La sentenza

Major vs Cox: chi risponde della pirateria online degli utenti?



Indirizzo copiato

La Corte Suprema Usa esaminerà il caso Cox Communications contro le major discografiche per definire i limiti della responsabilità degli ISP nelle violazioni copyright commesse dagli utenti. Una decisione destinata a influenzare l’intero ecosistema digitale globale

Pubblicato il 3 nov 2025

Luciano Daffarra

C-Lex Studio Legale



ai copyright gpai (1) ADR proprietà intellettuale caso cox

Il tema della responsabilità degli ISP per le violazioni copyright commesse dagli utenti è giunto a un punto di svolta negli Stati Uniti. Il 30 giugno 2025 la Corte Suprema ha accolto la “Petition for Certiorari” [1] presentata da Cox Communications, il più grande provider privato di banda larga americano, contro la condanna inflittagli dalle major discografiche per non aver contrastato adeguatamente la pirateria musicale sulla propria rete.

La decisione, attesa per la primavera 2026, non solo risolverà un contrasto interpretativo tra diversi circuiti giudiziari, ma ridefinirà i confini del safe harbor previsto dal Digital Millennium Copyright Act, con implicazioni globali per provider, piattaforme digitali e detentori di diritti d’autore.

La vicenda processuale di Cox Communications e la posta in gioco

La causa verso Cox Communications è stata intentata dalle Major discografiche, che avevano dapprima ottenuto una sentenza del tutto favorevole dinanzi a un tribunale distrettuale (Corte Distrettuale della Virginia Orientale il 19 dicembre 2019) e poi avevano visto parzialmente confermata la sentenza in appello dalla Corte del Quarto Circuito (il 20 febbraio 2024)[2], secondo quanto sarà meglio illustrato nel seguito di questo brano.

In primo grado, la giuria aveva inflitto a Cox Communications una condanna esemplare di un miliardo di dollari a titolo di risarcimento per i danni causati ai titolari dei diritti in quanto correlati alla pirateria digitale dei suoi utenti[3].

Il fatto che la massima Corte americana abbia aderito ad esaminare la vicenda decidendo su alcuni suoi aspetti di rilevanza fondamentale, ha immediatamente attirato l’attenzione globale, innescando anche un’ondata di interventi di “Amicus Curiae”, prevalentemente favorevoli alle tesi di Cox Communications[4].

L’esame che verrà svolto dalla Corte Suprema, successivamente alla discussione orale della causa che, al 30 settembre 2025, non risultava ancora fissata[5], si baserà sulla lettura che deve essere data alla legge Statunitense sul Copyright (conosciuta anche come DMCA) e, in particolare, al §512 del suo Titolo 17 che concerne le disposizioni sul safe harbor a favore dei fornitori di servizi on-line e quelle sul sistema di notifica e rimozione dei contenuti abusivi dalla rete Internet.

In seno a tale provvedimento saranno prese in considerazione due distinte forme di responsabilità cui sono assoggettati i fornitori di servizi on-line: la responsabilità c.d. “vicaria”, o per fatto altrui, e quella “contributiva” o indiretta quali esse sono state prese in esame da parte dei magistrati dei primi due gradi di giudizio.

La Corte d’Appello del Quarto Circuito, pur avendo annullato la condanna nella misura di un miliardo di dollari inflitta a Cox Communications dalla giuria in primo grado—ordinandone un ricalcolo alla luce delle sue decisioni —aveva escluso la sussistenza nel caso di specie della “Vicarious Liability” (responsabilità per fatto altrui) da parte dell’ISP.

I giudici di secondo grado hanno infatti stabilito che nel corso del processo non erano emerse prove sufficienti a dimostrare che Cox Communications avesse un controllo diretto sulle attività illecite dei suoi utenti o che essa ne traesse un vantaggio finanziario (lucro) specifico. Tuttavia, la sentenza di appello ha mantenuto in vita l’accertamento della commissione da parte della Cox Communications del “Contributory Infringement” (concorso dell’ISP nella violazione commessa dagli utenti).

Questa forma di responsabilità indiretta ricorre quando un intermediario, pur non commettendo direttamente l’illecito, ne è a conoscenza e partecipa volontariamente ad esso agevolandolo, ad esempio ignorando sistematicamente le segnalazioni di violazione del diritto d’autore da sé ricevute, così come era stato dichiarato nella sentenza in commento[6].

I quesiti sottoposti alla Corte suprema

È proprio su questo secondo fronte che Cox Communications concentra la sua difesa nel ricorso alla Corte Suprema, negando recisamente di avere avuto l’intenzione deliberata (il “Willful Intent”) di aiutare i propri utenti a violare il diritto d’autore, un elemento fondamentale che deve sussistere ed essere accertato per configurare tale forma di responsabilità, secondo la consolidata giurisprudenza statunitense[7].

I quesiti che vengono posti alla Corte Suprema attraverso l’istanza di accertamento degli attori, depositata il 29 agosto 2025 nel caso Cox Communications, Inc. v. Sony Music Entertainment et al. sono in sintesi i seguenti:

  • se il Copyright Act richieda l’effettiva conoscenza da parte dell’intermediario di una specifica attività di violazione, non semplicemente la generica consapevolezza del fatto che gli utenti di un servizio di comunicazione elettronica infrangono il diritto d’autore, per giustificare la concessione di un risarcimento monetario ai titolari dei diritti ai sensi del § 512(c) del Titolo 17 dello U.S. Code;
  • se la mera conoscenza della violazione diretta commessa da un terzo sia sufficiente a determinare la volontarietà richiesta dal Titolo 17 dello U.S.C. § 504(c) per elevare i danni stabiliti per legge[8].

Il nodo del safe harbor e della policy sui recidivi

Le case discografiche, nel corso del procedimento di primo e di secondo grado, hanno sostenuto che Cox Communications era responsabile delle violazioni commesse dai suoi utenti perché non aveva attuato in maniera diligente la propria policy di chiusura degli “account” nei confronti dei “trasgressori recidivi” omettendo intenzionalmente di contrastare l’ingente traffico di contenuti illegali veicolati dagli abbonati sulla sua rete.

La decisione di questo caso – oltre a porre di fronte al massimo organo giurisdizionale degli Stati Uniti alcune decisioni fra loro difformi rese sul tema dal Quarto e dal Nono Circuito – si baserà sull’interpretazione del § 512 del Copyright Act nei numerosi sottoparagrafi in cui esso si articola[9].

Un punto che sarà preso in esame dai giudici di più alto grado nel caso del processo Cox Communications concerne il perimetro che deve essere assegnato al § 512(c) del DMCA, norma che riguarda l’estensione della scriminante del “safe harbor” che protegge i fornitori di servizi on-line dalla responsabilità pecuniaria derivante dalle violazioni del diritto d’autore commesse da parte dei loro utenti, qualora risultino soddisfatte determinate condizioni.

Uno di tali requisiti chiave è dato proprio dal fatto che i fornitori di servizi devono “attuare con ragionevolezza” una politica che contempli la chiusura degli account degli abbonati che risultino essere “trasgressori recidivi” così come stabilito dal §512(i)(1)(A) del Copyright Act.[10]

La tesi sostenuta da Cox Communications nei propri atti di impugnazione della decisione del Quarto Circuito mira a dare a questa disposizione il significato secondo cui l’intermediario può perdere la protezione del “safe harbor” solo se esso è effettivamente a conoscenza di casi specifici e identificabili di violazioni da parte di un determinato utente omettendo di agire per farne cessare il comportamento abusivo. Secondo la tesi del service provider a tale fine non è sufficiente la consapevolezza in termini generali del fatto che si verifichino violazioni da parte degli utenti sulla sua rete di comunicazione elettronica[11].

Il contrasto interpretativo tra i circuiti

Di contro, i giudici di prime cure e quello dell’appello, al pari delle etichette discografiche ricorrenti, avevano considerato che questa interpretazione data alla norma da Cox Communications nelle proprie difese fosse troppo restrittiva, in quanto la cecità intenzionale dell’intermediario di fronte all’enorme quantità di violazioni commesse reiteratamente sulla sua rete, ignorando le migliaia di avvisi di violazione (“NTD”) e non punendo seriamente i recidivi, deve essere ritenuta sufficiente a rendere l’ISP non idoneo ad ottenere la scriminante (il c.d. “safe harbor” o “approdo sicuro”) prevista dal DMCA.

Cox Communications, da parte propria, sostiene che lo standard di responsabilità adottato nella sentenza resa dal Quarto Circuito a favore delle case discografiche crea una profonda e dannosa divisione rispetto alla precedente giurisprudenza e, in particolare, contrasta con altre decisioni rese dal Nono Circuito, il quale ultimo aveva precedentemente stabilito che è necessaria l’effettiva conoscenza di specifici atti di violazione per potere considerare responsabile un fornitore di servizi per gli atti illeciti commessi dagli utenti on-line.

Alla Corte Suprema viene quindi chiesto di risolvere questa distonia interpretativa delle norme vigenti e di fornire uno standard nazionale uniforme avuto riguardo al livello di conoscenza che un ISP deve avere prima di potere essere ritenuto responsabile dei danni causati ai titolari dei diritti per le azioni dei suoi utenti.

L’esito di questo giudizio avrà enormi implicazioni per l’intero ecosistema di Internet, coinvolgendo nei suoi effetti gli ISP, le piattaforme digitali come YouTube, Instagram e Facebook e i detentori dei diritti d’autore.

I precedenti giurisprudenziali: il caso Mavrix e Vimeo

In tale contesto, è utile svolgere un esame sintetico circa le principali decisioni in precedenza intervenute sui temi oggetto della causa fra i titolari dei diritti e gli ISP negli Stati Uniti, cercando di offrire qualche spunto che riconduca alla nostra attenzione situazioni analoghe a quella presa in esame nella causa Cox Communications contro Sony Music et al. cui viene fatto qui riferimento.

Per l’appunto, una decisione del Nono Circuito che ha sollevato scalpore è quella resa in data 7 aprile 2017 nel caso Mavrix Photographs, LLC v. LiveJournal, Inc.[12]: essa riguardava l’applicazione del §512(c)[13] del DMCA sul “safe harbor” e in questo caso la Corte escluse che la piattaforma di social media LiveJournal potesse avvalersi di tale esenzione di responsabilità in quanto nell’esercitare l’attività di “moderatore” del sito con i propri utenti aveva perduto il proprio ruolo meramente passivo, divenendo un “hoster attivo”[14], in tal modo “partecipando attivamente” – come hanno scritto i tre giudici – nel postare i contenuti in violazione della legge, soprattutto tenuto conto che ciò si era verificato con la revisione e l’approvazione dei “post” prima della loro diffusione.

Va peraltro osservato che, in senso contrario a questa decisione, il Secondo Circuito[15], con sentenza del 13 gennaio 2025, nel caso che vedeva opposte la piattaforma Vimeo contro Capitol Records e altre etichette discografiche[16], ha ritenuto di garantire a Vimeo la scriminante della non responsabilità per le violazioni occorse in quanto le interazioni dei dipendenti della piattaforma con i contenuti abusivi caricati dagli utenti attraverso commenti, like o altri atti di approvazione o disapprovazione, non potevano assurgere a una vera e propria attività di “moderazione”.  Un tale comportamento, per essere vietato, avrebbe dovuto esplicarsi per il tramite del c.d. “Right and Ability to Control” esercitato dal fornitore di servizi on-line determinando di tal guisa una modifica del materiale posto a disposizione del pubblico dagli utenti.

I giudici hanno infatti scritto nella loro motivazione che le interazioni riscontrate nel caso di specie fossero “assai meno estese sia per l’effetto coercitivo che per la frequenza”, tanto da costituire una moderazione routinaria, non rapportabile ad un’attività di sostanziale controllo dei contenuti che implicherebbe il diniego del safe harbor.[17] Per tale ragione, impregiudicato il diritto dei ricorrenti di rivolgersi alla Corte Suprema per il vaglio, la loro domanda è stata rigettata.

I casi Motherless e Veoh: quando il safe harbor protegge l’ISP

Un altro caso esemplare in cui si è affrontato il problema della responsabilità degli intermediari è stato deciso dalla Corte del Nono Circuito il 16 agosto 2018: esso ha visto contendere in causa il gestore del sito web Motherless.com e il produttore di contenuti per adulti Ventura Content Ltd. In questo caso che riguardava la presunta violazione dei diritti connessi vantati da Ventura Content su alcune immagini pornografiche, il Nono Circuito ha confermato la decisione favorevole alla convenuta resa nel Summary Judgement dalla Corte distrettuale.

Il collegio ha infatti ritenuto che il safe harbor previsto dal Digital Millennium Copyright Act si applicasse nel caso di specie al sito web Motherless.com poiché le immagini digitali, di provenienza dal produttore Ventura Content, erano state memorizzate su indicazione degli utenti e la stessa convenuta non aveva avuto conoscenza effettiva o apparente della violazione commessa. Inoltre, lo stesso gestore del sito web aveva rimosso expeditiously (senza indugio) il materiale lesivo una volta avuta conoscenza effettiva della violazione. A ciò si aggiunge il fatto che Motherless.com non avesse tratto alcun beneficio economico da tali violazioni ed inoltre avesse adeguatamente implementato una policy che permetteva la rimozione diretta dei contenuti abusivi da parte dei titolari dei diritti e sanzionava i trasgressori recidivi con la chiusura del loro account[18].

Un ulteriore decisum del Ninth Circuit in tema di responsabilità dei service provider è il portato della causa UMG Recordings, Inc. contro Shelter Capital Partners LLC, più noto sotto il nome di caso “Veoh” in quanto con tale termine si identificava la piattaforma di file-sharing accusata in giudizio di favorire la pirateria dei video musicali[19].

Con questa sentenza, i giudici dell’appello hanno affermato che i gestori della piattaforma di file-sharing[20]non erano responsabili per le violazioni commesse dai loro utenti in quanto non era pervenuta ad essi una “Red Flag” specifica: in altri termini per perdere la protezione del safe harbor, l’intermediario avrebbe dovuto avere una conoscenza effettiva di un’infrazione specifica o essere a conoscenza di fatti o di circostanze che rendono particolarmente evidente (“apparente”) un’infrazione ben determinata (appunto, una c.d. conoscenza “Red Flag”).

Secondo il collegio, la mera consapevolezza in termini generali che sulla piattaforma esista del materiale che viola i diritti d’autore non è sufficiente a fare perdere il safe harbor al fornitore di servizi on-line. Inoltre, in questo caso, “Veoh” aveva implementato un sistema di “NTD” efficace e rimuoveva i contenuti quando riceveva valide notifiche, tanto che il suo comportamento è stato considerato dai giudici come legittimo, essendo meramente passivo e neutrale[21].

Le decisioni del quarto circuito e il caso Google

Avuto riguardo alle decisioni rese in materia di responsabilità degli ISP dal Quarto Circuito, ritenuto da taluni incline a favorire i titolari dei diritti, si osserva che nel caso CoStar Group, Inc. c. LoopNet, Inc., la decisione del 21 giugno 2004 ha respinto le domande del rightsholder di alcune immagini fotografiche  riconoscendo all’ISP[22] il safe harbor in un caso di pubblicazione on-line di immagini fotografiche sulle quali vi era stata una revisione umana dei suoi dipendenti allo scopo di bloccare le immagini che non raffigurassero beni immobili commerciali come pure quelle che risultassero prima facie come protette dal copyright di terzi. La Corte ha ritenuto, con il parere dissenziente di un giudice, che il comportamento di LoopNet non potesse assurgere a una responsabilità per violazione dei diritti d’autore spettanti alla CoStar Group in quanto, nella sua opera di controllo e non di mera selezione, essa avrebbe agito “come il proprietario di una fotocopiatrice che ha posto una guardia alla porta per allontanare i clienti che tentassero di duplicare le opere protette”.

Questa veloce carrellata sulle principali decisioni in tema di responsabilità degli ISP, successivamente alle storiche sentenze Napster e Grokster[23],  non esaurisce gli accadimenti giudiziari che ammantano il clima di attesa della decisione della Suprema Corte statunitense.

Invero, nel corso della causa avviata da alcuni editori di libri culturali e didattici nei confronti di Google, attraverso la quale si contesta al gestore del motore di ricerca più noto al mondo di collocare in maniera sistematica inserzioni pubblicitarie sulle copie pirata dei libri di testo e didattici raggiungibili proprio attraverso i messaggi pubblicitari pubblicati da Google, vengono poste al giudice questioni che non si distaccano in maniera significativa da quelle oggetto delle differenti controversie sopra tratteggiate.

Secondo gli attori, Google omettendo di dare seguito, con qualsivoglia iniziativa degna di essere considerata utile, alle richieste di rimozione dei contenuti abusivi che divengono veicolo pubblicitario per l’azienda di Cupertino[24], essa assumerebbe le medesime responsabilità regolate dal § 512 del Copyright Act, in particolare la responsabilità per il “Contributory Infringement”.

Tale tesi viene recisamente negata dall’impresa che gestisce il motore di ricerca in quanto mancherebbe la prova del potere di controllo sui contenuti abusivi facente capo a Google richiesto dalla legge, oltre a non essere dimostrato che vi sia un nesso causale fra i siti web (o i link che ad essi conducono) che offrono i contenuti dei ricorrenti e i ricavi derivanti alla convenuta dalle inserzioni pubblicitarie, né che le suddette violazioni abbiano luogo sulla piattaforma di Google.

La sospensione dei procedimenti in attesa della sentenza

Nel corso di questa causa, dopo 10 mesi di attività istruttoria, in data 10 luglio 2025, i legali di Google hanno fatto istanza affinché la Corte Distrettuale Sud di New York sospendesse il processo in attesa della sentenza della Suprema Corte nel caso Cox Communications contro le case discografiche attrici in quanto detta decisione sarebbe dirimente per stabilire se ricorra o meno la responsabilità del motore di ricerca nel procedimento avviato dagli editori librari.

Con il provvedimento del 22 agosto 2025 la giudice distrettuale ha rigettato la domanda della convenuta osservando che la sospensione della causa non sarebbe di per sé stessa risolutiva d tutte le domande svolte in giudizio, le quali riguardano anche la violazione dei segni distintivi degli attori.

A tale stregua, ha soggiunto la giudice, il corretto svolgimento del processo richiede che si proceda con la fase istruttoria, la cui interruzione danneggerebbe i ricorrenti, pur nella consapevolezza che almeno altri due processi, che si trovano peraltro in un differente quadro dialettico, sono stati sospesi da altre Corti e che ulteriori vertenze fra titolari dei diritti e ISP potrebbero essere posti in attesa della decisione della Corte Suprema prima di giungere a conclusione.

In questo contesto, ha rimarcato il magistrato, si deve tenere conto del fatto che la sentenza della Corte Suprema nel caso Cox con grande probabilità non sarà emessa prima della primavera dell’anno 2026, portando di tal guisa a un ritardo nel completamento degli incombenti della causa pendente che ha previsto in calendario la chiusura dell’intera fase istruttoria per il giorno 26 marzo 2026.

La stessa ordinanza ha precisato che Google potrà rinnovare la sua istanza di sospensiva nel momento in cui sarà terminata la fase della “Discovery” e prima che vengano depositate le memorie conclusive del giudizio sommario.

Il confronto con il Digital Services Act europeo

Dato atto dell’importanza a livello planetario delle determinazioni della Corte Suprema nella vicenda che occupa questo breve contributo, soprattutto per il numero di imprese che ne beneficeranno o ne subiranno gli effetti, va spesa qualche parola su quanto avviene dall’altra parte dell’oceano Atlantico, nell’Unione Europea, sotto l’egida del Digital Service Act[25].

Si nota, nella sostanziale radice comune fra le regole del DMCA e quelle del recente Regolamento comunitario europeo, le cui norme degli artt. 4 (mere conduit), 5 (caching) e 6 (hosting) corrispondono a quelle del § 512 del Titolo 17 del Copyright Act [lett. a), b) e c)], che il secondo delinea in maniera dettagliata gli obblighi di due categorie di intermediari on-line: i “Prestatori di servizi” (Artt. 14 – 18) e le “Piattaforme on-line” (Artt. 19 – 33).

Questo assetto normativo rappresenta un quadro giuridico moderno che pare bene strutturato avuto riguardo al tema della responsabilità degli ISP, superando almeno in parte le incertezze del “safe harbor” statunitense, i cui limiti abbiamo avuto modo di affrontare sommariamente nella precedente parte di questo articolo.

Obblighi e tutele nel regolamento europeo

Fra le questioni che sono al centro delle vertenze che occupano le Corti statunitensi, vi è il punto che riguarda l’implementazione “ragionevole” dei termini di servizio (in essi inclusa la facoltà di cessare i relativi abbonamenti) applicabili nei confronti degli utenti recidivi nelle violazioni, così come prescritto dal § 512 lett. (i) del DMCA.

A tale riguardo, l’art. 14 del Regolamento (UE) 2022/2065 (Termini e condizioni) impone ai fornitori dei servizi on-line di stabilire le regole che presiedono la somministrazione delle loro prestazioni, indicando le modalità per l’invio delle notice riguardanti i contenuti illeciti veicolati sulle loro reti di comunicazione,[26] precisando che ogni misura restrittiva debba essere conforme ai principi della libertà di espressione e degli altri diritti fondamentali dell’individuo[27].

Inoltre, anche la normativa comunitaria comprende fra le misure restrittive applicabili agli utenti, a seguito della procedura di segnalazione delle violazioni, oltre al blocco o alla rimozione dei contenti illeciti, anche la sospensione o la cessazione totale o parziale della prestazione del servizio, ovvero la sospensione o la chiusura dell’account del destinatario del servizio[28], ciò a condizione che l’utente sia informato della possibilità di opporsi tramite ricorso alle sanzioni applicate e che venga fornita adeguata informazione sui “fatti e le circostanze su cui si basa la decisione adottata, compresa, ove opportuno, l’informazione che indichi se la decisione sia stata adottata in base a una segnalazione” presentata da terzi in conformità alla procedura prevista dall’Art. 16 del Regolamento.

Scenari futuri e impatto della decisione

Sul punto che riguarda la cessazione del servizio nei confronti dei recidivi, questione che da decenni è dibattuta a livello dottrinale nel nostro Paese e che si pone ora a livello globale, Cox Communications nel suo ricorso alla Suprema Corte ha evidenziato che l’applicazione del DMCA secondo l’interpretazione datane dalla sentenza del Quarto Circuito  si risolverebbe nell’imporre alla sua impresa, al fine di evitare la responsabilità per le violazioni commesse da alcuni dei suoi utenti, di cacciare “intere abitazioni, caffetterie, hotel, installazioni militari e ISP regionali dalla fruizione della rete Internet”.

Riconducendo la questione che qui si è sommariamente affrontata al di fuori dei toni polemici ed accesi che contraddistinguono gli atti giudiziari, si può affermare che la decisione della Corte Suprema attesa ad inizio del prossimo anno darà un nuovo e più definito perimetro ai criteri di responsabilità di tutti gli intermediari on-line, comprendendo in tale accezione le piattaforme digitali, i social media, dovendosi ipotizzare che una decisione confermativa della sentenza impugnata imporrà agli ISP di dare un seguito rigoroso alle notifiche di violazione ricevute, al fine di evitare di essere dichiarati responsabili per i danni causati ai rightsholder.

Invece, nel caso in cui venisse pubblicata una decisione che dovesse stabilire che la responsabilità per le violazioni degli utenti si pone solo a condizione che sussista un coinvolgimento attivo degli intermediari, i titolari dei diritti avranno grosse difficoltà a convenire in giudizio gli ISP per le violazioni ripetute dei loro utenti, scriminando nella totalità gli intermediari che gestiscono servizi passivi o automatizzati.

Note


[1] Circa le modalità di presentazione delle petizioni di “Cert” (Certiorari) e il funzionamento degli Uffici Giudiziari della Corte Suprema degli Stati Uniti, dalla sua istituzione fino ai giorni nostri, è possibile trovare una narrativa semplice e chiara nel libro della Justice, Amy Coney Barrett, dal titolo “Listening to the Law– Reflections on the Court and Constitution” (pubblicato nel mese di luglio 2025 da Sentinel – ISBN: 9780593421864)

[2] La Corte d’Appello degli Stati Uniti per il Quarto Circuito esamina i ricorsi presentati dai nove tribunali distrettuali federali di Maryland, Virginia, West Virginia, Carolina del Nord e Carolina del Sud.

[3] La vicenda giudiziaria in primo e secondo grado è stata brevemente illustrata nell’articolo che si può leggere in questa pagina web: https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/pirateria-online-la-corte-suprema-usa-pronta-a-ridefinire-le-responsabilita-degli-isp/

[4] Si tratta di documenti presentati da terze parti—come associazioni di settore, giganti Big Tech, esperti giuridici ed enti esponenziali per la tutela dei diritti digitali—per sostenere l’una o l’altra parte del giudizio e incidere sul processo decisionale, sottolineando l’enorme impatto che esso avrà sull’ecosistema di Internet a livello mondiale. Alla data del 5 settembre 2025 gli atti a titolo di “Amicus Curiae” depositati in questa causa superavano la dozzina. Fra di essi vi è quello a firma del Procuratore Generale del Governo degli Stati Uniti, il quale rappresenta il governo federale nei casi presentati alla Corte Suprema ed è responsabile della supervisione di tutti i contenziosi governativi presso tale tribunale.

[5] Le udienze alla Corte Suprema U.S.A. si tengono normalmente nei giorni di lunedì, martedì e mercoledì mattina dal mese di ottobre ad aprile, con due cause discusse ogni giorno a cominciare dalle 10:00 del mattino.

[6] Si precisa che l’attività di concorso con il content provider nella violazione da parte dell’impresa che fornisce il servizio on-line si deve sostanziare nella presenza dell’intento di ”Aiding and Abetting” (sostenere) l’operato dell’agente, requisito da ritenersi essenziale secondo l’elaborazione giurisprudenziale consolidata negli Stati Uniti. Con tale termine si definisce la partecipazione di più persone fisiche o giuridiche, nel fornire “assistenza” o “aiuto in genere” nel compimento di una violazione da parte di un determinato soggetto, nel nostro caso l’utente del servizio di comunicazione elettronica on-line.

[7] Per una sintetica disamina del tema che pone a confronto le norme interne italiane, quelle dell’Unione Europea e le regole applicabili negli USA, si può leggere questo brano: https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/violazioni-del-diritto-dautore-la-responsabilita-degli-isp-norme-e-giurisprudenza/

[8] Questa la norma richiamata: https://www.law.cornell.edu/uscode/text/17/504

[9] Il testo di questa disposizione è raggiungibile qui: https://www.law.cornell.edu/uscode/text/17/512

[10] La disposizione recita letteralmente che l’intermediario debba “adottare e ragionevolmente implementare (…) una policy che stabilisca, in appropriate circostanze, la cessazione del rapporto di servizio con gli abbonati e con i titolari degli account del sistema o del network che siano trasgressori recidivi”.

[11] Nella parte introduttiva della “Petition for Certiorari” i legali di Cox Communications pongono i propri punti fermi circa l’andamento dei fatti di causa. In particolare, essi evidenziano che: Cox non avrebbe incoraggiato alcuno a commettere violazioni; le condizioni generali di contratto per gli utenti stabiliscono che le violazioni sono proibite; il servizio di comunicazione elettronica fornito da Cox non è progettato o adatto alla commissione di violazioni; il modello di business non è stato costruito sulle violazioni, in quanto Cox non accresce di un centesimo i propri ricavi nel caso in cui i suoi utenti decidano di commettere violazioni.

[12] La causa reca il N. 14-56596 – D.C. N. 8:13-cv-00517-CJC-JPR

[13] Qui ci si riferisce a un hosting provider, mentre la Cox Communications è un semplice fornitore di connettività.

[14] Riflessioni sul tema del “safe harbor” sulla disciplina della responsabilità degli Internet Service Provider, in riferimento al ruolo di “hoster attivo”, si trovano qui:

Il medesimo tema, considerato sotto il profilo della messa a disposizione del pubblico di servizi televisivi trova alcuni spunti di approfondimento in questo contributo: https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/responsabilita-dei-fornitori-dei-servizi-di-hosting-la-sentenza-che-fa-chiarezza/

[15] Questa Corte d’Appello comprende i seguenti ambiti circoscrizionali, prevalentemente includendo lo Stato di New York:

District of Connecticut (New Haven, Hartford, Bridgeport)

Eastern District of New York (Brooklyn, Central Islip)

Northern District of New York (Albany, Binghamton, Plattsburgh, Syracuse, Utica)

Southern District of New York (Manhattan, White Plains)

Western District of New York (Buffalo, Rochester)

District of Vermont (Burlington, Rutland, Brattleboro)

[16] A questo link si trova la sentenza in argomento: https://law.justia.com/cases/federal/appellate-courts/ca2/21-2949/21-2949-2025-01-13.html

[17] Con un successivo provvedimento del 9 settembre 2025, articolato in 19 pagine, il Secondo Circuito ha respinto le domande della Capitol Records dirette a censurare gli atti di incoraggiamento rivolti agli utenti affinché realizzassero, postandoli, doppiaggi labiali dei video dei titolari dei diritti caricati sulla piattaforma. Tale comportamento, ad avviso dei giudici, non incide negativamente sulla scriminante del “safe harbor”, poiché affinché quest’ultimo possa essere negato all’ISP vi deve essere un “qualcosa in più” del semplice esercitare un’influenza sull’attività degli utenti, senza che per ciò stesso si possa asserire che vi sia una conoscenza di una specifica attività illecita. Questo “qualcosa in più” – secondo la Corte – sussisterebbe, ad esempio, qualora il fornitore di servizi avesse imposto un controllo di standard editoriali sui contenuti ed avesse implementato severi programmi di controllo degli stessi, incluso il rifiuto dell’accesso al servizio per gli utenti che non vi si adeguassero (pagina N. 6 della decisione).

[18] Qui si trova copia della decisione in argomento con un’esplicazione dei fatti in lingua inglese: https://www.studicata.com/case-briefs/case/ventura-content-ltd-v-motherless-inc

[19] La decisione del Nono Circuito nel suddetto caso si può leggere qui: https://cdn.ca9.uscourts.gov/datastore/opinions/2011/12/20/09-55902.pdf

[20] Sul tema del file-sharing nell’Unione Europea e in Italia, si trovano alcune indicazioni nel seguente articolo: https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/diritto-d-autore-le-nuove-regole-file-sharing/ e in quello di cui alla nota N. 23

[21] Di analogo tenore della decisione resa nel caso “Veoh” è la sentenza resa dal Secondo Circuito d’Appello nel caso Viacom Int. contro YouTube, Inc. in cui il collegio, pur asserendo che la piattaforma YouTube potesse godere del safe harbor in quanto la conoscenza di massive violazioni non equivalesse alla conoscenza specifica di determinate specifiche violazioni come stabilito dalla legge, ha osservato che la “cecità volontaria” equivale a “conoscenza effettiva” delle violazioni, in base alle disposizioni sul safe harbor, soggiungendo che se l’ISP ha una “sostanziale influenza” sull’uso che gli utenti fanno della piattaforma, esso non può invocare l’esenzione da responsabilità. Qui la sentenza del Secondo Circuito in data 5 aprile 2012 https://case-law.vlex.com/vid/viacom-int-l-inc-894076806

[22] Il testo della sentenza del Quarto Circuito cui si è fatto riferimento è accessibile a questa pagina web: https://www.ca4.uscourts.gov/Opinions/Published/031911.P.pdf

[23] Un cenno sulle decisioni in questione è stato fatto nella nota N. 3 di questo articolo: https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/diritto-d-autore-le-nuove-regole-file-sharing/

[24] Le contestazioni sono riportate nell’atto introduttivo del giudizio avviato da Cengage Learning, Inc. e altri editori nei confronti di Google LLC il 5 giugno 2024, radicato di fronte alla Corte Distrettuale degli Stati Uniti per il Distretto Sud degli Stati Uniti, nella città di New York.

[25] Si tratta del Regolamento (UE) 2022/2065 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 ottobre 2022 relativo a un mercato unico dei servizi digitali e che modifica la direttiva 2000/31/CE (regolamento sui servizi digitali).

Sul tema, Agenda Digitale offre, fra l’altro, questa illustrazione dei principi informatori delle nuove regole applicabili al settore del commercio elettronico: https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/digital-services-act-cose-e-cosa-prevede-la-legge-europea-sui-servizi-digitali/

[26] Il testo del Par. 1 dell’art. 14 del DSA recita: “1. I prestatori di servizi intermediari includono nelle loro condizioni generali informazioni sulle restrizioni che impongono in relazione all’uso dei loro servizi per quanto riguarda le informazioni fornite dai destinatari del servizio. Tali informazioni riguardano tra l’altro le politiche, le procedure, le misure e gli strumenti utilizzati ai fini della moderazione dei contenuti, compresi il processo decisionale algoritmico e la verifica umana, nonché le regole procedurali del loro sistema interno di gestione dei reclami.”

[27] Il paragrafo 4 dell’art. 14 del DSA è molto chiaro su questo punto: “4. I prestatori di servizi intermediari agiscono in modo diligente, obiettivo e proporzionato nell’applicare e far rispettare le restrizioni di cui al paragrafo 1, tenendo debitamente conto dei diritti e degli interessi legittimi di tutte le parti coinvolte, compresi i diritti fondamentali dei destinatari del servizio, quali la libertà di espressione, la libertà e il pluralismo dei media, e altri diritti e libertà fondamentali sanciti dalla Carta”.

[28] La disposizione dell’Art. 17 (Motivazione) è la seguente: Articolo 17

“1. I prestatori di servizi di memorizzazione di informazioni forniscono a tutti i destinatari del servizio interessati una motivazione chiara e specifica per le seguenti restrizioni imposte a motivo del fatto che le informazioni fornite dal destinatario del servizio costituiscono contenuti illegali o sono incompatibili con le proprie condizioni generali:

a) eventuali restrizioni alla visibilità di informazioni specifiche fornite dal destinatario del servizio, comprese la rimozione di contenuti, la disabilitazione dell’accesso ai contenuti o la retrocessione dei contenuti;

b) la sospensione, la cessazione o altra limitazione dei pagamenti in denaro;

c) la sospensione o la cessazione totale o parziale della prestazione del servizio;

d) la sospensione o la chiusura dell’account del destinatario del servizio.

2. Il paragrafo 1 si applica solo se le pertinenti coordinate elettroniche sono note al prestatore. Esso si applica al più tardi dalla data a partire dalla quale la restrizione è imposta, indipendentemente dal motivo o dal modo in cui è imposta.

Il paragrafo 1 non si applica se le informazioni sono contenuti commerciali ingannevoli ad ampia diffusione.

3. La motivazione di cui al paragrafo 1 contiene almeno le informazioni seguenti:

a) l’informazione che indichi se la decisione comporti la rimozione delle informazioni, la disabilitazione dell’accesso alle stesse, la retrocessione o la limitazione della visibilità delle informazioni oppure la sospensione o la cessazione dei pagamenti in denaro relativi a tali informazioni o imponga altre misure di cui al paragrafo 1 in relazione alle informazioni, e, ove opportuno, la portata territoriale della decisione e la sua durata;

b) i fatti e le circostanze su cui si basa la decisione adottata, compresa, ove opportuno, l’informazione che indichi se la decisione sia stata adottata in base a una segnalazione presentata a norma dell’articolo 16 oppure sia stata basata su indagini volontarie di propria iniziativa e, ove strettamente necessario, l’identità del notificante;

c) ove opportuno, informazioni sugli strumenti automatizzati usati per adottare la decisione, ivi compresa l’informazione che indichi se la decisione sia stata adottata in merito a contenuti individuati o identificati per mezzo di strumenti automatizzati;

d) se la decisione riguarda presunti contenuti illegali, un riferimento alla base giuridica invocata e una spiegazione delle ragioni per cui l’informazione è considerata contenuto illegale in applicazione di tale base giuridica;

e) se la decisione si basa sulla presunta incompatibilità delle informazioni con le condizioni generali del prestatore di servizi di memorizzazione di informazioni, un riferimento alla clausola contrattuale invocata e una spiegazione delle ragioni per cui le informazioni sono ritenute incompatibili con tale clausola;

f) informazioni chiare e di facile comprensione sui mezzi di ricorso a disposizione del destinatario del servizio in relazione alla decisione, in particolare, se del caso, attraverso i meccanismi interni di gestione dei reclami, la risoluzione extragiudiziale delle controversie e il ricorso per via giudiziaria.

4. Le informazioni fornite dai prestatori di servizi di memorizzazione di informazioni a norma del presente articolo devono essere chiare e facilmente comprensibili e il più possibile precise e specifiche tenuto conto delle circostanze del caso. In particolare, le informazioni devono essere tali da consentire ragionevolmente al destinatario del servizio interessato di sfruttare in modo effettivo le possibilità di ricorso di cui al paragrafo 3, lettera f).

5. Il presente articolo non si applica agli ordini di cui all’articolo 9”.

guest

0 Commenti
Più recenti
Più votati
Inline Feedback
Vedi tutti i commenti

Articoli correlati