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Amazzonia, terre rare e popoli indigeni: il lato oscuro della transizione verde



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Il mondo vuole accelerare la transizione energetica, ma per farlo rischia di distruggere proprio quei territori indispensabili al clima globale. È il paradosso della transizione verde: diventare più sostenibili aumentando la pressione su chi rispetta la natura da millenni come sull’Amazzonia e la domanda di terre rare

Pubblicato il 2 dic 2025

Mario Di Giulio

Professore a contratto di Law of Developing Countries, Università Campus Bio-Medico Avvocato, Partner Studio Legale Pavia e Ansaldo



crediti di CO2 (1); Amazzonia, terre rare e popoli indigeni: l’aspetto oscuro della transizione verde

L’Amazzonia, la più grande foresta pluviale del pianeta, è tornata al centro del dibattito globale dopo la Cop30 sul Cambiamento climatico da poco conclusa.
Simbolo di biodiversità e baluardo contro il riscaldamento climatico è infatti non solo aggredita dalle deforestazioni volte ad aumentare le superfici coltivabili, ma è divenuta terreno conteso nella nuova corsa internazionale alle terre rare e altri materiali strategici che alimentano la rivoluzione tecnologica e la transizione energetica.


Dalle batterie dei veicoli elettrici ai pannelli solari e le pale eoliche, dai chip industriali ai dispositivi digitali, l’economia verde si basa su materiali la cui estrazione ha un altissimo impatto ambientale.
Molti di questi giacimenti sembrano trovarsi sotto il suolo amazzonico, su territori abitati da popolazioni indigene isolate: isolate da quella che continuiamo a chiamare civiltà (dove l’etimologia – l’attinenza alle città quale luogo del vivere in comune – sempre più stride con quello del rispetto dell’altro quale imprescindibile presupposto del vivere insieme).

Le miniere che avanzano nell’ombra

Negli ultimi anni, previsioni geologiche e studi indipendenti hanno individuato aree potenzialmente ricche di terre rare in Brasile, Guyana e Perù.

A muoversi, spesso lontano dai riflettori, sono società minerarie internazionali e consorzi privati che vedono nell’Amazzonia la nuova frontiera sulla quale investire in vista dell’esplosione della domanda globale.
Come per le piantagioni di cannabis e coca, la dinamica è sempre la stessa: costruzione di piste d’atterraggio improvvisate, aperture di strade secondarie nella foresta, pressione politica per accelerare i permessi di esplorazione. Secondo diverse organizzazioni ambientaliste, molte delle aree coinvolte lambiscono o si sovrappongono a territori indigeni protetti, dove il controllo statale è insufficiente e le attività illegali si intrecciano con quelle autorizzate (solo per il Brasile si stimano ben 45 gruppi indigeni a rischio). Ed anche
quando lo sfruttamento si propone in modo legale, si negozia con le autorità la distanza minima dai gruppi indigeni: a fronte dei 40 km che l’Observatory of Isolated Indigeneous People ritiene la distanza minima per assicurare l’isolamento in cui i gruppi indigeni vogliono vivere, la regolamentazione ufficiale riduce la distanza a solo 10 km (due ore di cammino, laddove esistesse un sentiero).

La contaminazione invisibile in Amazzonia per la ricerca di terre rare

L’estrazione delle terre rare, così come quella di altri minerali quale il litio, è considerata tra le più impattanti a livello ambientale. Richiede l’impiego massiccio di solventi, acidi e processi chimici che generano scarti tossici difficili da smaltire correttamente.
Nelle prime zone di esplorazione sperimentale, le comunità riferiscono di:

  • crollo della fauna selvatica, con gravi ricadute sulla caccia tradizionale;
  • pesci contaminati da metalli pesanti;
  • incremento di malattie respiratorie e dermatologiche;
  • problemi neurologici associati a esposizione costante a sostanze tossiche;
  • crollo della fauna selvatica, con gravi ricadute sulla caccia tradizionale.

Per i popoli indigeni – Yanomami (vivono tra Brasile e Venezuela), Munduruku (Brasile), Kayapó (Brasile), Asháninka (vivono tra Brasile e Perù) – la contaminazione non è un’emergenza sanitaria: è, invece, una minaccia diretta alla loro sopravvivenza culturale e spirituale.

Per queste popolazioni la perdita di un fiume non significa solo mancanza di acqua, ma significa anche perdita di tradizioni, di sostentamento e d’identità.

La pressione culturale della modernizzazione

Accanto al danno ambientale c’è una pressione più subdola: quella culturale. Strade, scuole, presidi medici e strutture di comunicazione vengono spesso presentati come “benefici” portati dalla modernizzazione tuttavia, per molte comunità indigene, si tratta di un modello imposto dall’esterno, che mira a normalizzare la loro presenza all’interno di un progetto economico estrattivo.
Antropologi e ONG parlano apertamente di assimilazione mascherata.

La logica è semplice: se vuoi accesso ai servizi, devi accettare la presenza dell’impresa mineraria. Un meccanismo che progressivamente indebolisce le strutture tradizionali, favorisce l’abbandono delle lingue native e crea una dipendenza crescente dalle istituzioni esterne. Una nuova forma di colonizzazione portata avanti con la retorica dello sviluppo.

I popoli in isolamento volontario: equilibrio a rischio estinzione

Tra i più vulnerabili ci sono i gruppi che vivono in isolamento volontario, piccoli nuclei che da decenni evitano il contatto con il mondo esterno.

Per loro, ogni estrazione mineraria, sia essa legale o no, rappresenta un rischio mortale. Non possiedono difese immunitarie contro malattie comuni e dipendono totalmente dalla caccia e dalla raccolta.

Inoltre, ogni strada aperta, ogni insediamento umano e ogni scavo possono distruggere il loro territorio di caccia, costringerli alla fuga o portarli a un collasso demografico irreversibile. Per questi gruppi, la contaminazione è una condanna all’estinzione.

La Cop30 e il paradosso della transizione verde

La Cop30, tenutasi per la prima volta in Amazzonia, ha sottolineato il ruolo centrale dei popoli indigeni nella difesa della biodiversità.

La conferenza ha anche messo in luce una contraddizione crescente: il mondo vuole accelerare la transizione energetica, ma per farlo rischia di distruggere proprio quei territori indispensabili al clima globale.
È il paradosso della transizione verde: diventare più sostenibili aumentando la pressione su chi rispetta la natura da millenni; questo vale per l’Amazzonia ma anche altrove, basti pensare ai programmi di compensazione di anidride carbonica condotti in Africa orientale dove a essere vittime sono i pastori che conducono le transumanze e le comunità Masai che devono lasciare spazio a parchi e rimboschimenti.
Una volta ancora l’Occidente e i paesi più sviluppati mostrano così la propria ipocrisia.

Le richieste delle comunità

Durante e dopo la Cop30, le principali richieste avanzate da leader indigeni e ricercatori sono state:

  • moratoria sulle concessioni minerarie nei territori indigeni;
  • rispetto del consenso libero, previo e informato;
  • monitoraggi ambientali indipendenti;
  • rafforzamento della lotta al mining illegale;
  • investimenti globali nel riciclo delle terre rare;
  • alternative industriali realmente sostenibili.

Molti governi si sono dichiarati disponibili al dialogo, ma pochi hanno assunto impegni vincolanti. La corsa economica è più veloce delle leggi e della diplomazia.

Una sfida che riguarda tutti

L’Amazzonia non è un deposito di risorse. È un sistema vivente, interconnesso, custode di culture irripetibili. Mettere a rischio questo patrimonio per alimentare tecnologie verdi
significa ignorare il valore umano e ambientale della foresta.
Qualcosa su cui riflettere con urgenza e agire con altrettanta determinazione per assicurare
quella giustizia globale invocata dai paesi del Sud Globale e sempre più spesso ignorata,
quando non è del tutto negata.

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maurizio conticelli
maurizio conticelli
8 ore fa

Suggerirei di approfondire questo rilevante argomento di carattere economico, sociale ed ambientale, con gli studi del Prof. Giovanni Brussato, tra cui la sua pubblicazione ECONOMIA VERDE? PREPARIAMOCI A SCAVARE, che “smaschera” queste contraddizioni green su scala globale

Brussato-copertina

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