La riforma del Venture Capital rappresenta un tassello decisivo per il futuro delle startup italiane. Il rinvio al 2026 dell’obbligo per i fondi pensione di investire parte del loro patrimonio nell’innovazione solleva interrogativi sulla capacità del Paese di sostenere la crescita tecnologica.
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Tra annunci e rinvii: il destino della riforma
In Italia si dice spesso che si parla troppo senza poi agire nel concreto. Tra discussioni, pareri, opinioni, le parole che vengono riversate su qualunque argomento nei contesti più vari superano di gran lunga quelle che sono le azioni che poi hanno un reale impatto sulla realtà.
Neanche il Venture Capital nel suo complesso purtroppo è, quindi, riuscito a sfuggire a questa sorta di legge non scritta che sembra attanagliare l’Italia in una morsa da cui raramente si riesce a sfuggire.
E così la tanto auspicata, e chiacchierata, riforma che avrebbe portato a un obbligo per i fondi pensione di investire parte del proprio patrimonio sulle startup è rimasta un’intenzione su carta. Per arrivare a un testo scritto, approvato e possibilmente applicabile agli investimenti bisognerà aspettare con ogni probabilità l’anno 2026, come raccontato da Repubblica alla fine di ottobre del 2025. Con l’auspicio da parte di tutto il comparto dell’innovazione italiana che si tratti più della prima parte dell’anno che non della seconda.
Le cifre che potrebbero rivoluzionare il mercato italiano
Quando si affronta il tema di questa riforma si utilizzano parole che rimandano a concetti come rivoluzione e cambiamento totale, di fatto portando con sé l’idea di una nuova definizione di paradigma per quello che riguarda gli investimenti in startup e la capacità complessiva del Venture Capital italiano di generare realtà innovative che sappiano mantenere una presenza importante sul mercato. I numeri però, o quanto meno le stime che circolano rispetto al possibile impatto che l’ingresso regolamentato dei fondi pensione avrebbe sul mercato del Venture Capital in Italia lasciano poco spazio a interpretazioni o definizioni prudenti.
Le cifre infatti, a seconda delle fonti, oscillano tra dei prudenti 1,5 miliardi di euro e degli ambiziosi 3 miliardi di euro. Somme che da sole di fatto rappresenterebbero più di quanto, normalmente, l’intero settore del Venture Capital nel nostro Paese sia in grado di muovere con le sole forze attualmente impegnate in modo concreto nel settore dell’innovazione.
Una spinta di questo genere aiuterebbe anche, con ogni probabilità, ad allungarsi verso una nuova fase di espansione dopo che il mercato italiano ha testimoniato negli ultimi anni di aver trovato una sua stabilità, anche importante considerando gli scossoni che periodicamente giungono inaspettati ad agitare mercati e investitori. Allo stesso tempo liberare queste risorse verso le startup permetterebbe di iniziare a pensare concretamente a un percorso di crescita che possa avvicinare l’Italia a quelle altre realtà europee che in questo momento sono più avanti: Francia, Germania su tutte, ma anche la Spagna e l’Olanda.
Gli incentivi fiscali previsti dal decreto economia
E pensare che non mancava l’ottimismo per quanto riguarda l’arrivo già nel corso del 2025 della riforma sul Venture Capital con protagonisti i fondi pensione. In particolare nel momento in cui il Parlamento ha approvato il DL Economia che conteneva indicazioni precise per quello che riguarda questo tema. All’interno del provvedimento, infatti, era contenuta una norma che introduceva un incentivo fiscale per cui le plusvalenze realizzate dai fondi pensione sarebbero state detassate, a condizione che venga rispettata una condizione aggiuntiva precisa: destinare almeno il 10% del 10% già riservato all’economia reale al Venture Capital (ovvero circa l’1% del totale), con un meccanismo di crescita progressiva su un triennio, partendo dal 3% di investito nel 2025, al 5% nel 2026 fino ad arrivare al target del 10% di investito nel 2027.
All’interno del provvedimento, giusto sottolinearlo, sono state previste e confermate anche altre misure importanti. Per esempio, per investitori fisici è prevista la detrazione IRPEF del 30% sull’investimento in startup innovative fino a un massimo di 1 milione di euro annuo, mentre gli incubatori certificati che investono in startup innovative possono beneficiare di un credito d’imposta dell’8% sull’investimento, fino a 500.000 euro annui, per un periodo di 3 anni.
Il modello americano: quando i fondi pensione hanno fatto la differenza
Tornando alla questione del coinvolgimento dei fondi pensione negli investimenti in startup è utile osservare come all’estero la loro presenza sia stata un supporto essenziale per uno sviluppo maggiore e migliore di tutto il comparto innovativo. Negli Stati Uniti, per esempio, bisogna ricordare l’ERISA Clarification Act del 1979 che consentì ai fondi pensione (soggetti all’Employee Retirement Income Security Act) di investire in asset non tradizionali, come fondi di private equity e Venture Capital, chiarendo che erano in linea con la cosiddetta “prudent investor rule”, oppure la decisione del principale fondo previdenziale statunitense di dipendenti pubblici, CalPERS, di iniziare a investire nel mercato del Venture Capital tra il 1990 e il 1992.
Una scelta incentivata dal cambiamento dello scenario macroeconomico ed in particolare dai bassi rendimenti offerti dal mercato e quindi dall’esigenza di trovare investimenti alternativi più interessanti oltre che dal crescente affermarsi della tecnologia, CalPERS decise di diversificare investendo nel private equity e nel Venture Capital centinaia di milioni di dollari, allocando una quota che nel tempo è stata tra il 2% ed il 4% del proprio investito annuo, con un picco del 7%. Impatti che nel tempo, uniti anche ad altri fattori evidentemente, hanno però generato dei risultati visibili e concreti: uno studio dell’Università di Stanford infatti ha stimato che circa il 43% delle aziende USA nate dopo il 1975 e quotate in borsa sono state finanziate da fondi di Venture Capital.



































































