cognitive moat

Dal “saper fare” al “saper giudicare”: dov’è il valore del lavoro oggi



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L’intelligenza artificiale erode il valore del mero “saper fare” e premia densità cognitiva, giudizio e capacità di orchestrare uomo e macchina. Il cognitive moat diventa il fossato che protegge il lavoro umano e ridisegna la geografia del valore nel processo produttivo

Pubblicato il 4 dic 2025

Sebastiano Bavetta

Università di Palermo e Co-founder@SandB



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Ha ragione Joshua Gans, economista alla School of Management dell’Università di Toronto, quando afferma che, tra i tanti dubbi, una certezza sulle conseguenze occupazionali dell’intelligenza artificiale l’abbiamo: è cresciuto il numero di studiosi impegnati a stabilire se essa sia complementare o sostitutiva rispetto al lavoro umano [1]. Sino a poco tempo fa, peraltro, il compito di questi studiosi è stato – diciamolo pure – più simile a quello dei veggenti che degli scienziati, poiché dei dati non c’era traccia.

Adesso i primi numeri cominciano ad arrivare. Abbiamo anzitutto un indicatore sull’utilizzazione dell’IA – il Claude Economic Index, costruito da Anthropic [2] – basato sull’analisi di milioni di interazioni anonime con il suo modello di intelligenza artificiale Claude, che traccia come l’intelligenza artificiale sia di fatto impiegata nei compiti del lavoro e nei processi produttivi.

Ma abbiamo anche diversi studi empirici basati su informazioni quantitative, soprattutto relative al mercato del lavoro americano. Per esempio, in un recente studio empirico condotto dallo Stanford Digital Economy Lab sull’impatto dell’IA [3] si osserva che l’effetto sostitutivo del lavoro umano si verifica solo negli ambienti lavorativi a bassa densità cognitiva. Infine, abbiamo parecchia evidenza empirica “locale”, ottenuta utilizzando informazioni quantitative o esperimenti specifici con studenti o imprese – per esempio [4] e [5].

Primi effetti dell’IA sul lavoro e sui compiti professionali

Assieme ai numeri è cresciuta la quantità e la qualità delle interpretazioni. Una strategia utile (e ancora utilizzata) per una buona lettura dei dati è stata spacchettare il lavoro nei compiti che lo compongono e osservare l’impatto dell’intelligenza artificiale su ciascuno di essi, separatamente. Per esempio, il lavoro del professore universitario consiste di diversi compiti: insegnare, fare ricerca, fare esami, cercare risorse per la ricerca, e così via.

L’impatto dell’intelligenza artificiale sui diversi compiti non si distribuisce uniformemente: sulla preparazione degli esami è più facilmente sostitutiva che sulla produzione scientifica o sulla costruzione di progetti finanziabili, dove a me sembra, soprattutto, un supporto. Di conseguenza, spacchettare paga in quanto individua i compiti più probabilmente complementari di ciascun lavoro, raffina la lettura degli effetti dell’intelligenza artificiale e il disegno delle contromisure più efficaci per proteggere dalla sostituzione.

Una strategia più recente si basa sull’analisi delle dimensioni cognitive del processo decisionale nel rapporto tra essere umano e macchina [6]. Essa distingue gli impegni cognitivi richiesti dal lavoro e valuta, per ciascun impegno, le conseguenze della introduzione di tecnologie che li modifichino.

Cognitive moat e densità cognitiva nel rapporto tra umano e IA

Esploriamola. Immaginiamo un architetto alle prese con un progetto di ristrutturazione. Inizia dalla definizione degli spazi e dal disegno in cui traduce le idee in spazi e forme, impiegando competenze tecniche e tempo. Si sta servendo della sua abilità esecutiva. Completato il disegno, ne osserva il risultato e intuisce che qualcosa potrebbe essere migliorato: una luce diversa, un incastro più armonioso, un uso dello spazio più efficiente. Ha messo in moto la sua capacità di giudizio sulle opportunità, attivata dall’abilità esecutiva. Si pone, a questo punto, delle domande, per esempio se la soluzione scelta sia compatibile con il budget indicato dal cliente o se essa crei valore nel contesto urbano in cui si inserisce. In questa fase opera la sua capacità di giudizio sui rendimenti, effettivi e prospettici, del lavoro che ha svolto.

Queste tre attività cognitive attraversano quasi ogni professione. Come i compiti che compongono un lavoro, esse reagiscono in modo diverso all’arrivo dell’intelligenza artificiale e definiscono dove può nascere un cognitive moat e dove, invece, prevale la sostituzione tecnologica.

Abilità esecutiva e sostituzione tecnologica

La prima fase, l’abilità esecutiva, è dove la macchina eccelle: il disegno del progetto, il calcolo degli spazi, la capacità di generare un rendering e di adattarlo utilizzando tecniche di machine learning non sono superabili dalla mente umana. L’abilità esecutiva è quindi sostituibile. La conseguenza della sostituzione è la riduzione dello sforzo messo in opera dal professionista e l’erosione del valore economico di chi punti sul “saper fare”.

Giudizio sulle opportunità e rendimenti crescenti di scala cognitiva

La seconda fase, il giudizio sulle opportunità, è invece la capacità di individuare nuove possibilità di miglioramento o innovazione. È la facoltà che Einstein [7] considerava la più importante nel processo cognitivo, persino più della soluzione:

La formulazione di un problema è spesso più essenziale della sua soluzione, che può essere semplicemente una questione di abilità matematica o sperimentale. Sollevare nuove domande, nuove possibilità, considerare vecchi problemi da una nuova prospettiva, richiede immaginazione creativa e segna un vero progresso nella scienza.

Qui l’intelligenza artificiale non sostituisce la mente umana, ma agisce al suo fianco. Non riduce l’impegno cognitivo dedicato all’esecuzione di un miglioramento, come avviene quando osserviamo sostituzione. Al contrario, ne modifica la distribuzione a favore del “pensare”, dell’“esplorare”. Infatti, l’intelligenza artificiale agisce come una “bicicletta per la mente”, per cui un dato sforzo aumenta il rendimento marginale della riflessione e dell’esplorazione.

Di conseguenza, la tecnologia erode il valore economico associato al vantaggio di chi sa eseguire bene un compito dato: le differenze di produttività basate sull’abilità tecnica perdono peso e la curva dei suoi rendimenti si appiattisce. D’altra parte, crea valore nella capacità di formulare nuovi problemi risolvibili, cioè nella capacità di riconoscere opportunità dove altri non vedono nulla. Questo valore è non lineare: una buona intuizione può generare interi cicli di miglioramento traducendosi in rendimenti crescenti di scala cognitiva, per cui chi è capace di vedere le opportunità “giuste” cattura in modo sproporzionato i benefici della tecnologia.

Giudizio sui rendimenti e ruolo del discernimento umano

La terza fase, il giudizio sui rendimenti, riguarda la capacità di valutare se l’azione intrapresa crei davvero valore. Potremmo chiamarlo il momento del discernimento, cioè riconoscere se un miglioramento individuato dal giudizio sulle opportunità produca un vantaggio reale. Il ruolo della tecnologia, in questo caso, è ambiguo e dipende soprattutto dall’attitudine umana.

Se il professionista si appoggia in larga parte sulla tecnologia – gli economisti direbbero che riduce troppo lo sforzo – il giudizio si atrofizza e non produce un aumento di valore, lasciandosi, di fatto, sostituire. In questa circostanza si perde il vantaggio competitivo fondato sull’esperienza e sull’intuizione, vale a dire la capacità di capire quando fidarsi di un miglioramento osservato.

D’altra parte, qualora il professionista mantenesse lo sforzo di discernimento, allora la tecnologia diventerebbe un moltiplicatore del giudizio. In questa circostanza si creerebbe nuovo valore economico nella capacità di orchestrare l’interazione tra previsione automatizzata e giudizio umano. Un valore raro e crescente perché in pochi sanno farlo bene.

Nell’esempio dell’architetto il software di progettazione mostra le soluzioni possibili, ottimizza l’uso dei materiali, corregge gli errori di calcolo, perfino suggerisce varianti estetiche coerenti con il contesto. Ma nessuno di questi risultati gli dice quale soluzione sia davvero giusta, non solo in senso tecnico, ma umano: per l’ambiente, per chi abiterà quello spazio, per la funzione simbolica che l’edificio dovrà assumere nella città. Il valore economico che nasce dal giudizio sui rendimenti non è misurato dal numero di progetti prodotti o dalla velocità di esecuzione, ma dalla qualità delle decisioni che sopravvivono al tempo. È un capitale cognitivo nuovo, fatto di sensibilità, di misura, anche di consapevolezza dei limiti dello strumento, che lega il valore del lavoro dell’architetto al saper interpretare ciò che la macchina disegna per lui.

Vantaggio competitivo dei cognitive moat e della densità cognitiva

A parte la prima fase, in cui la sostituzione è peraltro già avvenuta, le altre due fasi resistono quando sono popolate da una spessa densità cognitiva. Potremmo immaginarla come l’ingrediente invisibile che trasforma la relazione tra esseri umani e intelligenza artificiale in un vantaggio competitivo sostenibile – un cognitive moat, con un termine reso celebre in finanza da Warren Buffett – un fossato cognitivo che protegge il ruolo dell’essere umano nel percorso di evoluzione tecnologica.

La densità cognitiva è la quantità e qualità di informazione utile che circola all’interno di un ambiente decisionale e che consente ai partecipanti di migliorare le proprie scelte. Un ambiente è “denso” quando genera e conserva segnali cognitivi, quando cioè gli errori, le revisioni e i successi di ciascuno diventano input per le decisioni successive di un altro e la conoscenza non è composta soltanto da informazioni codificate ma anche da conoscenza tacita. Al contrario, è “povero” di densità quando l’informazione non circola o è interamente codificata, per cui ciascuna decisione necessaria per l’esecuzione di un compito non ne richiede la comprensione.

Ambienti ad alta densità cognitiva

La densità è fatta quindi di complessità cognitiva non replicabile. Un’organizzazione ad alta densità cognitiva crea valore attraverso connessioni, interpretazioni e significati che non possono essere estratti dai dati né codificati, perché nascono da interazioni vive, contestuali e situate. Dove le decisioni sono ripetitive e a bassa interazione, dove, nel nostro linguaggio, sono povere di densità cognitiva, la macchina impara rapidamente e decide per l’uomo.

Il fossato cognitivo che protegge il ruolo umano

Altrimenti, per decisioni che richiedono continui rimandi tra interpretazione, contesto e valori, l’intelligenza artificiale non può che diventare una parte del sistema cognitivo umano, non il suo sostituto. Il cognitive moat è quindi un fossato non costruito contro la tecnologia, ma intorno al suo uso intelligente, che protegge il ruolo degli esseri umani rendendolo indispensabile alla coerenza complessiva del processo e con significative implicazioni per il processo produttivo.

Nuova geografia del valore tra cognitive moat e densità cognitiva

Il vantaggio di individuare dove il processo produttivo si addensa o, se volete, i cognitive moat di un’organizzazione, risiede oggi soprattutto nei suoi effetti sulla geografia del valore nel processo produttivo. Le ricerche più recenti mostrano che gli ambienti ad alta densità cognitiva – quelli in cui circolano informazioni di qualità e in quantità tale da migliorare i giudizi sulle opportunità e sui rendimenti – sono anche quelli in cui si genera la parte più significativa del valore economico creato dal processo produttivo.

Quando le tecnologie cognitive operano dentro contesti decisionali densi, non si limitano ad automatizzare: potenziano il discernimento, migliorano la qualità delle decisioni, ampliano l’accesso alle risorse e rafforzano il coinvolgimento delle persone. Il risultato è una co-creazione di valore che attraversa l’intera organizzazione e moltiplica l’efficacia dei processi produttivi [8]. Anche l’evidenza microeconomica lo conferma: le competenze cognitive dei lavoratori e la densità dell’ambiente decisionale sono predittori della qualità organizzativa complessiva [9]. In altre parole, le imprese caratterizzate da ambienti cognitivi densi – dove il sapere si accumula, si confronta e si trasforma in decisioni di qualità – tendono a creare più valore nel tempo.

Infatti, riducendo il costo dell’esecuzione, la tecnologia sposta lo sforzo umano verso attività di interpretazione. Poiché tali attività si concentrano in ambienti cognitivi densi, lo stesso farà anche il valore economico realizzato in un processo produttivo. La densità diventa così il fattore che ridisegna la geografia del valore, allontanandolo dai luoghi in cui si eseguono i compiti e avvicinandolo a quelli in cui si interpretano i contesti, si formulano domande nuove e si prendono decisioni complesse.

È qui che il concetto di cognitive moat trova la sua piena espressione: ogni ambiente ad alta densità cognitiva è, in sé, un fossato di valore che difende il lavoro umano non con le barriere, ma con la profondità del giudizio. E quando questi fossati si moltiplicano e si connettono – dentro un ecosistema produttivo o territoriale – danno forma a una nuova mappa economica, dove la prosperità segue la densità del pensiero, non la concentrazione del capitale.

Implicazioni strategiche per imprese e territori ad alta densità cognitiva

Se la densità cognitiva è il nuovo fattore produttivo, allora le imprese devono imparare a coltivarla. Ciò non vuol dire rinunciare a investire nella digitalizzazione dei processi, ma costruire ambienti in cui l’intelligenza artificiale e quella umana possano apprendere insieme. Investire nella qualità delle decisioni, nella circolazione del sapere e nella fiducia cognitiva diventa quindi la nuova frontiera della strategia d’impresa.

Bibliografia

[1] Joshua Gans (2025), “If AI and workers were strong complements, what would we see?”

https://joshuagans.substack.com/p/if-ai-and-workers-were-strong-complements

[2] Kunal Handa, Alex Tamkin, Miles McCain, Saffron Huang, Esin Durmus, Sarah Heck, Jared Mueller, Jerry Hong, Stuart Ritchie, Tim Belonax, Kevin K. Troy, Dario Amodei, Jared Kaplan, Jack Clark, Deep Ganguli (2025). “Which Economic Tasks are Performed with AI? Evidence from Millions of Claude Conversations”. ArXiv 2503. 04761v1.

[3] Erik Brynjolfsson, Bharat Chandar, Ruyu Chen (2025). “Canaries in the Coal Mine? Six Facts about the Recent Employment Effects of Artificial Intelligence.” Working Paper, Stanford Digital Economy Lab.

[4] Dell’Acqua, Fabrizio, Saran Rajendran, Edward McFowland III, Lisa Krayer, Ethan Mollick, Francois Candelon, Hila Lifshitz-Assaf, Karim R. Lakhani, and Katherine C. Kellogg, “Navigating the Jagged Technological Frontier: Field Experimental Evidence of the Effects of AI on Knowledge Worker Productivity and Quality,” Technical Report, Harvard Business School Working Paper 24-013 2023.

[5] Roldán-Monés, Toni, “When GenAI Increases Inequality: Evidence from a University Debating Competition,” Working Paper, ESADE – Esade Centre for Economic Policy September 2024. Updated version published April 2025.

[6] Ajay K. Agrawal, Joshua S. Gans, Avi Goldfarb (2025). “The Economics of Bicycles for the Mind.” NBER Working Paper No. 34034.

[7] Albert Einstein, Leopold Infeld (1938). The Evolution of Physics: The Growth of Ideas from Early Concepts to Relativity and Quanta. Cambridge University Press, Cambridge: UK. Citazione estratta da [6], pagina 5.

[8] Wesley M. Cohen; Daniel A. Levinthal, (1990). “Absorptive Capacity: A New Perspective on Learning and Innovation”. Administrative Science Quarterly, Vol. 35, No. 1, pp. 128-152.

[9] Andreas, P. Distel, (2017). “Unveiling the Microfoundations of Absorptive Capacity: A Study of Coleman’s Bathtub Model.” Journal of Management, 45(5).

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