabilità dell’ente ai sensi del D.Lgs. 231/2001.

L’Unione europea, pur avendo temporaneamente sospeso l’approvazione della direttiva, ha comunque fissato una cornice valoriale irreversibile: quella della verità ambientale come diritto dei consumatori e dovere delle imprese. Il percorso non è concluso, ma ha già cambiato la prospettiva del diritto: non si tratta più soltanto di punire chi inquina, bensì anche di chiamare a rispondere chi mente sull’inquinamento, anche nella prospettiva del reato di greenwashing.

La mia critica, dunque, non è contro l’Europa in sé, ma contro la sua esitazione. L’Unione aveva intrapreso la strada giusta e deve ora ritrovarne il coraggio politico. La regolazione della verità ambientale non è un lusso tecnico: è una condizione di sopravvivenza democratica.

In un mercato sempre più costruito sul valore simbolico della sostenibilità, lasciare che la verità sia negoziabile equivale a compromettere la stessa credibilità della transizione verde. Il 2026 dovrebbe essere, quindi, l’anno in cui l’Unione europea recupera il terreno perduto.

Non si tratta di riscrivere da capo la proposta di Direttiva sui Green Claims, ma di rilanciarla politicamente come parte integrante del nuovo ciclo normativo del Green Deal. Occorre ribadire che la tutela contro il greenwashing non è un ostacolo alla competitività, bensì uno strumento di efficienza economica e di giustizia concorrenziale.

Un’Europa che intenda guidare la transizione ecologica deve saper coniugare innovazione e responsabilità: chiedere trasparenza non significa appesantire l’impresa, ma darle valore. In questo senso, il 2026 può segnare una svolta, se la Commissione e il Parlamento sapranno tradurre la proposta del 2023 in un testo più chiaro, più flessibile, ma non per questo meno rigoroso.

Al tempo stesso, gli Stati membri possono anticipare la normativa europea, sviluppando discipline interne che integrino i principi della direttiva sospesa. L’Italia, in particolare, dispone già di un impianto normativo e giurisprudenziale idoneo a estendere la tutela penale al greenwashing, attraverso l’interpretazione evolutiva di fattispecie esistenti e l’applicazione della responsabilità amministrativa degli enti.

Il futuro della regolazione della verità ambientale non dipende soltanto da Bruxelles, ma anche dai legislatori e dai giudici nazionali. Se l’Unione europea ritroverà il coraggio normativo che le è mancato nel 2024, potrà dimostrare che l’etica della sostenibilità può diventare anche diritto positivo. E che la lotta al greenwashing non è un tema secondario, ma una questione di civiltà giuridica.

Dalla menzogna alla verità giuridica: il greenwashing come frontiera penale

Il greenwashing non è più soltanto un inganno verso il consumatore, ma una menzogna contro il diritto. E se il diritto serve, come credo, a proteggere la verità nei rapporti umani, economici e ambientali, allora non è eccessivo parlare di una nuova stagione della penalità ecologica.

Mentire sull’ambiente significa alterare il rapporto tra impresa e società, tra profitto e responsabilità. Significa appropriarsi indebitamente del linguaggio della sostenibilità, trasformandolo in un bene privato.

Ecco perché credo che il greenwashing, oggi, rappresenti una frontiera penale emergente: non solo per ciò che viola, ma per ciò che tradisce, ossia la fiducia collettiva nella possibilità di una transizione ecologica reale. In questa prospettiva, parlare di greenwashing reato significa riconoscere che la verità ambientale è ormai un bene giuridico centrale della democrazia ecologica.


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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  2. Alpa, G., Le dichiarazioni ambientali ingannevoli tra disciplina europea e responsabilità d’impresa, in Rivista di Diritto Civile, 2023.
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  5. Rampioni, R., Diritto penale dell’economia sostenibile, Giappichelli, 2024.
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  7. Perrini, F., Tencati, A., Corporate Social Responsibility. Un nuovo approccio strategico alla gestione d’impresa, Egea, 2023.
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  9. Accinni, G.P., Rilevanza penale delle falsità nei cd. non financial statements?, in La Responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2018, fasc. 1, p. 45.
  10. Fracchia, F., Introduzione allo studio del diritto dell’ambiente, Editoriale Scientifica, 2013.
  11. Lyon, T. P., Montgomery, A. W., The Means and Ends of Greenwashing, Organization & Environment, 2015.
  12. Delmas, M. – Burbano, V., The Drivers of Greenwashing, California Management Review, 2011.
  13. Laufer, W. S., Social Accountability and Corporate Greenwashing, Journal of Business Ethics, 2003.
  14. Hyman, L., Temp: How Climate Rhetoric Shapes Corporate Behaviour, Harvard University Press, 2023.

SITOGRAFIA

NORME UE
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https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:32024L0825

  1. Proposta 2023 (Green Claims Directive):
    https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX:52023PC0166
  2. Regolamento Tassonomia 2020/852:
    https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:32020R0852
  3. Direttiva CSRD 2022/2464:
    https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:32022L2464
  4. Direttiva 2005/29/CE (pratiche commerciali sleali):
    https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:32005L0029

ISTITUZIONI UE
Guidance UCPD e green claims (2016, 2021, 2022):
20. https://ec.europa.eu/info/publications/guidance-application-ucpd_en

JRC PEF Methodology:
21. https://ec.europa.eu/environment/eussd/smgp/ef_pilots.htm

ITALIA

https://www.mimit.gov.it/it/notizie-stampa/cdm-approva-decreto-contro-i-green-claims
Codice del consumo
22. https://www.normattiva.it/urires/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2005;206

  1. D.Lgs. 231/2001:
    https://www.normattiva.it/urires/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2001;231

AGCM – Provvedimenti su greenwashing
24. https://www.agcm.it/

INTERNAZIONALE
CMA – Green Claims Code:
25. https://www.gov.uk/government/publications/green-claims-code

OECD – Environmental Claims:
26. https://www.oecd.org/environment/environmental-claims-greenwashing-risks-and-policy-responses.htm

UNEP – Truth in Green Marketing:
27. https://www.unep.org/resources/report/truth-green-marketing

SITOGRAFIA DI APPROFONDIMENTO ACCADEMICO
28. SSRN – paper sul greenwashing (ricercabili per autore o parola chiave):
https://www.ssrn.com/

Osservatorio ESG dell’Università Bocconi:
https://www.sdabocconi.it/it/ricerca?action=search&keyword=osservatorio+esg

European Corporate Governance Institute (ECGI):
https://ecgi.global/

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