In un Paese che investe miliardi del PNRR per rafforzare ricerca e innovazione, la nuova Relazione del CNR prova a misurare cosa sta realmente cambiando. Numeri alla mano, il documento incrocia trasformazioni economiche, geopolitiche e demografiche, evidenziando luci e ombre del sistema nazionale della conoscenza.
Indice degli argomenti
Il quadro d’insieme della ricerca italiana secondo il CNR
La quinta edizione della Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia, realizzata da tre Istituti del Consiglio nazionale delle ricerche – Irpps, Ircres e Issirfa – e con il contributo dell’Area Studi Mediobanca, analizza lo stato della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica nel Paese, in un momento segnato dall’attuazione del PNRR e da forti trasformazioni economiche, demografiche e geopolitiche.
Ricerca e innovazione in Italia: cosa racconta la Relazione CNR
La Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia, presentata il 3 novembre, offre un quadro organico e documentato del sistema nazionale della conoscenza, incrociando dati, casi di studio e confronti internazionali per orientare le scelte di policy. I sei capitoli analizzano, da angolature diverse, come il Paese stia traducendo in pratica gli investimenti del PNRR, come si trasformi l’università, quale sia il posizionamento tecnologico dell’Italia, quanto contino oggi le questioni di genere e di attrazione dei talenti.
Missione 4 del PNRR: dalla ricerca all’impresa
Il primo capitolo entra nel cuore della Missione 4 del PNRR, “dalla ricerca all’impresa”, mostrando come il 44% degli 8,5 miliardi sia già stato rendicontato, con un impatto occupazionale rilevante: oltre 12 mila nuovi ricercatori, quasi la metà donne. Questo risultato convive però con un nodo irrisolto, la sostenibilità post PNRR, in assenza di misure strutturali e a fronte di una domanda ancora debole di competenze elevate da parte dell’industria.
Università italiane tra sottofinanziamento e calo demografico
Il secondo capitolo, curato dall’Area Studi Mediobanca, fotografa un’accademia italiana strutturalmente distante dai partner europei, con minori investimenti pubblici, corpo docente anziano, pochi laureati, attrattività internazionale limitata e un calo demografico che mette in discussione la tenuta complessiva del sistema rispetto ai bisogni del mercato del lavoro.
Valutazione, brevetti, genere ed ERC: i punti critici
Il terzo capitolo sposta l’attenzione sugli effetti dei meccanismi di valutazione, VQR e ASN, evidenziando un aumento della produttività scientifica e dell’uso di indicatori bibliometrici, ma anche una crescente standardizzazione dei comportamenti accademici e il rischio che interi settori si adeguino a pratiche che non migliorano davvero la qualità, da cui l’invito a ripensare la valutazione in modo più formativo e attento alle specificità disciplinari.
Il quarto capitolo guarda alla frontiera tecnologica attraverso l’analisi dei brevetti registrati allo USPTO tra 2002 e 2022 e colloca l’Italia in posizione intermedia nella competizione globale: forte nei settori manifatturieri tradizionali, in ritardo nelle tecnologie emergenti legate al digitale, alle biotecnologie, all’intelligenza artificiale, con una crescente dipendenza da brevetti controllati da soggetti esteri che solleva il tema della sovranità tecnologica e della capacità di trattenere know how.
Il quinto capitolo affronta la parità di genere nei finanziamenti alla ricerca e segnala nei bandi PRIN 2022 e PRIN PNRR 2022 un punto di svolta, con oltre il 41% di Principal Investigator donne, pur in presenza di persistenti squilibri nelle aree STEM, motivo per cui viene sollecitata l’adozione di politiche strutturali e strumenti vincolanti in linea con le migliori esperienze europee.
Il sesto e ultimo capitolo analizza infine la partecipazione italiana ai programmi ERC, dove il Paese si distingue per numero complessivo di progetti ma presenta una bassa incidenza di grant senior e una forte concentrazione geografica e istituzionale, da cui la raccomandazione a rafforzare infrastrutture di supporto e politiche di reclutamento per consolidare la competitività scientifica e ridurre la fuga di talenti.
Inverno demografico e rischi per la ricerca e l’innovazione in Italia
La Relazione descrive con chiarezza una condizione paradossale. Da un lato gli atenei italiani vivono ancora un presente che, osservato superficialmente, restituisce la sensazione di una relativa tenuta se non di una moderata espansione. Le immatricolazioni crescono o comunque non crollano, l’onda lunga dell’ultimo incremento di natalità del 2008 (577 mila nati, anno che rappresenta il bacino di alimentazione delle immatricolazioni per l’anno accademico 2027-2028) alimenta ancora i corridoi universitari, il PNRR immette risorse ingenti nei sistemi di ricerca e trasferimento tecnologico.
Eppure, una lettura attenta delle proiezioni demografiche elaborate dall’ISTAT, relative al c.d. “scenario mediano”, indica tra il 1° gennaio del 2023 e quello del 2041 una flessione della popolazione di età compresa tra i 18 e i 21 anni e si rileva complessivamente un saldo negativo pari a circa 512 mila unità, equivalente a un ripiegamento del 22,1% sulle consistenze di inizio 2023 che appare più acuta per i diciottenni (-26,2%) e tende poi a scemare fino ai 21 anni (-18,4%).

Le proiezioni ISTAT sui giovani in età universitaria
In altre parole, il picco di immatricolazioni previsto per l’anno accademico 2027-2028 è l’ultimo sussulto prima di una curva che cambia bruscamente direzione. Non è un semplice aggiustamento quantitativo, ma una trasformazione strutturale che investe la fisionomia stessa del sistema, la sostenibilità economica degli atenei, la capacità del Paese di formare capitale umano avanzato.
L’impatto economico del calo delle immatricolazioni sugli atenei
L’impatto economico diretto è altrettanto chiaro. Un calo di questa portata nelle immatricolazioni produce inevitabilmente una perdita consistente di entrate da contribuzione studentesca. Facendo riferimento, in via prudenziale, a una contribuzione studentesca media pari a circa 1.200 euro pro capite (atenei statali), il minore introito che sarebbe ricevuto dalle università relativo alla riduzione degli iscritti conseguente al calo demografico è quantificabile in 480 milioni di euro (cfr. pag. 79 del Rapporto).
Ma ancora più rilevante è l’effetto indiretto. Un sistema universitario più piccolo, in un Paese già sotto la media europea per quota di laureati, non significa solo meno risorse per gli atenei. Significa una base più stretta di competenze elevate, un minor numero di ricercatori e professionisti in grado di alimentare l’innovazione nelle imprese, nelle amministrazioni pubbliche, nei servizi alla persona, nei settori emergenti legati al digitale e alla transizione ecologica.
PNRR, dottorati e il rischio di un sistema sospeso dopo il 2026
Su questo sfondo la Relazione coglie un disallineamento profondo tra la temporaneità degli strumenti straordinari, come il PNRR, e la durevolezza delle traiettorie demografiche e strutturali. Il Paese sta sperimentando, grazie al PNRR, un rafforzamento senza precedenti dell’infrastruttura di ricerca e trasferimento tecnologico, con migliaia di nuovi ricercatori assunti, nuovi partenariati, nuovi centri e ecosistemi dell’innovazione.
Basti pensare anche alla crescita significativa negli ultimi anni del numero di iscritti ai corsi di dottorato, che ha registrato un incremento del 48,5% passando da poco più di 31 mila nel 2020 a quasi 47 mila nel 2024, anche grazie ai fondi del PNRR (fonte: Deloitte –Ecosistema MUSA – Strategia integrata per il trasferimento delle conoscenze delle risorse provenienti dalla ricerca)). Ma cosa succederà dopo il 2026? Il rischio – ormai imminente – è quello di un sistema sospeso, potenziato in superficie da un ciclo di investimenti eccezionale, ma non ancora messo in sicurezza da riforme strutturali coerenti con lo scenario che ci attende.
Mezzogiorno e coesione universitaria: un sistema sotto stress
La Relazione mostra con forza come il calo demografico non sia un fenomeno neutro dal punto di vista territoriale. Il Mezzogiorno rappresenta il punto di massima tensione dell’intero sistema. In diverse regioni meridionali, stime e simulazioni suggeriscono una possibile riduzione delle matricole vicina o superiore a un terzo rispetto ai livelli attuali, ben oltre quanto previsto per il Centro e il Nord. Questo dato non è solo il riflesso di una denatalità più marcata. È il prodotto di una debolezza strutturale nella capacità di attrazione degli atenei meridionali, che in molti casi continuano a svolgere una funzione prevalentemente locale, servendo quasi esclusivamente il proprio bacino di prossimità.
Atenei meridionali tra denatalità e attrattività debole
Quando una università dipende in modo quasi totale dalla popolazione residente e questa popolazione si riduce, l’impatto non è lineare ma moltiplicato. Le università del Nord e di alcune aree del Centro possono contare su flussi in ingresso da altre regioni e, in misura crescente, dall’estero. Gli atenei meridionali, che non sono riusciti a costruire in modo diffuso la propria identità come poli attrattivi nazionali o internazionali, rischiano invece di trovarsi esposti a una spirale discendente.
Il circolo vizioso tra meno iscritti e meno risorse
Meno giovani significa meno iscritti, meno risorse, minore possibilità di mantenere un’offerta formativa ampia e di qualità, maggiore difficoltà a trattenere docenti e ricercatori di talento, ulteriore perdita di appeal per gli studenti. Il circolo vizioso è evidente.
Capitale umano e divari territoriali nelle transizioni europee
Questa dinamica ha implicazioni profonde sul piano della coesione nazionale e della competitività complessiva del Paese. Se il Mezzogiorno vede indebolirsi ulteriormente il proprio ecosistema della conoscenza, la frattura territoriale in termini di capitale umano si accentua. Le aree già forti consolidano il proprio vantaggio e diventano sempre più i luoghi in cui si concentrano le opportunità qualificate, mentre le regioni più fragili rischiano di trasformarsi in serbatoi di emigrazione intellettuale.
In un contesto in cui le grandi traiettorie europee assegnano alla formazione terziaria e alla ricerca un ruolo cruciale nelle transizioni digitale e verde, un Mezzogiorno impoverito di competenze non è solo un problema locale, ma una zavorra per l’intero sistema Paese.
La Relazione suggerisce che il nodo territoriale non potrà essere affrontato con interventi uniformi o con logiche meramente compensative. Il diverso tempo con cui gli atenei sperimenteranno la contrazione delle immatricolazioni è un elemento non secondario. Alcune università avranno qualche anno in più per ripensare la propria offerta, sperimentare strategie di internazionalizzazione, ridisegnare il rapporto con il territorio e con le imprese.
Altre si troveranno a gestire in tempi molto più rapidi il passaggio da aule piene ad aule semivuote. In questo senso, il Mezzogiorno diventa una sorta di stress test politico e istituzionale. La risposta che verrà data a questa porzione del sistema universitario dirà molto sulla reale volontà del Paese di considerare la conoscenza come leva di riequilibrio territoriale o, al contrario, di accettare una deriva verso una geografia sempre più diseguale della formazione superiore.
Valutazione della ricerca e impatto sull’innovazione in Italia
Il terzo capitolo, a prima vista, sembra rivolgersi quasi esclusivamente alla comunità accademica e apparire come un esercizio di autoriflessione dell’università su sé stessa. In realtà rappresenta uno dei passaggi più delicati dell’intera Relazione, perché mostra come i meccanismi di valutazione abbiano progressivamente ridefinito non solo le traiettorie di carriera dei singoli, ma anche la fisionomia complessiva della ricerca prodotta in Italia.
Publish or perish e standard internazionali
L’analisi degli effetti di VQR e ASN restituisce un quadro articolato. Da un lato emerge con chiarezza un rafforzamento dell’attenzione verso le pubblicazioni scientifiche in senso stretto, cioè gli articoli su riviste indicizzate, preferibilmente internazionali e classificate in fascia alta. I ricercatori intervistati segnalano una consapevolezza sempre più precoce, già nelle prime fasi della carriera, del fatto che scrivere e pubblicare in queste sedi sia condizione indispensabile per progredire nei ruoli (publish or perish) e per essere riconosciuti dalla propria comunità scientifica.
Questo processo ha prodotto anche esiti positivi, spingendo una parte del sistema a confrontarsi con standard internazionali più esigenti, a curare maggiormente la disseminazione dei risultati, a misurarsi con arene editoriali competitive e ad alta visibilità.
Quando la ricerca si allontana da imprese e territori
Al tempo stesso, però, proprio questo spostamento di asse verso la pubblicazione accademica standardizzata sembra aver avuto un costo rilevante sul piano degli oggetti e delle finalità della ricerca. Il capitolo lascia intuire, seppure in filigrana, una tendenza all’abbandono o marginalizzazione di temi radicati nei contesti locali, nelle esigenze dei territori, nei bisogni delle imprese, piccole o grandi che siano.
L’orientamento crescente verso un tipo di output che sia facilmente riconoscibile dai parametri valutativi internazionali porta molti studiosi a privilegiare problemi più astratti o modellizzabili, più allineati ai format e agli interessi delle grandi riviste, mentre risultano meno coltivati quegli ambiti di ricerca che nascono dall’interazione con sistemi produttivi specifici, con amministrazioni locali, con comunità che esprimono bisogni particolari.
In questo senso, la valutazione non ha inciso solo sulle strategie di pubblicazione, ma ha contribuito a spostare la ricerca lontano dai luoghi in cui si manifestano le trasformazioni economiche e sociali del Paese. Le piccole e medie imprese, le filiere produttive regionali, i sistemi territoriali che faticano ad innovare, rischiano di diventare oggetti poco attrattivi agli occhi di chi deve costruire un curriculum orientato alle grandi riviste.
Il nodo più problematico, messo in evidenza dal capitolo, riguarda la tensione tra quantità e qualità, tra produttività misurabile e capacità di innovare davvero.
Metriche, reti di potere e pratiche opportunistiche
La pressione esercitata da ASN e VQR tende a favorire una frammentazione della produzione scientifica, la moltiplicazione di contributi circoscritti e ripetibili, la scelta di argomenti relativamente sicuri e collocabili, a scapito di percorsi di ricerca più lunghi, teoricamente ambiziosi o fortemente interdisciplinari.
In un simile contesto, la multidisciplinarità e la riflessione critica, indispensabili per affrontare le sfide complesse che attraversano il Paese, rischiano di diventare “un lusso”, qualcosa da praticare solo quando non entra in conflitto con le scadenze valutative e con i requisiti necessari per avanzare in carriera.
Se il sistema continua a premiare quasi esclusivamente la pubblicazione in formati standardizzati e in sedi internazionali selezionate, trascurando la ricerca che dialoga con i contesti locali e con le esigenze di innovazione di imprese e territori, l’Italia rischia di trovarsi con un’accademia formalmente più produttiva, ma meno capace di leggere e trasformare la realtà che ha intorno.
Il report osserva con chiarezza che la pressione esercitata dalla valutazione, attraverso l’uso sistematico di metriche collegate agli indicatori bibliometrici e alla classificazione delle riviste in Fascia A, ha prodotto un riorientamento di interi settori verso comportamenti che non generano reali miglioramenti della qualità scientifica.
Gli incentivi, pensati per innalzare il livello della ricerca, finiscono così per produrre soprattutto effetti collaterali, con esiti negativi e preoccupanti sulle pratiche quotidiane dei ricercatori. Dentro questo quadro si intravede una trasformazione più profonda e meno esplicitata.
L’enfasi sulle riviste considerate di Fascia A (ranking più alto) e sugli indici bibliometrici non agisce solo come strumento tecnico di misurazione, ma contribuisce a spostare il baricentro del potere accademico verso reti di interessi che ruotano attorno a un numero limitato di journal internazionali.
Laddove un tempo la legittimazione scientifica passava in larga misura attraverso le scuole di pensiero, i confronti, le tradizioni di ricerca e i luoghi di formazione, oggi tende a concentrarsi in circuiti più sottili, costruiti sull’accesso privilegiato a determinate riviste, sulla familiarità con i loro editor, sulla capacità di inserirsi in catene di coautoraggio e di referaggio che gravitano intorno a pochi nodi editoriali (sul tema in maniera più ampia si suggerisce Capone & Lazzeretti, 2023).
In questo contesto prosperano pratiche opportunistiche come il gift authorship, il lavoro di squadra con un’attribuzione eccessiva della paternità a troppi autori (salami slicing of credit), l’uso sistematico di autocitazioni o la costruzione di vere e proprie citation farms (per un approfondimento si rimanda a Ioannidis & Maniadis, 2024).
Il rischio è che la valutazione finisca per consolidare questi network, trasformando i journal più influenti in veri dispositivi di selezione e di indirizzo delle agende di ricerca, a scapito di una pluralità di voci, di approcci e di comunità scientifiche radicate nei problemi reali del Paese.
Da qui l’urgenza, sottolineata anche dal rapporto, di ripensare a fondo strumenti come VQR e ASN (oggetto di recente di profonde modifiche) affinché sostengano davvero qualità, pluralismo e impatto sociale della ricerca, invece di limitarsi a misurarne la produttività formale, evitando che nel contesto nazionale si affermi la figura dei “super pubblicatori”, capaci di sfornare sulla carta un paper ogni pochi giorni e di inquinare l’ecosistema della ricerca con una produttività solo apparente che sottrae spazio alla ricerca solida, lenta e socialmente rilevante.
Ricerca e innovazione in Italia come infrastruttura nazionale della conoscenza
Alla luce di queste considerazioni, le proposte che emergono dalla Relazione possono essere lette come i tasselli di una possibile strategia nazionale.
Internazionalizzazione e attrazione di studenti stranieri
La prima direttrice riguarda l’internazionalizzazione. Se il bacino dei giovani italiani si restringe, diventa imprescindibile che gli atenei smettano di considerare l’attrazione di studenti stranieri come una dimensione accessoria. L’Italia si colloca in un’area geografica e culturale che potrebbe renderla un polo naturale per studenti provenienti dal Mediterraneo, dall’Europa orientale e oltre.
Perché questo potenziale si traduca in realtà, occorre investire seriamente in corsi in lingua inglese, servizi di accoglienza, politiche abitative e di integrazione, reti con scuole e università straniere, promozione coordinata all’estero. Nel Mezzogiorno, tale scelta potrebbe trasformare atenei oggi fragili in piattaforme di cooperazione e scambio, con ricadute dirette su economie locali e sistemi urbani.
Dalla scuola all’università: orientamento e diritto allo studio
Una seconda direttrice riguarda la transizione scuola-università. Portare l’Italia verso la media europea nei tassi di prosecuzione degli studi non significa gonfiare artificialmente le immatricolazioni, ma rimuovere gli ostacoli culturali e materiali che ancora scoraggiano molti diplomati a intraprendere percorsi universitari.
Ciò implica un ripensamento dell’orientamento scolastico, una maggiore chiarezza nella comunicazione sugli sbocchi occupazionali delle diverse lauree, una gestione più equa e trasparente del diritto allo studio. Se l’accesso all’università viene percepito come una scelta rischiosa, costosa e poco riconoscibile sul piano professionale, l’effetto sarà quello di rafforzare le disuguaglianze sociali e territoriali già presenti.
Università e apprendimento lungo tutto l’arco della vita
La terza direttrice è forse la più strategica e riguarda la riconfigurazione dell’università come infrastruttura di apprendimento lungo l’intero arco della vita. In un mercato del lavoro in continua trasformazione, nel quale competenze acquisite dieci anni fa rischiano di perdere rapidamente valore, gli atenei potrebbero diventare nodi centrali di formazione continua, aggiornamento e riqualificazione per lavoratori occupati, disoccupati, professionisti, personale delle amministrazioni pubbliche.
Questo significherebbe ridisegnare parte dell’offerta didattica, investire su formati flessibili, riconoscere pienamente il valore dei percorsi ibridi tra lavoro e studio.
Resta da capire se la politica, le istituzioni e gli attori della conoscenza sapranno cogliere nel declino demografico non solo un problema da amministrare, ma l’occasione per ripensare in profondità il modello di sviluppo del Paese e il ruolo della conoscenza al suo interno.
In che misura saremo all’altezza di questa responsabilità lo dirà meno il conteggio di brevetti e pubblicazioni, e molto di più la capacità di non lasciare nessun territorio e nessuna generazione ai margini di questo progetto comune.












