Tra meno di due mesi, il prossimo 30 novembre, saranno tre anni da quando Sam Altman – cofondatore (con Elon Musk) di OpenAI – ha presentato al mondo ChatGPT, creando attorno all’intelligenza artificiale (AI) cosiddetta “generativa” un livello di attenzione su scala globale e un livello di investimenti che non ha precedenti nella storia.
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AI generativa: la grande scommessa finanziaria o la bolla
Una enorme scommessa dal punto di vista finanziario da parte di un manipolo di grandi imprese e di startup finanziate sia dalle prime sia dal venture capital: oltre 300 miliardi di dollari negli US nel solo 2025 e 3 trilioni complessivamente previsti entro la fine del decennio (addirittura 5,2 trilioni a livello globale nel prossimo quinquennio – in spese in conto capitale per i chip, i data center e per l’energia necessaria per produrre l’AI – nelle stime di McKinsey).

Una scommessa non solo sulle potenzialità “trasformative” della nuova tecnologia, ma anche – data la quantità dei soldi in gioco – sui tempi in cui essa finalmente comincerà a generare sostanziali ritorni, evitando che il timore della formazione di una bolla (una “AI bubble” che potrebbe anche avere dimensioni molto maggiori della “dotcom bubble” di inizio secolo) crei le condizioni per un suo scoppio come avvenne per Internet.
Le big tech
Una scommessa che vede in prima fila (Fig. 1) i cosiddetti “hyperscalers/ hyperspenders”, ovvero le Big Tech – Amazon, Microsoft, Alphabet-Google e Meta – che stanno costruendo una molteplicità di “AI data center” di grandi/grandissime dimensioni per la vendita di servizi cloud (le tre prime) e/o per lo sviluppo e l’utilizzo di propri modelli AI (“open source” nel caso di Meta) e che con i loro utili sono state sinora in grado di finanziare gli investimenti senza dover ricorrere all’indebitamento (Alphabet-Google ha ad esempio un rapporto “debt-to-equity” pari all’11% e Microsoft al 33%).

Gli attori che si indebitano
Una scommessa che ha visto negli ultimi anni altre imprese lanciarsi nella costruzione di “AI data center”, ma con risorse a disposizione molto minori e quindi in prospettiva costrette a ricorrere in misura massiccia all’indebitamento:
- Oracle, la storica impresa coetanea di Microsoft ed Apple, è quella tra esse di maggior valore ma con rapporto “debt-to-equity” già molto elevato (127%);
- CoreWeave, nata 8 anni fa e quotatasi al Nasdaq a marzo di quest’anno, molto vicina a Nvidia (è stata tra le prime imprese a ricevere I nuovi GPU) e finanziata anche da OpenAI, capitalizza 60 miliardi di $ circa (dopo avere quasi toccato i 90 a giugno) e negli ultimi 12 mesi ha fatturato 3,5 miliardi di $ con una perdita prossima al miliardo;
- Nebius Group, con sede degli headquarters ad Amsterdam, fondata nel 1989 e quotata nel 2011 come Yandex (nome abbandonato dopo l’alienazione di parte dei suoi assets resa necessaria dalle sanzioni alla Russia per l’invasione dell’Ucraina), capitalizza 27 miliardi di $ e ha fatturato negli ultimi dodici mesi 240 milioni. Il suo punto di forza è il contratto di 19,4 miliardi di $ sottoscritto con Microsoft – per la fornitura nei prossimi anni di “AI computing services” – che può sfruttare come garanzia per l’indebitamento.
Nvidia
Una scommessa in cui è coinvolta Nvidia (l’impresa come noto di maggior valore al mondo con una capitalizzazione di oltre 4,3 trilioni di $), che si sta posizionando in forme diverse in tutte le fasi della filiera dell’AI, con l’intento di mantenere il suo quasi monopolio nella fornitura dei chip di qualità più elevata per la messa a punto di modelli AI.

La scommessa di OpenAI
Una scommessa che dall’inizio dell’anno, con una forte accelerazione nell’ultimo mese, ha visto come protagonista OpenAI, o sarebbe meglio dire il suo co-fondatore e CEO Sam Altman, con una serie di operazioni che giustificano il termine “surreali” che appare nel sottotitolo.
“OpenAI is upping the ante massively – Calculated display of self-confidence intended to signal it is still leading charge to superintelligence”, ha titolato recentemente un suo articolo su FT Richard Waters, ovvero (con una traduzione molto libera) “Sam Altman continua ad alzare la posta, per mostrare che è ancora OpenAI a capeggiare il cammino verso la superintelligenza“.
Il timore di Sam Altman in altre parole è che OpenAI non riceva quello che egli ritiene essere il “giusto premio” – la scoperta della superintelligenza o dell’AGI, tema su cui per altro non c’è una definizione precisa – per avere scatenato l’interesse per l’AI generativa e che siano viceversa altri attori della filiera dell’AI – Nvidia da un lato, l’unica ad aver fruito sinora di un fortissimo miglioramento dei suoi dati di bilancio (il fatturato di quest’anno sarà oltre 6 volte quello del 2022 e l’utile prima delle tasse quasi 23 volte), dall’altro Microsoft (suo primo grande finanziatore) e gli altri hyperscalers con la vendita dei servizi su cloud – a portare a casa i vantaggi maggiori.
Le mosse di OpenAI
Vediamo le mosse talora “surreali” di Sam Altman, che combatte una guerra in cui dispone di minori risorse e vuole affrancarsi dai vincoli che la struttura giuridica nonprofit di OpenAI gli impone.
I fatti più significativi dall’inizio dell’anno:
- il 21 gennaio è Trump alla Casa Bianca, appena insediato, che annuncia il lancio di Stargate, una alleanza fra OpenAI, SoftBank e Oracle volta a creare una rete di AI data center (da mettere esclusivamente a disposizione di OpenAI) con un investimento iniziale di 100 miliardi di $ e la speranza di portarli a 500 nel giro del quinquennio: una mossa volta a liberare OpenAI stessa dai legami con Microsoft (“OpenAI’s Stargate Deal Heralds Shift Away From Microsoft – The partnership that launched the AI boom has been strained by disagreements over computing resources”, commenta WSJ il giorno dopo), ma con legami molto complessi da sciogliere e con forti incertezze sulla capacità dei tre alleati di reperire cifre così elevate;
- a fine marzo OpenAI riesce ad accrescere la sua valutazione a 300 miliardi di $ – dai 157 raggiunti nell’ottobre precedente – con l’immissione di 40 miliardi da parte di un consorzio capitanato da SoftBank, che ne immette i tre quarti: con il vincolo però, almeno per una parte di essi, che OpenAI si converta entro la fine del 2025 da nonprofit e for-profit (altro passaggio tutt’altro che facile come meglio si vedrà nel seguito)
- a metà agosto The New York Times segnala che OpenAI sta cercando di elevare la sua valutazione da 300 a 500 miliardi, mettendo in vendita per 6 miliardi di $ ad amici quali SoftBank e Thrive Capital – in quella che è chiamata una “secondary market sale” – azioni possedute dai suoi dipendenti ed ex-dipendenti: il solo pensiero di poter fare una operazione così sproporzionata dà un’idea di come la finanza talora giochi con i numeri per forzare la realtà
- a inizio settembre OpenAI annuncio l’accordo con Broadcom, del valore di 10 miliardi di $, per lo studio e la fornitura di “custom AI chips”: provocando un immediato aumento dell’11% delle azioni di Broadcom (che ora capitalizza oltre 1,5 trilioni di $, come si può vedere dalla Tab.1, con una crescita in un anno del 87,8%)
- cinque giorni dopo un accordo molto più sostanzioso – 300 miliardi di $ nell’arco di cinque anni a partire dal 2027 – con Oracle, per l’accesso ai suoi AI data center (peraltro in larga parte ancora da costruire): un accordo che desta molti dubbi sulla capacità di OpenAI di disporre di tale cifra e di Oracle – come detto già molto indebitata – di finanziare I necessari investimenti, ma che è accolto trionfalmente dalla Borsa, che rialza inizialmente di ben 200 miliardi la capitalizzazione di Oracle (forse pensando che l’accordo renderà molto più facile l’accesso a nuovi indebitamenti), facendo di Larry Ellison per qualche minuto l’uomo più ricco del mondo
- il 22 settembre è finalmente la volta per OpenAI di incassare. Nvidia – forse anche allarmata dall’accordo con Broadcom – si impegna a investire in OpenAI stessa 100 miliardi di $ “to allow OpenAI to build and deploy at least 10 gigawatts of Nvidia systems for its AI data centers to train and run its next generation of models: an amount of electricity roughly comparable to power consumed by eight million homes” (WSJ). Nella sostanza Nvidia – criticata per la “circolarità” della sua mossa che evoca i comportamenti delle dotcom – si impegna a finanziare gli acquisti dei suoi sistemi da parte di OpenAI, accettando di essere pagata almeno parzialmente in quote azionarie invece che in cash
- pochi giorni dopo, a fine settembre, l’annuncio dell’entrata anche nei “social” (“OpenAI Launches Video Generator App to Rival TikTok and YouTube – Company’s new social media app allows users to create short videos with audio from text prompts and insert themselves into AI-generated scenes”, WSJ), che cito non tanto per la sua rilevanza, ma come ulteriore prova della voglia di Sam Altman di espandersi in tutte le possibili direzioni: apprezzabile per l’intraprendenza ma sempre più rischiosa dal punto di vista finanziario
- a inizio ottobre la notizia che OpenAI è riuscita a conseguire l’obiettivo di portare la sua valutazione da 300 a 500 miliardi di $, con le modalità viste sopra, superando i 400 miliardi riconosciuti a luglio alla SpaceX di Elon Musk, nemico dichiarato come noto di Sam Altman (“OpenAI overtakes SpaceX after hitting $500bn valuation – The AI start-up has overtaken Elon Musk’s SpaceX as most valuable privately owned company”, FT, 2 ottobre). Fra i finanziatori la MGX di Abu Dhabi, a conferma del crescente coinvolgimento degli Emirati (visto con favore anche da Trump) in queste operazioni.
- pochi giorni dopo l’annuncio di un nuovo grande “deal”, questa volta con AMD, un’impresa nata come noto nel lontano 1969 (un anno circa dopo Intel di cui è stata per decenni la principale concorrente), impegnata – con una capitalizzazione molto più bassa – a entrare in gara con Nvidia e Broadcom. E nell’impegnarsi ad acquistare nei prossimi anni (per diverse decine di miliardi di $) 6 gigawatt dei chip più avanzati di AMD, per OpenAI o per i suoi partner, Sam Altman – sfruttando i possibili riflessi che il “deal” avrebbe potuto avere sulla valutazione in Borsa di AMD -ha inserito nell’accordo una clausola che dà l’opzione a OpenAI stessa di acquisire, a un prezzo preconcordato molto basso, sino al 10% delle azioni di AMD se il titolo in Borsa supererà una determinata soglia: soglia che proietterebbe la capitalizzazione a un trilione di $ circa rispetto al valore attuale di 380 attuali, già superiore di oltre il 40% rispetto a quello di un mese prima dell’accordo.
- Tre commenti, prendendo spunto da un articolo molto interessante di FT (“OpenAI’s computing deals top $1tn – Partners including Nvidia, AMD and Oracle have signed up to Sam Altman’s huge bet on the future of artificial intelligence”, 7 ottobre)
- Sam Altman, giocando da un lato sulla rivalità fra i grandi produttori di chip e sfruttando dall’altro la voglia di Oracle di tornare a essere una “big”, ha costruito in pochi mesi una sorta di grande “ragnatela”: visibile nella Fig. 2, tratta dalla stessa fonte, che mette in luce i rapporti nell’intero sistema AI
- se il tutto venisse realizzato OpenAI verrebbe a disporre agli inizi della prossima decade di una capacità computazionale di oltre 20 gigawatt, con un costo complessivo di acquisto dei chip e loro messa in opera dell’ordine di 1 trilione di $: una cifra piuttosto impegnativa da mettere assieme, che richiede che i ritorni dagli investimenti in infrastrutture AI (Fig. 1) si manifestino rapidamente e siano consistenti
- la cosiddetta “circolarità”, la voglia delle imprese di finanziare in qualche misura le proprie vendite, è spesso in qualche forma presente nel quadro presentato ed è oggetto di molte critiche, così come l’”incestuosità” dei rapporti fra diversi attori che traspare dalla Fig. 2.

Fig.2
“C’è odore di bolla” nell’AI
“C’è odore di bolla”, dice esplicitamente a FT James Anderson, l’investitore inglese divenuto famoso per le sue scommesse su Nvidia, Tesla e Amazon (“James Anderson warns Nvidia’s $100bn OpenAI bet echoes dotcom bubble – Former Baillie Gifford tech investor says recent jump in AI valuations is ‘disconcerting’”, 1 ottobre), sconcertato dai continui grandi salti – senza particolari giustificazioni – nelle valutazioni di AI startup quali in primo luogo OpenAI e Anthropic, ma sconcertato anche dai 100 miliardi promessi da Nvidia a OpenAI per finanziare le vendite dei propri sistemi (che evocano a suo dire comportamenti simili negli anni ’90 nel mondo delle infrastrutture telecom).

Fig.3
Molto ironico un articolo sempre di FT del giorno prima nella rubrica Alphaville (la vignetta che richiama il titolo è riportata nella Fig. 3) – “OpenAI’s era-defining money furnace” – che esamina gli “economics” di OpenAI:
- 4,3 miliardi di $ di ricavi nei primi sei mesi di quest’anno, con la previsione di arrivare a 13 miliardi a fine anno
- 2,5 miliardi i costi sostenuti nello stesso periodo per la ricerca e lo sviluppo dei nuovi modelli AI
- 2 miliardi i costi per marketing e vendite, pari a quasi il doppio di quelli sostenuti nell’intero 2024
- 2,5 miliardi in “equity options” concesse al personale (che almeno non prevedono fuoruscite di cash), anche in questo caso quasi il doppio rispetto all’intero 2024 a testimonianza della dura guerra dei talenti in corso
- 7,8 miliardi la perdita operativa dichiarata per l’intero semestre, comprendendo il 20% dei ricavi che OpenAI deve corrispondere a Microsoft a fronte dei 13 miliardi ricevuti in dote per permetterne lo sviluppo (percentuale che è parte ora della trattativa globale fra le due imprese in vista della conversione da nonprofit a for-profit di OpenAI).
Particolarmente cattiva la chiusura – “To Alphaville the most hilarious aspect is that OpenAI spent more on marketing and equity options for its employees than it made in revenue in the first half of 2025” – con il commento che questo fatto da solo dice di più sull’attuale stato dell’AI di qualunque considerazione che potrebbe essere fatta da Alphaville stessa.
WSJ, nel suo articolo del 29 settembre “Debt Is Fueling the Next Wave of the AI Boom – For aspiring AI players like Oracle, much rides on debt and hope”, pone anch’esso l’enfasi sulla differenza fra i primi due anni di vita dell’AI generativa, in cui gli investimenti in infrastrutture AI erano fatti quasi solo da imprese che potevano finanziarli con i loro free cashflow (Fig. 4), senza incidere troppo su dividendi e buyback, e il 2025 in cui sono entrati in gioco nuove imprese, che viceversa (a partire come già detto da Oracle) devono ricorrere in prevalenza all’indebitamento.

Fig. 4
Ci sono ragioni per lo scetticismo – spiega l’articolo – sulla capacità di tali imprese di rispettare i contratti e ripagare i debiti: ragioni legate, come studi recenti hanno dimostrato, al fatto che “AI isn’t gaining traction as quickly as its backers suggest”, che solo il 3% dei consumatori individuali sta pagando per essa, che le previsioni che le spese negli AI data center raggiungano a breve i trilioni di $ all’anno appaiono altamente ottimistiche. E per quanto riguarda OpenAI riporta l’opinione di un importante analista che essa dobrebbe fatturare 300 miliardi di $ all’anno nel 2030 per giustificare il contratto con Oracle e che gli aiuti provenienti da Nvidia e SoftBank non appaiono assolutamente sufficienti.
Sulla stessa linea The Economist, come emerge chiaramente dal titolo di un suo articolo del 30 settembre: “The murky economics of the data-centre investment boom – How similar is it to the 1990s telecoms bubble?”.
Lo strano paradosso finanziario sull’AI
Questo mio lungo racconto è finalizzato non tanto a scommettere sulla incombenza o meno di una crisi e sulla sua eventuale violenza, le mie scommesse le faccio quando vendo o compro titoli, ma a dare un quadro di questa strana situazione in cui da un lato prosperano contratti del valore (almeno sulla carta) di centinaia di miliardi e dall’altro aumenta il numero di coloro che ritengono che “non sia tutto oro quello che luccica” nell’AI, in particolare per quanto riguarda i ritorni a breve-medio dei giganteschi investimenti infrastrutturali, e che questo potrebbe pesare non solo sulle imprese nuove entranti ma anche sulle capitalizzazioni delle 4 grandi.
Una ultima incognita riguarda il successo o meno, in quali tempi e a quali condizioni, del tentativo di OpenAI di diventare una for-profit.
Un successo indispensabile perché OpenAI possa raccogliere nuovi finanziamenti e in prospettiva quotarsi, ma con diversi ostacoli da superare:
- il peso, in termini di quote azionarie ma non solo, che il suo primo grande finanziatore Microsoft vuole avere: nelle trattative di settembre, secondo WSJ (“Microsoft Tries to Catch Up in AI With Healthcare Push, Harvard Deal – Company is seeking to move away from dependence on its partner OpenAI and build a consumer base for its Copilot chatbot”, 8 ottobre), si è parlato di una possibile quota del 30%;
- il peso che il nucleo nonprofit vuole a sua volta avere nella nuova compagine per non ostacolarne la formazione,
- l’opposizione del mondo nonprofit esterno, che sta cercando di portare il tema della trasformazione da nonprofit a for-profit nei tribunali.
Così come, in caso di successo, sarà interessante capire la composizione dell’azionariato che ne emergerà, le possibili conflittualità negli obiettivi fra i maggiori azionisti, il peso che Sam Altman sarà riuscito a ritagliarsi.
Pubblicato il 3 ottobre 2025, aggiornato il 10 ottobre 2025












