I RAC-CORTI

Il vaso di terracotta

Il terzo dei quattro “Rac-corti”. Racconti dalla Corte dei conti. Racconti digitali sul digitale, seri e faceti, a cura di due noti autori – pardon burocrati, pardon esponenti di spicco – della Corte dei conti. Perché ci sono tanti modi per raccontare – e fare – innovazione. A volte, ci si può anche divertire

Pubblicato il 04 Dic 2015

Luca Attias

Commissario Straordinario per l'attuazione dell'Agenda Digitale

Michele Melchionda

Corte dei Conti

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Oggi, approfondiremo le motivazioni che creano resistenza al cambiamento e di come la PA italiana rappresenti un’ingarbugliata matassa di storture che necessita essere dipanata con estrema urgenza. Ciascun cittadino sa cosa implichi dialogare con la struttura pubblica, su questo non c’è alcun dubbio. Troppo spesso, purtroppo per il cittadino, tale dialogo assume la forma di un monologo e la conseguente frustrazione rappresenta, di solito, la chiosa finale di questo dialogo. I cittadini, vale la pena ricordarlo, sono i destinatari ultimi, e quindi i fruitori, dei servizi offerti dalla PA stessa.

La moltitudine di Enti ed organizzazioni presenti sul territorio nazionale richiama alla mente un’esposizione di vasi in terracotta, tipico materiale ceramico ottenuto da argille comuni e dal caratteristico colore. La produzione di ceramica e terracotta richiede al vasaio un lavoro lungo e certosino e la sua esposizione di vasi riflette la sua perizia; ce n’è infatti per tutti i gusti, di tutte le fogge, alcuni pezzi sono particolarmente pregevoli, a volte smaltati e decorati, piuttosto fragili. Tutti esposti con uno scopo ben preciso: essere utili.

Capita a volte che, dopo il rinvaso di una pianta, si abbandoni il vecchio vaso in un angolo e che questo diventi l’involontario contenitore di piccole cianfruscaglie. Si perde, in questo caso, l’obiettivo iniziale della sua creazione. Una moltitudine di vasi di terracotta, di forma e dimensioni delle più svariate, sparsi a tappeto su tutto il territorio; questa sembra essere la fotografia della nostra PA. Quanti di questi vasi vengono utilizzati in modo proprio e quanti altri, invece, sono pieni di chincaglierie inutili?

Immaginiamo che abbiate sentito parlare degli Enti superflui, degli Enti, cioè, che andrebbero chiusi a causa del fatto che, essendo nel tempo mutate le condizioni di contesto, sono divenuti pressoché inoperativi. Difatti, col mutare delle esigenze della società, lo scopo iniziale col quale erano stati creati è venuto a mancare, eppure ricevono correntemente finanziamenti da parte dello Stato. Un fiume di denaro pubblico scorre come linfa vitale all’interno di questi organismi ormai in decomposizione. Chiediamoci il perché. La risposta a tale domanda è di importanza primaria per tutta la Collettività. Questo argomento deve essere uno dei nostri interessi prioritari. A tal proposito, Andrea Camilleri, nel marzo 2000, quando fu chiamato dal Ministro per la funzione pubblica e per gli affari regionali, ad intervenire presso il convegno: “La Pubblica Amministrazione che cambia: una riforma dei cittadini”, asserì: “Quando il Ministro Bassanini mi ha telefonato per chiedermi di intervenire a questa convenzione, mi sono immediatamente chiesto: “Ma io che c’entro?”. Riflettendoci, subito dopo, ho capito che avevo non solo il diritto, ma anche il dovere di esserci, perché la cosa, in quanto cittadino italiano, mi riguardava direttissimamente. Mi sono, quindi, pentito del mio atteggiamento iniziale. E questa è una buona ragione per intervenire, ma non lo sarebbe se non lo facessi nei termini in cui lo so fare io.”

Appare piuttosto evidente che il nostro Paese è afflitto da una malattia cronica: la normazione eccessiva. La produzione di norme in sovrabbondanza da parte degli organismi legislativi equivale all’insana produttività di alcune cellule corporee fuori controllo, che, nel tempo, generano tumori dannosi all’organismo. Dobbiamo renderci edotti del fatto che l’eccesso di norme è altrettanto dannoso, alla stessa stregua di una malattia e che, come tale, va contrastata con un’adeguata terapia, non con slogan ad effetto placebo. In quanto cittadini, dobbiamo persuaderci del fatto che tutto questo ci riguarda molto da vicino.

Sull’eccesso di norme prospera, quasi fosse una forma di governo a sé stante, la burocrazia. Essa appare sempre più scollata dalla realtà quotidiana, generando abominevoli cloni, quali “apparato-crazia”, “normo-crazia”, “prassi-crazia”, “tecno-crazia”, tutti volti al mantenimento di interessi singolari, anziché plurali, il cui solo parlarne dovrebbe generare disgusto.

Alcune organizzazioni, pur risultando ormai sterili, rimangono in vita grazie a cavilli burocratici sedimentati all’interno di norme ormai dimenticate. Se non produrremo le necessarie contromisure in tempi brevissimi, corriamo il rischio che la porzione malata della PA infetti tutto l’organismo amministrativo. Non possiamo permettercelo.

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Sempre nell’intervento sopra citato, Camilleri racconta una favola e fa riferimento ad “una potentissima setta segreta, detta dei Sommi Custodi della Prassi. I potentissimi membri della setta non risiedevano in quei luoghi di culto che erano i comuni pubblici uffici, bensì in certe labirintiche costruzioni, dette Ministeri.” e ancora: “Uno scrittore iliatano aveva provato a svelare i misteri dei Palazzi abitati dai Sommi Custodi della Prassi e aveva scritto un libro, intitolato incautamente: “Misteri dei Ministeri e altri misteri”, in cui si rivelava, per esempio, come un direttore generale avesse continuato a dirigere il suo Ministero, prima che i suoi subalterni si rendessero conto che egli era morto da sei mesi e stava lì, come da sempre, sulla sua poltrona. Ho detto incautamente perché i Sommi Custodi della Prassi, allertati dal titolo, lo lessero, se lo fecero spiegare e, quindi, lo fecero togliere dalla circolazione e spedirono l’autore in manicomio, secondo una tradizione importata dall’Est”.

Sebbene sia solo una favola, dobbiamo altresì constatare che questa non sia molto distante dalla realtà dei giorni nostri. Questi “Sommi Custodi della Prassi”, quelli veri, hanno infatti elaborato e perfezionato nel corso del tempo un proprio rituale, decisamente incomprensibile ai più e che produce frutti per un esclusivo e ristretto ambito di persone. In taluni contesti, l’etica e la morale vengono quotidianamente calpestate, la coscienza civica sovrastata, il malcostume ed il malaffare tollerati, forse addirittura incentivati.

Ma, parlando in modo aperto e franco, noi cittadini cosa facciamo per osteggiare questo vergognoso modus operandi? D’accordo, forse i burocrati sono più scaltri di noi, e lo dimostrano continuamente, ma, troppo spesso, nelle maglie di questa rete cadiamo anche noi cittadini. Pur di raggiungere i nostri scopi, con la scusa che in Italia “non funziona nulla”, ci lasciamo andare a piccoli abusi, ricorriamo a piccoli favori, ad un amico influente, o ad un parente che è nella posizione ideale per semplificarci un percorso. Guardiamoci allo specchio, riconoscere tutto questo è ormai divenuto cruciale per il futuro del nostro stesso Paese. Tutto, difatti, si origina dal singolo individuo e dalla sua etica.

Il malaffare, il malcostume e l’incompetenza non devono più essere tollerate. Etica innanzi tutto.

Dobbiamo puntare sull’intelligenza e sulla conoscenza ed imparare a misurare su di esse le nostre scelte e le nostre azioni. Conoscenza non intesa come sapere nozionistico, quanto, piuttosto, come potere di discernimento, che ci metta in grado di riconoscere i contesti e le situazioni, al fine di operare, pertanto, scelte consapevoli. Questo è il vero scopo del cittadino che intenda godere pienamente dei suoi diritti, derivanti dall’esser parte di una Comunità governata da leggi democratiche. Non possiamo più agire come se la nostra Società fosse esclusivamente un ricettacolo di frustrazioni senza confine, non possiamo più parlarne come se tutto ciò non ci appartenesse. Dobbiamo imparare ad operare scelte consapevoli e a ritenerci soggetti attivi.

Qualcosa deve cambiare e con urgenza, è fin troppo evidente, perché, se tutto restasse immutato, i problemi potrebbero solo divenire più difficili da risolvere e noi tutti ne saremmo corresponsabili. Del resto, la maglia delle interconnessioni creata “ad hoc” dai burocrati nel corso degli anni per illudere che tutti (dipendenti pubblici, aziende private, professionisti, corporazioni, abusivi, evasori, ecc.), a turno, avessero qualcosa da guadagnare è stata quasi perfetta; una vera sintesi del concetto di illusione. In verità, ovviamente, a guadagnarci sono in pochissimi e quasi sempre gli stessi, mentre, per tutti gli altri il saldo è costantemente negativo.

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Recentemente, al Sermig di Torino, il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, ha asserito che le persone oneste, hanno meno possibilità di fare carriera all’interno della pubblica amministrazione, a volte per loro diretta responsabilità, ma, spesso, perché sono meno responsabilizzate di altre, proprio in considerazione del fatto che sono considerate “perbene”. Sempre secondo Cantone, noi tutti dovremmo trovare il coraggio di ripristinare alcune parole il cui significato sembra essere dimenticato, tra queste, il termine “controllo”; non si può più continuare a fingere di non vedere. Basta omertà. Uno dei problemi del nostro Paese è che non si capisce mai chi è responsabile di che cosa, ovvero non esiste il concetto di individuazione delle responsabilità. La deresponsabilizzazione la fa da padrona e la deresponsabilizzazione stessa è, poi, una delle ragioni che giustifica l’insorgere del fenomeno corruzione. Soltanto con una riscossa interna e un consapevole recupero di etica e cultura dello Stato, il terzo settore, e di conseguenza il nostro Paese, si salveranno dalla mala gestione della cosa pubblica.

Ma, ci chiediamo, come può la PA evolvere e tutelare gli interessi dei propri cittadini, se rimangono in vita arcaiche consuetudini, quale, ad esempio, è il principio di silenzio assenso? Quella del silenzio è una figura enigmatica, emersa gradualmente per opera della giurisprudenza di alcuni organi trovatisi di fronte alla lesione dell’interesse del cittadino, non già per un atto amministrativo, ma per l’inerzia colpevole di qualcuno, sostenuta dalla dottrina, dai principi, dai diritti acquisiti e dalle consuetudini. Conseguentemente a quanto descritto, c’è l’instaurarsi di un rapporto di forza tra PA e cittadino, troppo sbilanciato a favore della prima. Come si può continuare a fingere che tutto questo non alteri ulteriormente il rapporto intercorrente tra cliente (cittadino) e fornitore del servizio (PA)?

Un’azione incisiva si rende necessaria con urgenza. Il nostro governo, certo a fin di bene, si è spesso affidato alla consultazione dei cittadini, tramite web, al fine di sondarne umori e pareri. Il principio di coinvolgere i cittadini è lodevole, ma la consultazione, per il mezzo di Internet, appare essere una forma degradata (basti pensare al digital divide) di democrazia popolare, o forse, piuttosto, dovremmo dire di democrazia populista.

In Gran Bretagna già da diverso tempo è in atto il processo di riforma del Public Sector ed il “Next Step” ha già fornito risultati ragguardevoli.

Negli Stati Uniti, già da oltre vent’anni, è stato attuato il piano di “Reinventing Government” al fine di riformare la sfera pubblica, con risultati altrettanto ragguardevoli. Tale piano prevedeva la reinvenzione del “modo” di governare, ed era teso a “riformare” radicalmente i metodi di gestione del settore pubblico statunitense in ogni sua forma. Il piano sfociò in una legge, la GPRA (Government Performance and Result Act), concepita come “emendamento” del “Codice degli Stati Uniti” (United States Code), che è una raccolta fondamentale di norme procedurali che regolano l’intero funzionamento dell’apparato amministrativo federale. Quindi, le iniziative e le “pratiche” in essa contenute sono diventate, pur con le consuete difficoltà di superamento della resistenza al cambiamento, un obbligo permanente ed ineludibile di ogni organo della PA statunitense. Ciascun Ente di questa PA deve predisporre un “piano strategico” pluriennale, seguito da un “piano di prestazioni” (performance) con cadenza annuale, seguito dal “rapporto di prestazioni”, che contiene la nuova politica per la valorizzazione e l’utilizzo concreto del personale, inteso a misurare le prestazioni e a verificare che siano stati raggiunti gli obiettivi preposti; tutto sotto l’egida di un “custode”, che negli USA è il General Accounting Office (GAO), una sorta di ”Ufficio di contabilità generale”.

Perché non prendiamo spunto da chi ha più esperienza di noi in tale ambito ed ha già ottenuto risultati di successo?

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Quello che, prima possibile, sarebbe necessario comprendere è che la preparazione dei piani strategici e di prestazione, pluriennali e annuali, non deve essere interpretata come un’azione a sé stante, dissociata dalla gestione quotidiana, bensì divenire un autentico, nuovo modus operandi, un nuovo modello di gestione. Questo sarebbe decisamente il coronamento finale di una rivoluzione che la nostra PA deve necessariamente attuare. Tra l’altro, ciò introdurrebbe il concetto, altrettanto rivoluzionario, di “gestione per obiettivi”. Questi sarebbero misurati, analizzati e valutati con sempre maggiore accuratezza ed altrettanto accadrebbe per la conseguente “spesa per obiettivi”.

Non si può più pensare di migliorare l’efficienza della PA in sé stessa, come fosse un corpo unico ed isolato dal suo contesto, questa difatti rappresenta una porzione importante del nostro ordine sociale e necessita che vengano definiti i suoi contenuti strategici, nonché culturali, in relazione a ciò. Ci riferiamo alla semplificazione delle procedure, alla riduzione dei tempi tecnici, alla responsabilizzazione dei dirigenti, alla riduzione delle norme, allo snellimento degli organici, alla partecipazione degli utenti alle decisioni, al considerare il cittadino come un vero e proprio “cliente”.

Concludendo, pensiamo che la PA italiana possa rappresentare il volano dell’evoluzione civile e democratica di tutto il nostro Paese, ma per poter assurgere a tale ruolo primario, prima di tutto, servono regole precise, unitarie e condivise, best practices, denormazione e semplificazione, competenze professionali, nonché qualità personali.

Oggi, ciascun singolo cittadino dovrebbe avvertire la pressante necessità di operare in qualità di speleologo nell’intento di esplorare sé stesso, di immergersi profondamente nel proprio intimo, alla ricerca di valori che, in prima battuta, sembrerebbero perduti per sempre. Ciascuno di noi dovrebbe avvertire l’urgenza di rispolverare alcuni termini ed i relativi significati, modificando l’ordine delle proprie priorità, anteponendo, quindi, il confronto alla disputa, la solidarietà all’individualismo, la rinuncia all’accaparramento, in breve, l’etica all’ immoralità.

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