Le nuove tecnologie che hanno invaso ogni aspetto della nostra vita hanno sollevato questioni in ordine alla tutela della privacy, inglobando, quindi, sia l’aspetto dell’acquisizione che quello dell’uso dei dati personali eventualmente ottenuti. L’utilizzabilità delle informazioni contenute in questi strumenti sempre più sofisticati è il nodo che, oggigiorno, anche il diritto deve riuscire a sciogliere.
L’innovazione tecnologica ha sicuramente imposto una revisione, pur nel silenzio legislativo, degli approcci tradizionalistici sino a quel momento adottati in ordine alla raccolta di prove. Droni, social network, smart device sono solo alcuni degli strumenti che consentono di raccogliere dati potenzialmente rilevanti anche in sede processuale. La sfida sarà quella di calare questi aspetti nei vari rami del diritto, in uno scontro che vede contrapposti l’esigenza di tutela della riservatezza e la necessità di individuare criteri oggettivi finalizzati a garantire una adeguata preparazione agli organi investiti di potere decisionale.
Indice degli argomenti
Prove e nuove tecnologie
Gli strumenti tecnologici sviluppati negli ultimi anni sono sempre più efficaci nella raccolta e conservazione di informazioni. Non solo, quindi, dati acquisiti tramite whatsapp – l’applicazione di messaggistica più diffusa al mondo – ma anche attraverso droni che sorvolano aree molto vaste, social network che cristallizzano ogni momento della vita quotidiana, smart devices che raccolgono dati in tempo reale.
Nel contesto del giudizio civile, l’ammissibilità della prova “atipica”, ossia quella che non viene espressamente prevista dalla legge o che viene raccolta in deroga alle leggi codicistiche (contrapposta alla c.d. prova “tipica”, ossia quella ammessa dalla legge) non è pacifica.
La Corte di Cassazione, con una sentenza del 16 aprile 2025 n. 9957, ha ribadito il “principio del libero convincimento del Giudice”, ossia la “libera valutabilità delle prove assunte” – nel caso di specie acquisite nel processo penale – “a patto che queste refluiscano ritualmente nel processo civile”, poiché “al giudice medesimo non può reputarsi precluso di valutare autonomamente, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria, in ragione dell’assenza di un principio di tipicità della prova nel giudizio civile e della possibilità delle parti di contestare, in detto giudizio, i fatti accertati in sede penale”.
In questo contesto, quindi, ogni elemento idoneo a fornire al giudice informazioni utili può essere considerato prova, purché sia ammissibile, rilevante e acquisito legittimamente.
I nodi da sciogliere
Ma cosa succede se il compendio probatorio si è formato sulla base di strumenti tecnologici che sfuggono, in parte, al dettame codicistico e che sono stati inizialmente concepiti per altri scopi? Il giudice civile è oggi realmente attrezzato per affrontare queste sfide? Certamente, gli strumenti messi a disposizione dal nostro sistema quali i criteri della ammissibilità, della rilevanza e della acquisizione legittima della prova devono sempre orientare l’organo giudicante, ma non sempre bastano.
L’utilizzo di questi mezzi, infatti, fa sorgere interrogativi nuovi (attendibilità tecnica del mezzo, certezza sull’autore, tutela della riservatezza e rischio di manipolazioni) ed è, quindi, evidente che i problemi che sorgono non sono solo puramente procedurali, ma implicano, a ben vedere, una riflessione finalizzata a garantire il bilanciamento tra diritto alla prova, tutela dei soggetti interessati e garanzia di sicurezza.
A ciò si aggiunga anche l’estrema fragilità di queste risultanze, suscettibili di mutamento o di cancellazione in breve tempo. Qual è, quindi, lo stato dell’arte?
Droni e GDPR
I droni, definiti come “aeromobili a pilotaggio remoto”, che possono essere utilizzati sia per svago che per fini professionali, sono uno strumento che potenzialmente può captare immagini relative ad aree urbane o rurali, grazie alla loro capacità di muoversi nello spazio in poco tempo. Concepiti per fini ludici e professionali, negli ultimi tempi hanno assunto importanza nell’ambito della sicurezza del territorio.
Da un punto di vista puramente tecnico, in Italia il loro utilizzo è regolamentato dall’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (ENAC), che ha emesso una serie di regolamenti a partire dal 2013. In ordine di tempo, si segnala, poi, il Regolamento droni 2019/947, o regolamento UAS (Unmanned Aircraft System), che è entrato ufficialmente in pieno vigore il 1° gennaio 2024 e ha recepito una serie di linea guida dettate a livello europeo.
Parallelamente, le linee guida per il corretto utilizzo delle immagini acquisite attraverso i droni sono contenute nel GDPR che impone un obbligo di informare i soggetti sottoposti a ripresa o sorveglianza in relazione a dati strettamente necessari a quel determinato scopo, nonché relativamente al loro utilizzo e alla conservazione dei dati eventualmente acquisiti.
Le problematiche che possono sorgere in relazione al loro utilizzo, infatti, riguardano il sorvolo di proprietà private, la raccolta di immagini (che potrebbero, quindi, essere acquisite senza il consenso dell’interessato), nonché l’eventuale responsabilità per danni in caso di malfunzionamento e uso improprio del mezzo.
Di conseguenza, i droni devono anche essere progettati in modo tale da possedere i requisiti e le misure necessarie per garantire sicurezza dei dati acquisiti durante le operazioni nonché dei soggetti o degli ambienti che vengono ripresi.
L’uso dei dati raccolti dai droni a processo
Da un punto di vista processuale, in relazione al caso specifico di questi strumenti, manca un orientamento univoco sulla utilizzabilità delle immagini raccolte, anche se si propende per una soluzione positiva.
Il giudice, infatti, potrà certamente trovare un appiglio nell’art. 2712 c.c., che stabilisce che “Le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”, valutando, come poc’anzi detto, vari aspetti tra cui la progettazione del drone, nonché la correttezza della procedura della raccolta e conservazione delle immagini, che deve essere in linea con la tutela della riservatezza.
Social e processo civile
Anche i social network, volenti o nolenti, sono diventati sempre più spesso protagonisti di vicende processuali e hanno interessato la raccolta di elementi presenti sulle relative piattaforme digitali. Si pensi agli ormai noti casi di diffamazione a mezzo Internet (in questo caso nella sua forma aggravata per la capacità di raggiungere un numero illimitato di utenti), di lesione del diritto all’immagine o della reputazione, e, come nel caso che ci interessa, estrapolazione di contenuti mediante c.d. “screenshot”.
Anche in questo caso, se da un lato l’art. 2712 c.c. consente l’uso di riproduzioni meccaniche come prova, la verifica dell’autenticità e della provenienza del contenuto resta spesso problematica e necessita, nella maggior parte dei casi, di un contraddittorio di carattere tecnico.
Visto l’impatto dei social network nella vita quotidiana, in giurisprudenza si registrano maggiori interventi in materia. In generale, si afferma una piena utilizzabilità degli screenshot come prova documentale. Con la sentenza n. 34212 dell’11 settembre 2024, richiamando i precedenti della sentenza n. 34089/2023 e della sentenza n. 12062/2021, la Corte di Cassazione stabilisce che “non è richiesto alcun adempimento specifico per questa attività, che consiste semplicemente nel fotografare uno schermo” in quanto è equiparabile a qualsiasi altra fotografia di un altro oggetto.
Dello stesso avviso anche il Tribunale di Trani, che con la sentenza n. 488 del 06/05/2025, ha stabilito che “I messaggi “whatsapp” sono prove documentali, legittimamente acquisibili anche attraverso la loro riproduzione fotografica – c.d. “screenshot” -: si tratta, infatti, di documenti elettronici che rappresentano atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti e, pur non essendo firmati, rientrano nel novero delle riproduzioni informatiche previste dall’art. 2712 c.c., con la conseguenza che essi hanno piena efficacia probatoria, sempreché la parte contro cui vengono prodotti non disconosca la conformità ai fatti rappresentati”.
In generale, il giudice ha la possibilità di valutare come fonti probatorie messaggi estrapolati da applicazioni di messaggistica, considerati, quindi, prove documentali anche tramite la loro riproduzione fotografica.
È chiaro che la validità di dette risultanze “dipende dalla possibilità di verificare la provenienza e l’affidabilità del contenuto. I messaggi WhatsApp sono documenti elettronici che rappresentano atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti e, pur non essendo firmati, rientrano nel novero delle riproduzioni informatiche previste dall’articolo 2712 codice civile. Consegue che hanno piena efficacia probatoria sempreché la parte contro cui vengono prodotti non disconosca la conformità ai fatti rappresentati” (Cassazione civile sez. II, 18/01/2025, n.1254).
Smart device in ambito civile
Anche i “dispositivi intelligenti” (smart device), spesso collegati in rete e capaci di raccogliere, archiviare e trasmettere dati, aprono scenari sono nuovi. Il tipico esempio è rappresentato dagli smartwatch, al polso di milioni di persone, che registrano dati biometrici, assistenti vocali (es. Alexa, Siri) che conservano registrazioni potenzialmente rilevanti per ricostruire eventi, domotica che può dimostrare presenze o movimenti all’interno di un’abitazione.
Appare, quindi, evidente che al giudice è richiesta non solo una cultura giuridica ma anche tecnologica e sociologica del fenomeno.
A fronte di tali trasformazioni, quindi, il Giudice non è più solo un soggetto terzo e imparziale, ma deve rivestire anche un ruolo attivo, chiamato sempre più spesso ad interpretare le norme in relazione ai cambiamenti sociali e tecnologici.
Questo processo, tuttavia, potrebbe essere rallentato dall’assenza di una cornice normativa specifica. La soluzione potrebbe essere quella di formare giudici da un punto di vista tecnico ma anche quella di ripensare la normativa civilistica per affrontare le sfide dell’era digitale, al fine di consentire anche all’intero sistema giuridico di adattarsi ad una società sempre più “connessa”.










