Nel mondo nuovo dell’informazione, il giornalismo è l’osservatorio privilegiato delle trasformazioni digitali ma anche il luogo in cui la crisi si manifesta prima e con più forza. Le scosse che attraversano l’ecosistema delle news mettono in discussione linguaggi, ruoli e responsabilità dei media tradizionali.
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Le difficoltà dei giornalisti e il virus della cronaca
Il giornalismo rappresenta, infatti, la parte più elaborata e complessa della produzione comunicativa, ed è dunque destinato, già solo per questo, ad entrare in crisi prima e più dell’intrattenimento e della fiction. È fondamentale allora interrogarci, sulla base della letteratura e delle ricerche, se si possa mettere in campo un’ipotesi di lettura in grado di ridurre le incertezze nell’interpretazione aggiornata dei cambiamenti intervenuti.
Il punto di partenza è ovviamente riconoscere che, nella modernità dei sistemi mediali, il problema è diventato non tanto leggere l’informazione, ma “sciogliere” quel flusso comunicativo che rende sempre più complessa la riconoscibilità di tale genere, prima ancora dell’assalto delle complicazioni determinate dall’avvento del digitale. Siamo ormai di fronte a una crescente difficoltà culturale dei giornalisti ad elaborare i temi e a offrire un’autentica tematizzazione dell’attualità e dei problemi sociali.
Senza questo sforzo, il virus della cronaca rischia di trasformarsi in puro aggiornamento, riducendo la capacità di tematizzazione e di interpretazione degli eventi.
Mondo nuovo dell’informazione digitale: le diete dei pubblici
Le ricerche sulle diete informative, a partire dal Rapporto Agcom sul consumo di informazione del 2018[1], aggiornate però dallo stesso osservatorio al 2025, hanno dimostrato che molti dei soggetti sociali, interrogati a proposito dell’informazione in rete, non sono in grado di ricostruire, neppure a breve distanza, la fonte da cui hanno attinto le news.
Questo avviene per di più tra quanti presentano un comportamento abituale che si limita alle diete più tradizionali o mainstream. Ciò significa che non hanno mai collegato il principio di autorità offerto da una testata e le notizie messe in scena.
Mai come adesso è capitato nella storia dell’informazione che si costituissero così tante bolle autoreferenziali. In passato, queste “isole” comunicative consistevano in un’offerta selezionata dall’autonoma capacità dei giornalisti; ora, invece, si enfatizza così il fenomeno in forza di cui i dati e le statistiche, mai amati dalle pratiche informative, alimentano il meccanismo delle fake news.
Bolle, ripetizione e piacere di informarsi nel mondo nuovo dell’informazione
È dunque opportuno domandarsi, anzitutto, quale sia la nuova mappa dei piaceri soddisfatti dall’informazione. È una domanda che presuppone una conoscenza approfondita del rapporto tra soggetti e testi.
Nel piacere di informarsi tipico dei moderni si registrano anche novità più evidenti che nel passato, a partire dal gusto della ripetizione. Sembrava il contrario, ovvero che l’informazione dovesse sempre essere trasgressione, novità, news. In tutte le lingue, romanze e non, il termine “notizia” allude a uno scostamento dalla realtà: ci deve essere una cosa nuova.
Ma quante volte il sistema informativo italiano offre ai pubblici davvero “una cosa nuova”? Siamo quasi sempre di fronte a ricami su notizie, con pochissime aggiunte incrementali rispetto alla prima trattazione, o addirittura al semplice lancio di agenzia.
C’è un ulteriore aspetto da considerare, relativo al concetto di “oblio rapido dei contenuti” tipico del nostro tempo, che diventa più chiaro se facciamo riferimento ai coriandoli e ai ritagli del racconto informativo, soprattutto in riferimento al modo in cui il soggetto rielabora le priorità e seleziona le informazioni che gli consentono di “leggere il mondo”.
Per cogliere per intero questo processo – che rappresenta un’ulteriore prova dei processi di disapprendimento rispetto al passato – è utile chiamare in causa i concetti di attenzione dei pubblici e/o economia della disattenzione, partendo dalla constatazione che attenzione e distrazione sono armi usate in modo sempre più strategico dai grandi players accumulatori di dati a nostre spese.
La disintermediazione e l’attacco ai mediatori dell’informazione
L’attacco ai mediatori, che risulta l’altra caratteristica critica al tempo dei moderni, soprattutto perché inadeguatamente approfondita, è quella che Rodotà ha definito a suo tempo “disintermediazione”. Essa fondamentalmente significa il superamento e la rottamazione della mediazione, e tanto più della certificazione, un fenomeno con cui veniamo in contatto quotidianamente, e spesso inconsapevolmente.
Del resto, è evidente la difficoltà di scorgere in rete polemiche contro gli Over the top, oppure contro un processo di acquisizione delle news che si traduce poi in una profilazione degli utenti.
Comunicazione, potere e razionalizzazione nel mondo nuovo dell’informazione
Del resto sappiamo bene che la caratteristica fondamentale dell’uomo contemporaneo è di essere assetato di comunicazione. E questo ha conseguenze qualitative: pensiamo a quanto essa si lega a comportamenti politici o emozionali; il modo in cui la comunicazione stilizza le nostre esistenze è davvero un’operazione non facile da accettare.
Per di più è ormai un dato di fatto che l’aumento di possibilità informative e comunicative non si traduce automaticamente in un accrescimento di competenze sociali distribuite nella popolazione. Un equivoco regalo delle tecnologie dette stancamente nuove è quello di aver realizzato una sostanziale amnesia delle motivazioni sociali nella comunicazione contemporanea[2].
È difficile tuttavia dire che questo sia un fenomeno nuovo, poiché il disinteresse per le tematiche sociali e la semplificazione della narrazione concentrata sul potere sono quasi connaturati al racconto informativo italiano.
E tuttavia è innegabile che, con la pressione psicologica ed economica del digitale, siamo ora in presenza di un exploit di un fenomeno che Franco Rositi ha definito a suo tempo, con frase memorabile, “assenza di razionalizzazione sociologica”[3]. Siamo di fronte a un’informazione connotata da alcuni trend distorsivi: la citazione prevale sull’azione, il linguaggio del potere continua imperterrito ad occupare il centro della scena, la stessa espansione del discorso politico, a danno dell’informazione sociale o economica, si concentra sulle manifestazioni di idee e intenzioni da parte dei politici, prontamente registrate dai giornalisti.
Dunque, siamo di fronte a discorsi che danzano con altri discorsi.
Un giornalismo che si organizza dunque come citazione, e non come racconto di azioni compiute e scelte, diventa la colonna sonora di un’informazione sostanzialmente autoreferenziale.
Giornalismo, responsabilità del potere e promesse mancate del digitale
È stato scritto molti anni fa da Franco Ferrarotti che il potere contemporaneo “sfrutta e opprime non esercitando un’azione diretta… bensì semplicemente ignorando, non intervenendo, rinunciando ad agire”; in altre parole astenendosi da un’autentica e trasparente informazione.
Concludendo il suo ragionamento Ferrarotti ci ammoniva che “i peccati più gravi del potere odierno sono peccati di omissione“[4]. Chiamando in causa uno specialista come Stuart Hall, uno dei più grandi studiosi inglesi del giornalismo, segnalava in un’importante rivista della Rai dell’epoca che, “malgrado i requisiti di obiettività, equilibrio di imparzialità (migliorati nel tempo), i media rimangono orientati all’interno della struttura del potere, facendo parte di un sistema politico e sociale strutturato sulla dominanza”[5].
Aggiornando questi stimoli intellettuali al contesto digitale, occorre aggiungere che l’idea di quanti credevano che bastasse aumentare l’informazione, la scolarizzazione e gli stimoli culturali per far diventare “migliori” gli uomini, si è rivelata, se non fallace, assolutamente ottimistica. È stata un’altra promessa mancata del digitale.
Il problema di fondo diventa allora quello di cogliere i fenomeni con cui si presenta la “nuova” informazione, entro un obiettivo di ricapitolare dati e ipotesi capaci di abbracciare l’interazione tra giornalismo, informazione e democrazia.
È necessario fermarsi a pensare, perché l’alluvione dei dati rischia di essere di ostacolo alla possibilità di adottare un pensiero strategico che ci permetta di gestire il disagio da overloading di news. Qui paghiamo il costo sociale più alto alla disintermediazione e al presunto sovranismo dei pubblici.
Per superare una tale stagione di crisi, il giornalismo deve tornare a essere una forma di benessere sociale e relazionale, in cui finalmente ricomincia a vivere l’altro di cui ci parla una celebre citazione di Paul Ricœur che così recita: “noi conosciamo l’altro… attraverso i racconti che lo riguardano”, mentre nelle narrazioni informative è difficile riconoscerlo.
Questo aspetto si palesa in tutta evidenza nel modo in cui il giornalismo italiano racconta i fatti di cronaca, e basta pensare a come e quanto vengono raccontati i “migranti”, e alla loro percezione esclusivamente negativa e luttuosa. E tutto questo avviene solo grazie al fatto che essi sono gli unici soggetti senza difesa.
Radici teoriche del mondo nuovo dell’informazione e bisogno di strategia
Come leggere dunque il mondo nuovo dell’informazione? Per rispondere a questa domanda occorre partire dalla tradizione culturale. Già a partire da Cassirer[6] e Durkheim abbiamo approfondito la dimensione della crisi, associata al tempo del cambiamento tumultuoso che da sempre stiamo vivendo: siamo uomini che vivono, e sono costretti a convivere, ascoltando la rima della crisi nei punti di riferimento.
Ciò spiega l’aumento, apparentemente incomprensibile e indiscriminato, di paure per sé e per l’altro. Nella crisi la disponibilità di creare e, nel tempo, cambiare simboli immaginari e di fatto ideologie (un termine che occorre ripristinare con forza), produce una nuova dimensione della realtà: è la prima volta che nella storia degli uomini la sovrastruttura culturale e sociale sembra in difficoltà a elaborare i contenuti.
Tutto questo deve spingerci a ricerche più penetranti sul tempo in cui viviamo, che non si accontentino delle parole e degli slogan dominanti.
Dobbiamo dotarci di un pensiero più strategico, partendo dalla constatazione che, senza un forte cambiamento della comunicazione, la nostra vita rinuncia ogni giorno a una soglia non negoziabile di benessere e di umanità.
Note
[1] Stiamo parlando anzitutto del Rapporto sul Consumo di informazione, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, AGCOM, Roma 2018; quel testo è stato aggiornato al 2020, ma un’ulteriore serie è stata pubblicata nel 2025 sempre a cura del Servizio studi e analisi tecniche di AGCOM con il titolo Osservatorio annuale sul sistema dell’informazione.
[2] Rinvio alla mia ricerca condotta per la Rai Tra privato e politico. Spazio e rappresentazione dei problemi sociali nel telegiornale, edito da Rai VPT, marzo 1979. Per un affresco più sistematico e aggiornato, rinvio alla mia antologia Neogiornalismo. Tra crisi e Rete, come cambia il sistema dell’informazione, prefazione di Sergio Zavoli, Mondadori Università, Milano 2011.
[3] Cfr. Franco Rositi, “L’informazione televisiva: frammentazione e ricomposizione dell’immagine della realtà”, in Rassegna Italiana di Sociologia, 1/1976, ripubblicata qualche anno dopo in Informazione e complessità sociale, De Donato, Bari 1978.
[4] Cfr. Franco Ferrarotti, “Informazione sociale, mass media e sviluppo umano”, in AA.VV., Mass media e razionalizzazione del sistema, FrancoAngeli, Milano 1974.
[5] Stuart Hall, “La comunicazione strutturata degli avvenimenti. Trattamento televisivo dell’informazione”, in Informazioni radio-tv, 1975.
[6] Ernst Cassirer, Saggio sull’uomo. Introduzione a una filosofia della cultura, Milano 1948.










