A circa due anni dall’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici D. Lgs. n. 36/2023 (e le sue successive modifiche ed integrazioni, da ultimo il D. Lgs. n. 209/2024 e il D.L. n. 73/2025), l’attuazione sul territorio nazionale appare ancora disomogenea, con particolare riferimento alle tematiche della digitalizzazione del ciclo di vita dei contratti nel settore del procurement pubblico.
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Digitalizzazione dei contratti pubblici, i vantaggi
Secondo la Corte dei Conti, la mancata adozione di strumenti digitali strutturati genera inefficienze significative: fino al 20% del tempo-lavoro per singola procedura di gara può andare sprecato a causa di processi ancora manuali, ripetitivi e ridondanti. L’inefficienza è maggiore poi nei casi di procedure finanziate, in tutto o in parte, con le risorse del PNRR e del PNC, dove la moltiplicazione degli adempimenti e l’inserimento manuale dei dati su molteplici e diverse piattaforme, rallentano l’operatività e aumentano il rischio di errore e inadempimento.
Nella relazione annuale al Parlamento, il presidente dell’ANAC, ha giustamente magnificato gli effetti della trasformazione digitale dei contratti pubblici, fornendo alcuni interessanti dati: nel 2023, senza l’obbligo di utilizzare piattaforme di approvvigionamento digitale certificate (PAD), erano censiti 60.000 operatori economici; nel 2024, con l’obbligo dell’utilizzo delle PAD, se ne sono registrati 400.000 mila, e finalmente si hanno dati attendibili e completi da analizzare (dati utili anche per gli affidamenti diretti, che così potranno essere tracciati per verificarne qualità, costi, tempestività nel perseguimento del risultato di interesse pubblico).
Le priorità per digitalizzare i contratti pubblici
Certamente una rivoluzione, ma ancora distante dagli obiettivi del Codice stesso. L’impulso alla digitalizzazione delle procedure di affidamento da parte del legislatore è stato massiccio, ma allo status quo, si è tradotto prioritariamente in una mera dematerializzazione (ad esempio, la sostituzione di un documento cartaceo in un file pdf, la conversione in procedure web di procedure prima condotte manualmente) piuttosto che in una reale semplificazione basata sulla riduzione numerica degli adempimenti burocratici, sull’eliminazione del superfluo e del ridondante, sullo snellimento dei flussi e delle fasi dei procedimenti amministrativi, sull’automazione e sull’intelligenza artificiale.
Cosa si potrebbe dunque migliorare per rendere la PA più efficiente, agevolando contemporaneamente tanto le Stazioni appaltanti quanto gli Operatori economici, sgravando funzionari pubblici e imprese da una serie di attività inutili e altamente impattanti? Ecco alcuni spunti:
- la qualificazione degli operatori economici che partecipano alle gare, potrebbe essere facilmente automatizzata senza intermediazione umana, accedendo alle banche dati pubbliche che detengono i dati sull’impresa;
- l’interoperabilità fra le banche dati sembra abbastanza semplice: il dato detenuto da un’Amministrazione pubblica diviene accessibile ad un’altra o, anche senza accedere al dato, si riceve la “luce verde” che rileva che l’impresa ha adempiuto agli obblighi fiscali e contributivi. Attualmente invece non è ancora possibile, e il meccanismo di verifica della qualificazione degli operatori economici funziona ancora in modo macchinoso e con richiesta di una quantità importante di operazioni manuali;
- per ciascuna procedura di affidamento, la PA definisce i requisiti di partecipazione, in modo artigianale e caso per caso, assumendosi importanti e pesanti responsabilità entro i limiti del perimetro di discrezionalità attribuitole proprio dalle vigenti disposizioni normative; detti requisiti potrebbero ad esempio essere quantomeno standardizzati per tipologie e valori di contratti.
Il processo DgUE request
Il “Dgue Request” (Documento di Gara Unico Europeo), che, nonostante il suo nome, non è affatto unico (come vorrebbe invece il principio “once only”), nel senso che per ogni procedura, la PA ne predispone uno diverso. Con il “Dgue Request” si richiede ogni volta, a ogni concorrente partecipante, di dichiarare di non incorrere in nessuna delle condizioni di esclusione che impediscono di contrarre con la PA, di non aver commesso determinati delitti/reati/illeciti professionali, di non avere carichi pendenti, di essere in regola con i pagamenti tributari e contributivi, etc. (i c.d. requisiti di ordine generale); di possedere le capacità economiche-finanziarie e tecniche-professionali per poter eseguire quello specifico contratto (i c.d. requisiti di ordine speciale). Tutte richieste che, per l’80%, sono sempre le stesse. Di fronte a questo “Dgue Request”, sulla PAD, l’operatore economico concorrente, a sua volta, per ciascuna procedura di affidamento, compila un “Dgue Response” spuntando caselle e compilando campi che normalmente costituiscono de facto autocertificazioni, ossia le vecchie autocertificazioni, rese nell’ambito del D.P.R. n. 445/2000 e s.m.i. che ancora rischiano di indurre a dichiarare il falso: once-only e interoperabilità con le piattaforme nazionali dovrebbero poter snellire anche questo processo.
Analogamente al DGUE, si potrebbe pensare di fare lo stesso, per tutta una serie di altre dichiarazioni, che, per ogni procedura di gara, vengono puntualmente prodotte dagli operatori economici, con una ripetitività costante, facendo tesoro del patrimonio digitale che ad oggi, è già a disposizione della PA, per il tramite delle principali banche dati, tra cui sopracitate piattaforme abilitanti: la documentazione antimafia, la tracciabilità dei flussi finanziari, la visura/certificato di iscrizione alla Camera di Commercio e così via.
Dopo la fase “autodichiarativa” si potrebbe immaginare che, proprio in attuazione delle norme in materia di digitalizzazione, in automatico la PA ne verifichi la veridicità. Ad oggi, non è così. Dalla PAD della Stazione appaltante si passa al FVOE – Fascicolo Virtuale dell’Operatore Economico – (e per la documentazione non disponibile nel FVOE, si passa ad altri sistemi esterni operanti in modo autonomo non centralizzato, come la BDNA) e per ogni operatore economico da “verificare”, si inseriscono manualmente i dati dei soggetti giuridici e fisici oggetto di verifica, per cui richiedere i vari certificati probatori, ossia una serie innumerevole di altri “pdf”, da scaricare e conservare agli atti d’ufficio. E per fare ciò – per quanto attiene il FVOE – si deve anche attendere che l’operatore economico soggetto a verifica (che già ha compilato sulla PAD il suo “Dgue Response”) dia il suo consenso – ai sensi delle norme sulla privacy – a che le suddette verifiche possano essere svolte dalla Stazione appaltante.
Lo scenario della digitalizzazione dei contratti pubblici
Nonostante i lodevoli e condivisibili intenti della digitalizzazione dei contratti pubblici, ad oggi, la logica è ancora quella della carta, ossia del documento probatorio e del certificato con una scadenza e non dell’interoperabilità diretta fra banche dati. La distanza tra il dettato normativo e la prassi operativa quotidiana si traduce in ritardi, difficoltà di monitoraggio e una trasparenza compromessa, percepita anche dai cittadini.
È quindi necessaria una riflessione concreta – e urgente – su come colmare questo divario e dare attuazione, ad substantiam, al dettato normativo in tema di digitalizzazione, da intendersi come semplificazione e non solo dematerializzazione. Un’alleanza più strutturata tra pubblico e privato può rappresentare una leva strategica per snellire – attraverso applicazioni coerenti e un uso corretto della digitalizzazione – procedure e procedimenti e migliorare così le performance della macchina amministrativa. Una PA più moderna, infatti, è anche più vicina ai bisogni reali del cittadino.











